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Il cuore nella pallavolo. L’imprevedibilità di uno sport di precisione

LA LEZIONE DI VITA FORNITA DAGLI EVENTI SPORTIVI,
….. ignorati dalle “Prime Pagine”

Secondo il reporter Hildebrand “Hildy” Johnson, impersonato con sagace ed esilarante slancio recitativo da Jack Lemmon (nella foto con Walter Matthau) in First Page di Billy Wilder, è inutile prendersela più di tanto. Con buona pace degli sforzi profusi per conferire il giusto peso informativo anche alle imprese sportive, ritenute, oltre ché la grande medicina contro la noia, anche il contrassegno della sana tenacia, la prima pagina dei giornali, il giorno dopo l’uscita nelle edicole, serve a incartare il pesce.

Eppure l’esclusione pressoché sistematica della pallavolo, salvo rari casi, dai titoli a nove colonne, dedicati soprattutto ad atleti capaci d’imporsi sotto pressione ed esercitare pure, in molti frangenti, un notevole ascendente sui compagni di squadra, dà da pensare. 
La convinzione, profondamente radicata, che i calciatori riescano a compiere con i piedi degli straordinari gesti tecnici, impossibili da eguagliare persino per chi si serve delle mani, porta fuori strada. Almeno in questo caso. Appare in maggior misura utile ed etico, anche ai fini di una informazione corretta ed esaustiva, riflettere sui valori fondativi di una disciplina, chiamata volley nella lingua inglese, divenuta egemone con l’uscita trionfante dalle catastrofiche guerre mondiali, e capire dunque la base d’approccio, sulla scorta di alacri allenamenti, grazie a cui batte inesausto il cuore dello spettacolo. Anzi, due cuori nella pallavolo.
Come recita la sigla del cartone animato giapponese, in voga negli anni Ottanta, Mila e Shiro, intento ad accrescere il pathos congiunto ai salti funamboleschi in battuta, alle improvvise traiettorie impresse alla sfera, ad alcune prodigiose ricezioni ai limiti dell’impossibile.

Senza scomodare il Fanciullino caro al Pascoli, né cadere nelle secche dell’enfasi di circostanza, nell’immediatezza espressiva del manga di genere spokon e shōjo risiede tuttora, a ben guardare, qualcosa di meno puerile del mero intrattenimento ad appannaggio di una fanciullezza appena alfabetizzata. Ed ergo sprovvista degli strumenti critici per andare oltre l’appeal figurativo garantito dagli illustratori Jun Makimura e Shizuo Koizumi. Il desiderio di fermare l’imbattibile, impietoso tempo – anziché convertire i motivi visivi in banali ma efficaci motivi narrativi – fece davvero breccia con l’altro anime televisivo, Holly e Benji. La tendenza del cartoon ad allargare gli spazi dell’immaginario ed estendere gli attimi cruciali, per esibire la resa plastica nel gioco del football d’iconiche rovesciate e incredibili parate all’incrocio dei pali, permise al Paese del Sol Levante di anteporre all’ignoranza manifestata dall’ingenuo pubblico sugli spalti nel corso delle finali di Coppa Intercontinentale una vasta cognizione delle regole. Allo scopo di valicarne i limiti.

L’incipit del duetto melodico-rock di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato ai Mondiali di Italia ’90 pone l’accento sulla necessità di cambiare rotta sulle ali dell’entusiasmo. «Non sarà una canzone a cambiare le regole del gioco». A cambiarle ci pensano i progressi compiuti da un precipuo sport con lo sblocco liberatorio dell’indomito agonismo e la linea di costanza dell’opportuno perfezionamento. Che non vuole intendere la ricerca della perfezione, al pari degli arroganti predecessori che innalzarono le Torri di Babele per colpire le nuvole con le frecce, bensì cementa il fermo desiderio di mettersi alla prova. Di vincere l’angoscia, invece di gettare i remi in barca. Di zittire i detrattori. Di costringerli a rendere merito alla persistenza, alla determinazione, alla risolutezza. Aliene all’inconciliabile congerie di discriminanti riserve, avanzate con ovvia improntitudine, ed elogi a buon mercato. Spesi dalle bandieruole, abili solo a salire sul carro dei vincitori.
All’allenatore nipponico Hirofumi Daimatsu (nella foto), ex militare consapevole ormai che il culto della battaglia comportava rovinosi rovesci della medaglia, non interessava arrivare alla volta celeste.

