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I Problemi della “NOTIZIA” nell’ Epoca delle “Nuove Tecnologie”

IL RAPPORTO TRA L’INFORMAZIONE E I MULTIMEDIA:
VECCHIE REGOLE ED ETICA SEMPITERNA

Le lagnanze di chi rievoca a ogni piè sospinto i tempi passati e vede nel nuovo che avanza un chiaro segno d’involuzione, a dispetto della forza della tradizione ed ergo della consuetudine, lasciano, il più delle volte, il tempo che trovano. In tutti i sensi. Tuttavia, in qualche circostanza, persino il tanto vituperato rimpianto, quantunque sintomo di un’incapacità ad adattarsi ai cambiamenti, fa la spia a certe contraddizioni perlomeno curiose. In primo luogo appare chiaro che alla corsa all’adeguatezza al presente partecipino anche persone ideologicamente contrarie agli effetti della modernizzazione ma decise a non perdere il treno. Così da restare agganciate al ventaglio di possibilità e convenienze ad appannaggio di una divulgazione di messaggi di presa immediata. Senza alcun intoppo, quindi, tra emittenti e destinatari. Basti pensare, in tal senso, a Giampiero Mughini. Personaggio televisivo e polemista, balzato agli onori della cronaca come ospite fisso della trasmissione Controcampo, nei panni assai discussi di juventino di provata fede, però al contempo uomo d’indubbia cultura affezionato alla stesura giornalistica caduta in disuso.

La mitica macchina da scrivere Olivetti gli procura, pure nel vederla in un programma incentrato sul viale dei ricordi, sussulti che è troppo comodo bollare solo ed esclusivamente come ‘nostalgici’. Nel suo caso è la lettera 32 ad animare un sentimento di profonda tenerezza ed empatia per l’arte argomentativa, tipica degli antichi retori, agli antipodi con l’inane schiamazzo massmediatico. La lettera 22, invece, era quella dell’impareggiabile Indro Montanelli.

Un uomo libero, intento ad anteporre lo spirito della propria autonomia critica a qualsivoglia mira opportunista. L’accezione negativa della retorica, intesa al pari di un’ampollosa ricerca dell’effetto sulla scorta d’inutili sfoggi ed elucubrazioni fini a se stesse, non è mai stata un suo problema. Né i padroni del vapore hanno esercitato un ascendente tale da cambiare di una virgola gli articoli buttati giù a beneficio dei suoi lettori. Era una miniera di aneddoti, con un’avversione particolare nei riguardi delle scorciatoie del cervello insite negli stereotipi e delle ipocrisie dei soliti opportunisti convinti di passare per fulgidi esempi di orgoglio. Sosteneva di essere sempre rimasto fedele al consiglio di un collega americano: «Scrivi in modo che ti possa leggere un lattaio dell’Ohio».

Niente paroloni, perciò, a sostegno di una densità lessicale già impreziosita dal valore terapeutico dell’umorismo in grado di metterlo a riparo dall’impasse di voler apparire schietti per poi risultare asserviti alle discipline di fazione condizionate dal carrierismo e ai movimenti di schieramento dovuti ad atteggiamenti avvezzi all’insulsa, seppur utile, cortigianeria.

Il suo buon amico Giovannino Guareschi, accusato dallo stesso Montanelli di atteggiarsi a esperto della roba fatta in casa e dei lavori di falegnameria ed elettronica, era totalmente estraneo alla ridicolaggine dei corrispondenti desiderosi di trovare un posto al sole. Alle banalità scintillanti della propaganda prediligeva la fragranza dell’imprescindibile sincerità. Anche quando accusò, sulle pagine del settimanale Il Candido, l’ex Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi di aver chiesto in tempo di guerra al comando alleato di bombardare Roma. Le lettere pubblicate si dimostrarono false, ma il Papà di don Camillo, Guareschi per l’appunto, rifiutò di chiedere la grazia. Riteneva di essere nel giusto e, quantunque fosse stato prigioniero dei lager tedeschi di Częstochowa e Beniaminów in Polonia e poi in Germania, a Wietzendorf e Sandbostel, redigendo il libro umoristico Diario clandestino per raccontare un’esperienza che lo fece divenire uno scheletro d’uomo, preferì scontare dell’altro carcere duro a Parma piuttosto che chiedere scusa.

