I “CATTIVI PENSIERI” di Paul Valèry …e certe assurde “Sentenze della Magistratura”
Quando una “Convenzione” viene presentata come un “Dovere” _________di Francesco Ricci *
Nell’ottobre del 1942 Paul Valéry diede alle stampe, per i tipi di Gallimard, Cattivi pensieri, una raccolta di aforismi, alcuni dei quali brevissimi, che hanno come tema l’amore, la letteratura, la società, la storia, la morte, il tempo, l’uomo, l’umanità. Quasi all’inizio del libro al lettore accade d’imbattersi nella seguente considerazione:
“Convenzioni. Alcune fanno sì che ciò che non esiste esista, altre che non esista ciò che esiste. Ma le seconde sono più rare e ardue delle prime”.
Altro non è che una convenzione, vale a dire un uso accettato e seguito dalla maggioranza, anche l’astenersi dal commentare una sentenza del tribunale, sebbene ciò sia presentato spesso più come un dovere che come una consuetudine. “Le sentenze non si discutono, si rispettano”, “le sentenze non si commentano”, “le sentenze non si discutono, ma si appellano” (*1), infatti, sono solamente alcune delle formulazioni che, complice il tono impiegato, rendono la convenzione in questione in tutto e per tutto simile a un obbligo di legge, a conferma di quanto frequente (e colpevole) sia il passaggio, per dirla con Valéry, dalla non esistenza all’esistenza di un dovere per i parlanti.
La conseguenza è duplice. Da un lato, chi formula le sentenze – la magistratura giudicante – assume l’aspetto di una divinità remota, inviolabile, infallibile; dall’altro, chi osa contravvenire all’uso di non proferire parola in merito al verdetto, scade immediatamente, nell’opinione dei più, al rango di sovversivo, di nemico pubblico, di attentatore alla stabilità e al buon funzionamento della democrazia.
Indubbiamente questa “pratica del silenzio” è stata favorita anche dal fatto che in Italia la memoria storica è sempre stata coltivata pochissimo, come lamentava già nei primi anni Settanta Pier Paolo Pasolini nei suoi articoli poi confluiti in Scritti corsari. E così è potuto accadere anche che tantissimi casi di ingiusta detenzione e tantissimi errori giudiziari siano stati dimenticati, rafforzando nei più la convinzione che la magistratura, tanto quando svolge la funzione inquirente (e requirente) quanto quando svolge la funzione giudicante, è immune da sbagli. Che senso può avere, dunque, mettere in discussione le azioni e le parole di chi, nel perseguire il giusto e il conveniente, sa risultare sempre perfetto? Nessuno. Perciò le sentenze non si commentano, è bene non commentarle.
Ma chi, come me, aveva diciotto anni quando, all’alba del 17 giugno del 1983, Enzo Tortora venne arrestato, e ne aveva venti quando, il 17 giugno del 1985, venne condannato a dieci anni di reclusione con la falsa accusa di traffico di stupefacenti e associazione di tipo mafioso, non può fare a meno di guardare con maturo realismo, rifiutando, cioè, ogni preventiva apologia e respingendo ogni faziosa celebrazione, alla maniera d’intendere e di gestire la giustizia in Italia.
Col caso Tortora, che Giorgio Bocca definì “il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese” – con nessuno, neppure tra i giudici, che abbia mai pagato per quanto successo – ebbe inizio la mia scarsa considerazione per la legge, per il sistema giudiziario, per chi lo amministra. E proprio perché non riesco a dimenticare quell’episodio, tanto fu enorme, esso torna a visitarmi, riportandomi indietro nel tempo, ogni volta che sento parlare di vittime accertate di ingiusta detenzione e di errori giudiziari. Cosa che accade spesso, molto spesso, se è vero che dal 1991 al 2022 sono finite in carcere ingiustamente più di trentamila persone (in media poco meno di mille all’anno), con l’Avvocatura di Stato spesso a opporsi a ogni ipotesi di risarcimento.
Forse è per questo che trovo intollerabili le esortazioni a non commentare le sentenze. Intollerabili e insincere. Perché a rivolgerle sono spesso gli stessi che celebravano acriticamente, ai tempi di Tangentopoli, l’operato de “il pool di Mani Pulite”, e compiaciuti amavano ripetere, mentre sorseggiavano l’aperitivo o sfogliavano il giornale, che “non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti”, riecheggiando le parole di uno degli esponenti di punta della Procura di Milano, allora guidata da Francesco Saverio Borrelli.
Parole che sarebbero state sufficienti – se solo si avesse avuto la voglia e la pazienza di soppesarle, anziché pronunciarle con l’ossequio dovuto a un articolo di fede – a far capire come l’azione di quei magistrati apparisse poco rispettosa del nostro modello costituzionale di giurisdizione penale. Conciliarle con il secondo comma dell’articolo 27 della nostra Costituzione (“l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”), infatti, a me sembra impresa ardua, a meno che il principio di legalità e quello di legittimità, che Carl Schmitt in Legalität und Legitimität giudicava opposti e distinti, non vengano accostati sino a renderli sovrapponibili.
Ma in poche nazioni come in Italia, la lettura che si offre della legge fondamentale dello Stato è parziale, quando non addirittura di comodo.
*FRANCESCO RICCI, Fiorentino, classe 1965, vive a Siena
ove è docente di letteratura italiana e latina, nonché autore di
numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al
Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento.
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POST-IT > (N.d.R.)
(*1) “Le sentenze non si discutono, si rispettano” // “le sentenze non si commentano” // “le sentenze non si discutono, ma si appellano” ………. Infatti la MAGISTRATURA GIUDICANTE, grazie alla sua indiscutibile “autoreferenzialità”, ritenendosi al di sopra di qualsiasi Istituzione dello Stato, si è attribuita probabilmente una presunta Superiorità Morale che, a suo tempo, Enrico Berlinguer aveva ipotizzato poter attribuire al P.C.I., trasformatosi – tramite Metamorfosi Kafkiane – successivamente in P.D.S., poi in D.S., infine in P.D. ….con una scia di macro e micro scissioni collaterali.
Trattasi forse di uno dei tanti “Cattivi Pensieri” ? Trattasi comunque di una tematica su cui sarebbe opportuno aprire un ampio dibattito anche con la partecipazione dei nostri amici e collaboratori Francesco Ricci e Massimo Rossi.