Intervista a GABRIELLA GIORGELLI
GABRIELLA:
un’attrice dagli occhi magnetici e dai modi schietti
Ha lo sguardo magnetico, Gabriella Giorgielli. Ma i modi schietti non hanno nulla a ché vedere con le star in cui s’identificano gli spettatori allergici ai dispendi di fosforo. Alla fama preferisce sapere che alcuni dei film che l’hanno vista partecipe, anche da protagonista, sono riusciti a cavare il sangue dalle pietre. Strappando un sorriso agli intellettuali persuasi che il gioco fisionomico conti poco rispetto alle soluzioni espressive dei registi eletti ad autori.
È stata diretta dai maestri della nostra cinematografia, incluso il compianto Bernardo Bertolucci. Il primo e finora unico italiano a ricevere l’Oscar come miglior regista. Si sono conosciuti quando stavano agli inizi, quasi sessanta primavere or sono. Nel suo caso non c’è traccia d’intellettualismo. Ed è un bene. Il suo fuoco sacro è alieno all’improntitudine del Metodo Stanislavskji.
A un certo punto, in modo simile all’amico Tomas Milian, ha scelto di comparire nel modesto cinema di presa immediata. Non quello dei nobili artigiani pronti a ispirare epigoni ancor oggi restii a riconoscere il debito. Tuttavia, al riguardo, Gabriella non accampa scuse né si nasconde dietro a un dito. Al prestigio delle creature immortali, destinate anch’esse a coniugare la loro vita terrena all’imperfetto, privilegia il fascino della bontà. Profuso nel ruolo di Adele nella commedia ‘malincomica’ “I compagni” di Monicelli.
Grazie anche al carattere d’autenticità, frutto dei sani slanci degli anni verdi, la rievocazione del primo sciopero in Italia, alla fine dell’Ottocento, paga meno dazio all’enfasi populista di quanto avrebbe fatto altrimenti mischiando ai rimandi al libro “Cuore” solo la capacità di ridere amaramente. Persino un ex della Decima Mas, del calibro di Piero Vivarelli, un altro ‘maledetto toscano’, che non sarebbe dispiaciuto a Curzio Malaparte, la volle dirigere. Senese, amante della storia, amico prima del Principe Borghese, poi di Fidel Castro, a Cuba, dove era di casa ed ergo decise di ambientare il suo ultimo film, Piero s’intese con Gabriella sul piano umano. La toscanità cosiddetta “di scoglio”, tipo quella mescolanza di sapori contenuta nelle prelibatezze di mare care a quei ‘volponi’ dei livornesi, costituisce il miglior antidoto al tempo perduto.
La voglia di vivere, gioire e sbalordire è quella dei bei tempi. Non si cura delle vicende dei compatrioti fulminati sulla via di Damasco. A lei interessa la coerenza di non intralciare il mezzo tecnico e di sostituire il vezzo delle inquadrature lusinghiere con la virtù di dar corpo e anima a personaggi profondamente sentiti. Anche se l’estrema frammentazione dialettale e l’alta densità lessicale la trovano da sempre meno pronta.
È comunque una regina della porta accanto, con gli occhi da gatta, a volte accigliata, altre impetuosa, come un fiume in piena, ma decisa a nutrire lo spirito. Tanto nei banchetti conviviali quanto nei confessionali sui generis. Ha il culto dell’amicizia e il dono della perseveranza, insieme alla simpatica impertinenza. C’è quanto basta per un colpo di coda nel buio della sala. A illuminarla sarà una stella che dal cielo le indica la via: la sua mamma.
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1) È stato Pier Paolo Pasolini ad accorgersi di te. Come sei riuscita a cogliere la palla al balzo?
Ero poco più ché una creatura: venivo da Livorno con tante speranze, ma anche col proposito di combinare sul serio qualcosa. Il mondo del cinema mi piaceva. A Miss Italia arrivai in finale, ma quando si accorsero che avevo barato sull’età fui eliminata. Ed è lì che costruii la mia fortuna.
2) L’esclusione finale t’innescò la molla del riscatto, alimentando una ferrea volontà di affermazione.
