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Estinzione delle specie e biodiversità

Cinque estinzioni di massa hanno segnato la storia del pianeta e la sesta potrebbe essere già in corso. Esse hanno richiesto, ciascuna, circa dieci milioni di anni di evoluzione perché la vita potesse riprendersi. Nel corso della storia del pianeta abbiamo avuto: Ordoviciano-Siluriano (circa 450 milioni di anni fa); Devoniano superiore (circa 375 milioni di anni fa); Permiano-Triassico (circa 250 milioni di anni fa); Triassico-Giurassico (circa 200 milioni di anni fa) e infine Cretaceo-Paleocene (circa 65 milioni di anni fa). Non possiamo permetterci di ricominciare.

L’umanità deve prendere una decisione adesso: conservare l’eredità naturale della Terra o lasciare che le future generazioni si adattino a un mondo biologicamente impoverito. Non ci sono alternative. Ci sono comunque altre proposte, del tipo: conserviamo i milioni di specie e di razze sopravvissute congelando uova fecondate o campioni di tessuto per riportarle in vita successivamente. Oppure: archiviamo il codice genetico di ciascuna specie e proviamo a ricreare gli organismi più tardi.

Anche se la biodiversità minacciata della Terra, in tutta la sua immensità, potesse essere rianimata e si potessero ottenere delle popolazioni, per restituirle a una improbabile vita nel XXII secolo, la ricostruzione di popolazioni vitali, in grado di sopravvivere da sole, è irrealizzabile. Nessuno sa come poter costruire un ecosistema autonomo complesso da zero. E prima che trovino il modo di farlo potrebbero scoprire che le condizioni di vita su un pianeta ormai antropizzato rendono una tale ricostruzione impossibile.

L’umanità si è infilata nel collo di bottiglia di un consumismo distruttivo. Inoltre, soffre di problemi di sovrappopolazione, che potrebbe terminare alla fine del secolo, quando la popolazione mondiale raggiungerà i nove miliardi di persone, il 50 per cento in più che nell’anno 2000, prima di cominciare a diminuire. Nel frattempo, aumenterà anche il consumo pro capite, accrescendo la pressione sull’ambiente. Ma questa può essere in gran parte tenuta sotto controllo con la tecnologia già esistente, che permette di aumentare la produzione in modo sostenibile, riciclando i materiali e utilizzando fonti di energia alternative. Tale cambiamento sembra in ogni caso inevitabile perché è nelle leggi del darwinismo economico: le imprese e le nazioni che si impegneranno nei nuovi miglioramenti tecnologici saranno economicamente i leader del futuro.

È in atto una corsa contro il tempo che deciderà il destino della maggior parte della biodiversità della Terra. La posta in gioco è chiara: salvare la biodiversità nei prossimi cinquant’anni o perdere nel frattempo un quarto o più delle specie. Per sapere se in questo breve lasso di tempo la sfida contro l’apocalisse può essere vinta o persa bisogna partire dalla geografia della vita sulla Terra, dal principio che le specie non si ripartiscono uniformemente sul pianeta, ma si concentrano principalmente in particolari zone, denominate punti caldi (hot spots). I punti più “caldi” in assoluto, quelli con la maggior ricchezza di specie e che più degli altri necessitano della nostra attenzione immediata, si trovano in varie parti del mondo, talvolta in luoghi decisamente inaspettati. Quelli identificati sulle terre emerse da Conservation International nel 2006 comprendono, in particolare: La macchia mediterranea. La foresta tropicale del Messico meridionale e dell’America centrale. Le foreste e gli habitat a clima secco delle isole caraibiche, specialmente Cuba e Santo Domingo. Le foreste tropicali delle pianure e dei rilievi montuosi della regione andina. La savana del Brasile. La foresta della costa atlantica del Brasile. Le foreste e gli habitat a clima secco del bacino del Mediterraneo. Le foreste del Caucaso. Le foreste della Guinea, nell’Africa occidentale.

I diversi habitat della regione del Capo, in Sudafrica. I diversi habitat del Corno d’Africa. I diversi habitat, ma specialmente le foreste, del Madagascar. Le foreste pluviali dei Ghati occidentali, in India. Le foreste pluviali dello Sri Lanka. Le foreste dell’Himalaya. Le foreste della Cina sudoccidentale. La maggior parte delle foreste dell’Indonesia. Le foreste pluviali delle Filippine. Le lande dell’Australia sudoccidentale. Le foreste della Nuova Caledonia. Le foreste delle Hawaii e molti altri arcipelaghi del Pacifico orientale e centrale.

Tra questi punti caldi, o più precisamente tra gli habitat ancora intatti e biologicamente ricchi che vi si trovano, ve ne sono 34 che, pur coprendo appena il 2,3 per cento della superficie emersa della Terra, sono l’habitat esclusivo del 42 per cento delle specie di vertebrati del pianeta (mammiferi, uccelli, rettili e anfibi) e del 50 per cento delle piante da fiore.

I punti caldi non sono semplicemente i punti dove si concentra la biodiversità. Sono anche i luoghi dove si trovano molte delle specie più vulnerabili del pianeta. La grande maggioranza delle specie che la Lista Rossa dell’IUCN (Unione Mondiale per la Conservazione della Natura) classifica come “minacciate” o “gravemente minacciate” vivono in questi 34 punti caldi. Esse comprendono il 72 per cento di tutti i mammiferi, l’86 per cento di tutti gli uccelli e il 92 per cento di tutti gli anfibi.

Per misurare la biodiversità si preferisce fare riferimento al numero di specie perché queste costituiscono unità naturali dell’evoluzione. Esse si possono circoscrivere meglio degli ecosistemi e sono più facili da identificare dei complessi insiemi di geni che le sottendono specificamente. Le specie presentano nondimeno un inconveniente come unità di misura della biodiversità. Spesso fanno parte di gruppi che si sono evoluti in tempi recenti, in alcuni casi da poche migliaia di anni, e si differenziano poco dal punto di vista genetico.

La maggior parte dei primi studi sui punti caldi riguardava solo ambienti terrestri. Dall’anno 2000, criteri di analisi simili sono stati applicati agli ambienti marini. Tre dei quattro principali tipi di habitat, vale a dire gli estuari, le barriere coralline e altri ambienti delle acque poco profonde, e il fondo oceanico, risultano frammentati in piccoli siti che sono spesso minacciati in modo simile ai punti caldi continentali. Il quarto tipo di habitat, il mare aperto, ha una ricchezza biologica che varia da un punto all’altro del globo, ma le sue caratteristiche locali sono difficili da definire a causa delle frequenti migrazioni compiute da numerosi pesci oceanici e altri organismi che vivono nei mari aperti.

Nicola Sparvieri

Foto © Habitante.it

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