Ad animarlo era piuttosto l’ostinato proposito di tappare la bocca a quanti consideravano la nazionale di volley femminile una compagine dilettantesca. Non all’ altezza. In virtù della bassa statura del team reclutato nella sede di Kaizuka della fabbrica tessile Nichibo. La sfida lanciata allo slavato cinismo del contraddittorio livellamento ugualitario, convinto di dover accorciare le gambe ai giganti piuttosto ché allungarle ai nani, lo spinse a motivare al massimo le sue ragazze misurandosi con i temuti avversari stranieri. Cambiata la regola interna, che prevedeva una formazione di nove componenti al posto dei canonici sei, come nel resto del mondo, Daimatsu si guadagnò l’appellativo di oni. Un demonio, nelle vesti di sergente di ferro, dal soffio vitale indomabile, però, giacché deciso a invertire l’ingiusta tendenza. Ci riuscii. Facendo i conti con le inevitabili nonché problematiche differenze.
Dalla sommità della rete alla grandezza della palla. Le timide operaie seppero schiacciarla con inopinata vigoria. Gli schemi d’attacco appaiarono quelli della difesa. Le intercettazioni volanti, frutto degli sproni del diavolo benigno, diedero l’input a impensabili elevazioni. L’atto di sfida ai centimetri mancanti accelerò il pieno apprendimento di dettami che all’inizio sembravano proibitivi.
Nel 1960, però, l’Urss li costrinse alla resa. A un tiro di schioppo dal trionfo. Daimatsu contagiò il gruppo muliebre con un’indomabile voluttà di riscatto. Le future campionesse, chiamate “rase al suolo” dagli scherzosi cittadini romani, sempre pronti alla battuta, palesarono una maturazione tecnica superiore a qualunque motteggio. Volando sopra la rete. Diventarono in tal modo le Toyo no Majo (Streghe d’Oriente).
La virtù di trasformare una difficoltà in un’opportunità, uno svantaggio in un vantaggio, la marcia indietro nella marcia avanti colse di sorpresa l’Unione Sovietica. Strappare anche soltanto un set alle streghe fedeli all’egemonia dello spirito sulla materia (perché non è il fisico che conta ma il cuore) divenne un’impresa a dir poco ardua.
L’oro olimpico sancì il riscatto delle femmine accusate di avere le mani di fata e il cipiglio di un mister bravo a restituire pan per focaccia alle confutazioni sprezzanti dei denigratori di turno. Le coriacee fanciulle del dopolavoro toccarono il cielo con un dito, senza attirare l’ira dell’Onnipotente.