Assolutamente sì. Pasolini era in procinto di girare “Mamma Roma” e non aveva tempo per girare pure “La commare secca”. Coinvolse perciò Bernardo Bertolucci, che era stato il suo aiuto-regista in “Accattone”. Io, secondo Pier Paolo, non ero adatta ad affiancare Anna Magnani nel mondo della prostituzione. E ti credo! Che ne sapevo della periferia romana?
Pasolini sostenne che avevo però le carte in regola per impersonare un ruolo nel film d’esordio di Bernardo. Io finsi di essere ospite di un’amica. Poi mi affrettai a trovare un impiego: non avevo i mezzi per attendere i loro tempi. Disponevo solo dei soldi per tornare a casa col treno. Dopo essere stata assunta come donna di servizio da una contessa, diedi il suo numero di telefono alla produzione. Che te lo dico a fare? Una paura! Ma è andata meglio di quanto sperassi.
3) Fu una sorta di allenamento. Bertolucci pure esibì subito uno stile d’autore: il movimento di macchina da destra verso sinistra, che introduce il tuo personaggio, e quello della cinepresa a spalla, quando Bustelli ed Esperia si azzuffano, sono autentiche chicche. Con te fu autoritario o dolce?
Fu dolce, ma era già un autore. Come sostieni tu, che ne capisci, il movimento di macchina da destra verso sinistra mostra contesti un po’ contro natura. Da sinistra verso destra invece si scrive. Hai ragione. Non ci avevo mai pensato, ma Bernardo sapeva il fatto suo. Quella direzione opposta anticipava la sottoscritta, nei panni di Esperia, che ne dice di tutti i colori alla mamma napoletana. Non mi sarei mai sognata di rivolgermi in quel modo a mia madre, che mi ha generato e si è tanto sacrificata affinché avessi un avvenire migliore del suo. Ma recitare significa fare cose che non faresti nella vita. E Bertolucci si servì della mia qualità spontanea per non battere più di due ciak per scena: entrai appieno nel personaggio, pur così truce, e la troupe mi riservò moltissimi applausi. Specie Bernardo. Ormai era divenuto il mio mondo.
4) Mario Monicelli era meno prodigo di elogi, nondimeno nel suo film “I compagni” ti volle come protagonista. Ed era un cast coi fiocchi. Frutto della co-produzione italo-francese. Ti sentivi ormai scafata o avvertivi del timore reverenziale?
Ero felice, decisa a fare bene. Dapprincipio avevo un ruolo minore. Divenni invece la protagonista femminile, nella parte di Adele. C’erano Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, nel ruolo di Raoul, Folco Lulli, una forza della natura, nei panni del Botasso, il padre proprio della Adele. Così mi chiamavano: la Adele. “Bestia di un ridicolo!” gli urlavo, al ‘mio papà’, per frenarlo nelle sue uscite animalesche e fuori luogo. In una scena, che abbiamo rivisto insieme, arrivai a morderlo per impedirgli di accoppare un altro operaio, un compagno. Che risate! Come dimenticare pure Anne Girardot, Bernard Blier e Mario Pisu, che fa il capo, paternalista e tiranno? Nessuno di loro però mi mise in soggezione. Stavo come in famiglia.
5) Alberto Moravia scrisse che la tua vivacità spiccava su tutto. Sei contenta di aver ricevuto dei complimenti da un critico così altero?
Mi lusinga. Moravia, anche se era ritenuto un intellettuale burbero, fu carino con me. Sapevo stare al mio posto. Non ero d’intralcio, né facevo perdere tempo. In “Io e lui” fui l’unica, secondo Alberto, ad aver aderito al suo romanzo. La trasposizione non gli piacque, ma la mia prova sì.
6) Ci mettevi del tuo. Come nel ruolo di Adele, specie nei piani-sequenza lungo i terreni acquitrinosi o quando gli operai scavalcavano il muro per prendere il carbone. L’apice viene raggiunto con l’omaggio al cinema muto nel saluto a Raoul. Là è stato Monicelli a metterci del suo?
