Elezioni a sorteggio come garanzia di imparzialità democratica
La democrazia ateniese è spesso definita come una democrazia “diretta” nella quale ogni mese migliaia di cittadini prendevano parte direttamente alle decisioni pubbliche. In effetti, però, il cuore del lavoro si svolgeva in seno ad altre istituzioni, più specifiche, come il Tribunale del popolo, il Consiglio dei cinquecento e le magistrature. Là, non era la totalità del popolo a esprimersi, ma un campione preso a caso, costituito mediante sorteggio. Il popolo ateniese non partecipava direttamente alle decisioni prese da questi ultimi collegi. Quindi in effetti, la democrazia ateniese non era proprio una democrazia “diretta”, ma una democrazia rappresentativa di tipo particolare, una democrazia rappresentativa “non elettiva”. Molto interessante il fatto che la rappresentanza popolare è costituita mediante sorteggio. Potremmo quindi parlare di una democrazia rappresentativa aleatoria. Le democrazie rappresentative aleatorie sono delle forme di governo indiretto, dove la distinzione tra governanti e governati sopraggiunge attraverso il sorteggio e non l’elezione.
La storia politica dell’Europa occidentale è più ricca di regimi di questo tipo di quanto si possa comunemente credere. La repubblica romana porta ancora qualche traccia del sistema di sorteggio ateniese, che però cade in disuso in epoca imperiale. Bisogna attendere il Medioevo e lo sviluppo dei comuni dell’Italia settentrionale perché questa procedura conosca un rinnovato interesse. Si vedono degli esempi precoci a Bologna (1245), a Vicenza (1264), a Novara (1287) e a Pisa (1307) ma è nelle due grandi città del Rinascimento, Venezia (1268) e Firenze (1328), che il fenomeno è meglio documentato.
A Venezia il sorteggio fu utilizzato per secoli per la designazione del capo dello stato, il Doge (da dux, “condottiero”). La Repubblica veneziana non era una democrazia, ma un’oligarchia diretta da alcune famiglie aristocratiche potenti: l’apparato di governo era nelle mani di un qualche centinaio di aristocratici, che rappresentavano soltanto l’1 per cento della popolazione totale. Da un quarto a un terzo di loro occupava praticamente tutte le funzioni ufficiali. Se si diventava Doge, lo si rimaneva fino alla morte, ma a differenza di una monarchia, la funzione non era ereditaria. Per evitare i dissapori tra le famiglie interessate, si faceva appello nella designazione del nuovo Doge al sorteggio, ma per essere sicuri di avere una persona competente a capo dello stato insulare, si associava a questa procedura quella delle elezioni. Il risultato era un processo incredibilmente complesso.
A Firenze il sistema era diverso. Il sorteggio avveniva con l’imborsazione, “mettere in borsa” o “ mettere nell’urna”. Anche qui, lo scopo era di evitare i conflitti tra i diversi gruppi d’interesse rivali all’interno della città, ma i fiorentini si spingevano, a questo riguardo, molto più in là dei veneziani. Essi intendevano attribuire per sorte non solo la funzione di capo dello stato, ma quasi tutti gli incarichi amministrativi e di gestione pubblica. Se Venezia era una repubblica di famiglie patrizie, Firenze era una repubblica dominata dall’alta borghesia e dalle potenti corporazioni. Come nell’antica Atene, le principali istituzioni erano occupate da cittadini estratti a sorte: il governo (la Signoria), il consiglio legislativo e i commissari del governo. La Signoria era, come il Consiglio dei cinquecento ad Atene, l’organo esecutivo supremo, incaricato della politica estera, del controllo amministrativo e anche della preparazione dei testi di legge.
A differenza di Atene, tuttavia, i cittadini non avevano il diritto di presentarsi di propria iniziativa, dovevano essere proposti dalla loro gilda, dalla loro famiglia o da un’altra organizzazione, solo allora erano chiamati i nominati. In seguito avveniva una seconda selezione: con il suo voto, una composita commissione di cittadini determinava chi potesse essere selezionato per esercitare le funzioni amministrative. A quel punto si svolgeva il sorteggio. Più tardi si eliminavano i nomi di coloro che, per esempio, avevano già esercitato un mandato o avevano subìto una condanna.
Mentre il modello veneziano era ripreso in città come Parma, Ivrea, Brescia e Bologna, il sistema fiorentino era applicato a Orvieto, Siena, Pistoia, Perugia e Lucca. Numerosi e prosperi contatti commerciali lo portarono fino a Francoforte. Nella penisola iberica, molte città del regno di Aragona adottarono la procedura, come Lerida (1386), Saragozza (1443), Girona (1457) e Barcellona (1498). Il sorteggio ricevette il nome d’insaculación, letteralmente “mettere in borsa”, traduzione spagnola d’imborsazione. Anche qui, questa pratica mirava a favorire la stabilità garantendo un’imparzialità nella ripartizione del potere pubblico. La questione di sapere chi avrebbe avuto il privilegio di esercitare un mandato nella città o nel comune, di sedere al collegio elettorale, non era più oggetto di dispute continue, ma era risolta rapidamente e in tutta neutralità.
Nel Diciottesimo secolo, il secolo dei Lumi, grandi filosofi hanno esaminato l’organizzazione dello stato democratico. Montesquieu, il fondatore dello stato di diritto moderno, fece propria nel 1748, nella sua opera “Lo spirito delle leggi”, l’analisi che Aristotele aveva fatto duemila anni prima: “Il suffragio a sorte è proprio della natura della democrazia, il suffragio a scelta lo è di quella dell’aristocrazia”. Anche a lui, il carattere elitario dell’elezione appariva fin da principio come un’evidenza. Al contrario, affermava, “la sorte è un modo di eleggere che non affligge nessuno; lascia a ciascun cittadino una ragionevole speranza di servire la patria”. Il rischio evidente di far accedere al potere, attraverso il sorteggio, persone incompetenti, doveva quindi essere corretto dalla selezione, dall’autoselezione o dalla valutazione. Montesquieu lodava pertanto la democrazia ateniese, dove i magistrati, nel momento in cui lasciavano le loro funzioni, dovevano render conto del proprio operato, cosa che “accomunava nel contempo la sorte e la scelta”.
In conclusione possiamo dire che il sorteggio è stato usato in diversi stati fin dall’antichità come strumento politico a pieno titolo e l’utilizzo del sorteggio coincideva spesso con l’apogeo della ricchezza, del potere e della cultura (Atene nel Quinto e Quarto secolo, Venezia e Firenze nel Rinascimento). Il sorteggio conosceva applicazioni e procedure diverse, ma generalmente aveva come effetto quello di ridurre i conflitti e aumentare il coinvolgimento dei cittadini. Gli stati che ricorrevano al sorteggio hanno spesso conosciuto secoli di stabilità politica nonostante le forti opposizioni interne tra gruppi rivali. Il microstato di San Marino ha continuato a utilizzare il sorteggio fino alla metà del Ventesimo secolo per designare i due governanti tra i sessanta membri del suo consiglio. Il sorteggio garantisce stabilità ma soprattutto imparzialità democratica.
Nicola Sparvieri
Foto © Centro Studi Livatino