Montanelli ebbe, a suo dire, un violento alterco con l’ostinato e fiero Giovannino incurante che l’intellighenzia di sinistra, a cui lui aveva reso la vita difficile rivelando gli strafalcioni celati dietro le pose erudite, non gli riconoscesse una quotazione letteraria di alcunché. Se ne infischiava di sembrare un fine dicitore. Gli premeva molto di più dire le cose pane al pane e vino al vino. Il 25 aprile 1954 fece recapitare ai suoi difensori al processo De Gasperi-Guareschi una missiva chiara come il sole: «Egregi Avvocati Michele Lener e Vincenzo Porzio, vi sono profondamente grato per tutto quanto avete fatto per me. Approvo pienamente, senza riserva alcuna, la vostra linea di difesa. Comprendo le vostre amichevoli insistenze circa la opportunità di richiedere giudizio d’Appello: ma non posso recedere dalla mia decisione. Decisione meditata, non frutto di risentimenti o di spirito insofferente. Vi invito quindi a non presentare dichiarazione d’Appello in mio nome, pregandovi di intendere a questi soli effetti – che prescindono dalla mia fiducia e dalla mia stima – la presente come revoca di mandato. Con molta gratitudine e cordialità».

Fu dunque vittima, Guareschi, del Principe dei falsari e prese per buoni degli smaccati apocrofi nell’ambito di un carteggio che trasformò lo scoop in un processo per diffamazione? Sembrerebbe proprio di sì. Comunque sia non esistono più, oggi come oggi, persone del calibro del coriaceo Giovannino capaci di pagare con la propria libertà le scelte compiute in assoluta buona fede.
Il controllo delle fonti resta una questione di primaria importanza pure nell’epoca della digitalizzazione dell’informazione. L’avvento di Internet e conseguentemente dei blogger ha accelerato il bisogno di reperire il succo degli avvenimenti a scapito delle “vecchie regole” della professione. Da questo punto di vista è degno di nota il confronto nel film State of Play di Kevin Macdonald tra il giornalista d’inchiesta impersonato da Russell Crowe e la collega abile a destreggiarsi nell’inarrestabile tempesta di news a cui l’aggraziata e avvenente attrice canadese Rachel McAdams aderisce con notevole forza significante in virtù soprattutto dell’abile gioco fisionomico.

La stessa McAdams ha in seguito interpretato nel sobrio ed emozionante affresco d’impegno civile Spotlight di Thomas McCartyhy la giornalista Sacha Pfeiffer, vincitrice del Premio Pultizer grazie all’inchiesta condotta con il team del quotidiano statunitense The Boston Globe che svelò gli abusi sessuali compiuti da oltre settanta sacerdoti dell’Arcidiocesi sita nel capoluogo della contea di Suffolk. In quel caso fu necessario anteporre al bisogno di bollare le norme del secolo breve ad archivi archeologici l’esigenza invece di reperire step by step il peso informativo dell’empia faccenda.
Il senso profondo, ed etimologico, di ‘notizia’, che deriva dal latino novus, può benissimo riuscire ad appaiare eventi strani ed eccezionali persino con gli strumenti dell’argomentazione ereditati dagli antichi Maestri. L’ansia di catturare l’attenzione, all’interno della Carta dei Diritti e dei Doveri della Rete, spinge gli amanti del progresso, camuffati talora nelle vesti di schietti conservatori, a estromettere tutto ciò che a loro giudizio puzza di decrepito. Poco importa che quelle apostrofate con la parola vernacolare ‘bufale’ oggi siano conosciute con il termine internazionale fake news. Casomai dovremmo riflettere sul codice deontologico dei divulgatori chiamati, al di là dei parametri resi obsoleti dalla dimensione immateriale del marasma di interconnessioni più o meno moderne, a cogliere e quindi trasmettere il senso opportuno di aletheia. I debiti riscontri, oltre a rimanere necessari, trovano un valido appiglio nella capacità di opporsi al potere, contemplata dalla libertà di stampa, e nell’agire morale inconciliabile con la tempestività di racconti fasulli diffusi ad arte. A coglierli in flagrante è l’uso corretto e approfondito del digitale secondo la ponderata opinione del Professor Marco Maria Gazzano, studioso di cinema, arti elettroniche e teorie dell’intermedialità. Il parere del giornalista e documentarista Franco Fracassi riguardo i film di finzione è diversa. Lo sforzo profuso per tenere vive le coscienze attraverso la scrittura per immagini e un linguaggio finanche qualitativo, tradotto tanto in carrelli a schiaffo quanto in inquadrature di quinta, diverrebbe per lo più inutile. Agli occhi se non altro dell’opinione pubblica.