Comprese che c’era della simpatia con Salvatori. Vorrei vedere, un gran figo! Stava insieme, ai tempi, ad Anne Girardot. Gli sguardi, nonostante la mia timidezza, erano più eloquenti di ogni parola. E Mario infatti coprì il dialogo d’addio col rumore del treno. Io ci misi gli occhi. L’ubbidienza agli ordini impartiti non costituiva un peso per me. Monicelli era rispettoso, anche se severo, e attento a ricavare il meglio dagli attori e dalle attrici. Certi momenti furono pure avventurosi. Quel muro lo scavalcai sul serio.
Lo schiaffone che diedi poi a Salvatori, che mi aiutò a scendere tastandomi, non era nel copione ma Monicelli ne fu soddisfatto. È bello così. Come il percorso, pieno di pozzanghere e di verità, per andare a lavorare alla fabbrica tessile di Torino o la sequenza coi bellissimi chiaroscuri tra me e Salvatori dopo la tragica morte del Botasso.
7) Il bianco e nero impreziosì gli interludi in un contesto da commedia dell’arte. Sei stata diretta da fior di registi. Se parliamo di tutti, facciamo notte. Fellini, per dirne uno, nell’immaginifico film “La città delle donne” seppe toccare le tue corde?
Fellini era un regista geniale. Aveva tutto un suo mondo in testa. Colmo d’incanti, di sorprese. E infatti una volta mi colse proprio di sorpresa. Mi chiese di ricambiare in pubblico, nell’inquadratura, gli sguardi che gli facevo in privato. Diede a intendere che c’era del tenero tra noi. Cosa non vera. È chiaro che lo fece per ottenere dalla mia mimica un misto di espressioni utili. Ma stavo ugualmente per mandarcelo. Non sono mai stata il tipo d’attrice che offre le sue grazie per fare carriera. Mi frenarono dal diglierne quattro: mi avrebbe cacciato seduta stante. E sarebbe stato un peccato. Era un piccolo ruolo, quello della pescivendola, in un grande film, immaginifico, come sottolinei tu, di cui conservo un buon ricordo.
8) Con Dario Argento ci furono scintille sul set dell’horror spurio “M.D.C. – Maschera di cera”. È giusto che un’attrice, se sbaglia una battuta, possa ripetere la scena. Lui era prevenuto?
Sì. Mio marito, Giuseppe Colombo, che tu Massimiliano conosci, è stato per diverso tempo direttore commerciale della Canon Italia e ha anche prodotto diversi film di Dario. Il loro sodalizio ha dato buoni frutti, pure senza di me. Io non ho comunque mai voluto raccomandazioni. Il ruolo della cieca nel film “M.D.C. – Maschera di cera” costituisce l’eccezione che conferma la regola. A lui non andò giù e prese ad attaccarmi.
Dovevo mandare a memoria un lungo monologo ed ebbi un minimo di difficoltà all’inizio. Mi attendeva al varco e alla prima indecisione, che può capitare, si stizzì al punto da lasciare il set al grido: lo sapevo! Lo bloccai: “Rifacciamolo!”. Il monologo venne poi bene. Dario lasciò lo stesso la regìa a Sergio Stivaletti. Non gli andava a genio l’idea di sentirsi un ripiego. Ci sarebbe infatti dovuto essere Lucio Fulci, ma, poverino, morì prima d’iniziare a girare. Divenni così un pretesto. Sono però una che lotta.
9) Questo è certo, Gabriella. Tuttavia non hai aderito alla battaglia identità-volto condotta da Gian Maria Volonté. È stata una rinuncia dolorosa?
Certo, mi è dispiaciuto essere doppiata la maggior parte delle volte. Ma l’ho accettato. Non si può avere tutto. Le ragioni sono state per lo più economiche. La tempistica, come sai, è sempre un fattore che nel cinema conta tanto. Ci si impegna per attenersi al periodo stabilito. E il doppiaggio aiuta ad affrettare. È una forma di professionismo che consente, fuori dal suono in presa diretta, di concludere tutto come si deve. Rispetto molto questi valori commerciali. Peraltro non sono granché brava coi dialetti e spesso ho interpretato popolane provenienti da luoghi diversi.
10) Un altro artista che rispettava i valori commerciali ma aveva grinta da vendere era Piero Vivarelli, che ti ha diretto nel film “La rumbera”. La vostra toscanità è stato un valore aggiunto?
Abitavamo entrambi a Roma Nord, sulla Cassia (a dire il vero io ci abito ancora). C’incontravamo spesso. Mi piaceva il suo modo di fare: schietto e signorile. Mi propose la parte della mamma della protagonista. Accettai volentieri. Il set a Cuba fu perfetto. La produzione non badò a spese. Piero sapeva mettere la gente a proprio agio. A nessun regista piace fermare la recitazione per far ripetere la stessa scena a oltranza. Ma Piero era in possesso di parecchio carisma, da senese tosto che rispettava gli altri e si faceva rispettare. Sapeva fare le cose al meglio. Con determinazione.
11) Lo so. Nel 2009, quando progettai per la Link University of Malta di Roma un seminario intitolato “Il debito del cinema d’autore”, lo coinvolsi. Parlammo a lungo del Principe Valerio Borghese e dell’onore patrio. Vivarelli era un reduce della Decima Mas, poi divenne amico di Fidel Castro a Cuba. Lo ritenevi comunque coerente a modo suo?
Non mi sono mai posta la questione. Non sto dietro alle vicende del passato come te, che sai tante cose sulla storia oltre ché sul cinema. Sono una persona semplice. Credo che tutti abbiano diritto a ritagliarsi un proprio spazio nella società per raggiungere gli obiettivi prefissi ed essere felici. Quello che posso dire di Piero è che era un signore. Teneva fede alla parola data. Se diceva una cosa, era quella. A Cuba lo rispettavano.
Anche fuori dal set riusciva a coordinare tutto come serviva. Era pure un formidabile paroliere e sapeva valutare i fattori artistici necessari al successo di un’opera.
12) A volte la ricerca del successo, che passa attraverso il pubblico dai gusti semplici, porta, come si dice, a mettere l’arte da parte. Ti dà fastidio essere conosciuta più per Cinzia Bocconotti ché per i tanti ruoli nei film d’autore?
Ho preso l’arte e l’ho messa da parte perché la mia mamma stava male. Dovevo curarla e mi occorrevano i soldi. E i film con Tomas Milian nei panni dello sboccato commissario Nico Giraldi, come “Delitto sull’autostrada”, dove io interpreto appunto Cinzia Bocconotti, pagavano bene. Il fatto che mi fermino per strada e mi riconoscano per questo personaggio, che se la fa coi pugili allenati dal fidanzato, incapaci poi di sostenere i match di boxe, rientra nella norma: a molti spettatori, al cinema, interessa solo divertirsi. Senza pretese.
13) Eppure Tomas Milian ci tenne a precisare nel libro “Monnezza, amore mio” che quel personaggio sboccato, ma anche sensato ed estroverso, fu stupendo da interpretare per una persona chiusa com’era lui. Credi che sia meglio comparire in film capaci di stimolare la gente in termini intellettuali?
È una gioia aver interpretato dei bei personaggi in film di grande pregio artistico. Un conto sono quelli che si sono fatti quattro risate con Cinzia Bocconotti, a cui però va la mia simpatia, e un altro è parlare con esperti tipo te. Sarebbe bello se, oltre ad aver allietato le persone affezionate al commissario Giraldi, quei film le avessero rese più sensibili. Tomas era davvero l’opposto di Girardi. Io ne apprezzavo la dolcezza.
14) Interpretare la madre di un’attrice che per le cure sceglie i ruoli pagati meglio, chiuderebbe il cerchio. Si può prendere una cosa amara, come un limone, e ricavarne una dolce come una limonata?
Mi hai dato un’idea. Sarebbe bello se ciò avvenisse. Ci vuole un bravo sceneggiatore. Magari ci pensi te: scrivi bene. Poi contattiamo un regista all’altezza. Si fa così, tanto per dire. Però non si sa mai. Sono una che nei progetti, pure difficili, ci crede. Posso ancora dire la mia. Staremo a vedere.
MASSIMILIANO SERRIELLO