Gli esperti di marketing cinematografico in un certo senso gli danno ragione individuando nella fascia di età compresa tra i quindici e trentacinque anni quella più interessata a riempire le sale. Le altre liquiderebbero i dubbi, le accuse, gli interrogativi lanciati tramite la potenza narrativa ed emotiva della cosiddetta fabbrica dei sogni come qualcosa da prendere con il beneficio dell’inventario perché proviene da un film.

Di conseguenza il mix d’informazione culturale ed elaborazione creativa di fatti nudi e crudi dei documentari, nel momento in cui la carta stampata deve mestamente convivere con la superficialità delle persone che danno al gossip la stessa importanza dell’economia finendo per confondere le cose, può divenire un’alternativa. Valida però fino a un certo punto giacché i documentari non hanno certo le cauzioni di commerciabilità dei film di finzione. Inoltre JFK di Oliver Stone, unendo i parametri dell’inchiesta giornalistica e giudiziaria con quelli attinenti alla Settima Arte, in conformità col pensiero di Pier Paolo Pasolini ed Ezra Pound, per cui la verità è difficile da dimostrare, ma la si può afferrare lo stesso, ha veicolato l’attenzione degli spettatori altresì sulle teorie del complotto.

Guglielmo Quagliarotti, giornalista “vecchio stampo” ma tutt’altro che disposto a gettare la spugna, per via della personalità pugnace e combattiva, crede fortemente nell’egemonia dello spirito sulla materia. Consapevole di come il potere governativo condizioni il contenuto della comunicazione e dell’informazione, spingendo i divulgatori a schierarsi con o contro determinati clan, l’indomito rappresentante di un modo di fare giornalismo caro ai seguaci della società organica, fedele al radicamento storico, giudica l’impatto provocato dalla Rete un’ulteriore ingerenza.
Purtroppo inevitabile. Il diktat dell’audience va di pari passo con la difficoltà della stampa nell’ottenere l’indipendenza necessaria per stimolare i lettori in termini ampi ed esaustivi. Pure nel riconoscere le bufale, o fake news che dir si voglia, con l’apporto di criteri critici maturati dalla continua lettura. 
L’esperienza di Quagliarotti, che ha lavorato per circa 23 anni al Messaggero, in veste d’inviato speciale prima per la cronaca, poi per seguire i massimi vertici politici nelle missioni dei Capi di Stato, funge da formidabile pungolo per comprendere, e soprattutto far comprendere, le finalità nascoste dell’internalizzazione dei mercati finanziari, le diverse metodologie della scienza economica insieme alla basilare distinzione tra metodo deduttivo e induttivo. È molto probabile che l’orientamento dell’editore non coincida con i princìpi guida del giornalista. In quei casi bisogna dare un colpo al cerchio del buon senso e un altro alla botte dell’indispensabile fierezza. L’autonomia di giudizio resta un requisito di fondamentale rilevanza per congiungere, in uno scenario sempre più vasto se non dispersivo, la completezza con la tempestività dell’informazione. Nella piena consapevolezza che la coperta da qualche parte va tirata. Occorre capire, quindi, per rimanere nella metafora appena accennata, se lasciare scoperta la testa o i piedi.
Quagliarotti pensa che gli attributi richiesti ieri anche per compiere scelte come questa mettano oggi i professionisti armati di buona volontà nella proibitiva condizione di misurarsi con gli oneri dei supereroi. Bastasse, poi, la buona volontà per conciliare al meglio fondamenti etici ed esigenze pratiche. Il retaggio ottocentesco, sia pure considerato uno straccio costretto a pagar dazio all’attitudine a buttare le cianfrusaglie inutili, rimane, al contrario, un indispensabile termine di raffronto per accrescere la logica comunicativa dell’immagine, che va tanto di moda, con la forza sempiterna della parola, confortata dall’etica, e dare linfa alla questione, assolutamente doverosa, sia dell’imparzialità sia dell’utilità della notizia. Il mestiere dell’informazione è ancora vivo e vegeto. Con buona pace, a Dio piacendo, d’ogni atomismo disgregatore spacciato per sacrosanto progresso.

MASSIMILIANO SERRIELLO

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