Gli scribacchini della domenica dovettero tornare sui loro passi. I complimenti dei soliti esperti, fuori tempo massimo, sono oggi coperti di polvere. Il ricordo dell’eccezionale intensità palesata dal gentil sesso dell’ Impero del Sole, con il supporto dell’ostinato coach dal cipiglio corroborante, è, viceversa, inciso a caratteri indelebili nella Storia degli eventi sportivi ed epocali.
Frattanto le regole hanno continuato a mutare segno. Finché, trentatré anni più tardi, la Fédération Internationale de Volleyball ha introdotto il ruolo del libero. Ed è venuta a cadere l’ultima forma di disparità imperante, al contrario, nel rugby. A dispetto dell’eccessiva importanza attribuita alla stazza, con l’idolatria dei muscoli preferita al presupposto incorporeo della forza d’animo, i “piccoletti” beneficiano del diritto d’incitare gli schiacciatori nerboruti ad aguzzare l’impegno.
I vantaggi competitivi, i lampi d’intelligenza, la vocazione alla leadership non si smarriscono nella selva, piuttosto fitta, delle autocelebrazioni. Il libero non può andare in servizio e non può murare. Tuttavia può, nonché deve, fornire l’esempio. Sulla falsariga del tenente impersonato da Kevin Costner in Balla coi lupi. Per condurre i camerati lontano dall’apatia, dal disincanto, dalla tendenza all’abbandono. La consegna delle armi, sia pure metaforicamente, non è nemmeno contemplata.
I capociurma sanno soccorrere i compari di peripezie sul campo di gioco con ricezioni perpetue, palleggi preziosi, per far rifiatare il gruppo, e alzate oculate. La reattività costituisce la chiave di volta. Negli angoli chiusi. Con il senso della posizione assicurato dall’elasticità degli arti inferiori e dalla superba padronanza del termometro emotivo. Da abbinare al lucido pragmatismo. Allorché gli altri raddoppiano il muro o imprimono al pallone una rotazione a uscire. Ciò nonostante, al di là delle battute flottanti, contrapposte a quelle sarcastiche, colpendo la sfera con il palmo per poi levarlo in un batter d’occhio, nella pallavolo è impensabile gettare il sasso e nascondere la mano. Qualsivoglia schiacciata, finanche quella predisposta a colpire la barriera oppositrice per conseguire il successo, porta con sé la fragranza dell’autenticità. Nascondersi dietro un dito sarebbe un’onta per chiunque voglia gettarsi nella mischia e fissare i propri compiti nell’eludere l’overtraining per arrivare alla gara al meglio della concentrazione. Con la calma dei forti. L’antidoto agli effetti collaterali dell’allenamento cosiddetto della resistenza resta l’attitudine a reagire alle difficoltà.
Legate al numero di salti imposti e allo studio degli scout che lavorano, insieme ai trainer, sull’ efficienza collettiva. Calcolare i fattori fisiologici, coordinativi, al pari delle percentuali degli imprevisti, comporta, però, inevitabilmente, delle amare sorprese. Ed è lì che la forza d’animo ricopre il ruolo decisivo.
Gianluca Vialli, nel suo libro 98 storie + 1 per affrontare le sfide più difficili, ha introdotto la vicenda fortunatamente a lieto fine del pallavolista Giacomo Sintini (nella foto), soprannominato Jack, con un aforisma assai significativo. When Life Hits, Loser Says: Why Me? Winners Say: Try Me!

Jack era un alzatore provetto, un palleggiatore d’alto livello. La rapidità d’uscita, l’attenzione riposta nello smarcare i secondi tempi, nello spostarsi geometricamente con la palla e nel leggere i diversi momenti del match, dettando le idonee strategie di gioco, pagarono dazio, tutto un botto, alla comparsa di un tumore al sistema linfatico. Se ne accorse quando un semplice starnuto gli costò la rottura di diverse costole. I calcoli, concernenti le probabilità, con la scoutizzazione intenzionata a vestire la pelle del leone, andarono, di colpo, a carte quarantotto.
Le caratteristiche fisiche-antropometriche, richieste per trattare la palla e farla giungere al compagno nel modo ideale, cedettero il passo alle doti mentali. Obtorto collo. La gran gioia di vivere, congiunta al desiderio di sorprendere persino l’ospite indesiderato, grazie al supporto della famiglia e dell’indispensabile Dea bendata, divenne il suo marchio di fabbrica. Le abilità motorie non erano, in ogni caso, più le stesse. L’articolarità dei polsi aveva subìto degli evidenti contraccolpi. L’atleta doveva considerarsi fortunato a essersi portato a casa la pelle. L’ottenimento della certificazione d’idoneità alla pratica sportiva agonistica sembrò, almeno agli inguaribili cinici, razza assai peggiore dei romantici, una sorta di contentino. Un atto di pietà. Reclutato dalla Trentino Volley, Jack si fece trovare invece pronto. L’infortunio del palleggiatore titolare Raphael de Oliveira gli diede la possibilità di prendere parte alla gara decisiva della finale playoff. Il suo contributo fu determinante per la vittoria. Le alzate con la spinta delle braccia, seppur visibilmente dimagrite per via della cura, avvennero con la massima velocità. Alle buone mani e alle buone gambe, temprate dalla disposizione a buttare il cuore oltre l’ostacolo, si aggiunse, fuori dalle banalità scintillanti dell’inutile propaganda, l’egemonia dello spirito sulla materia. Qualcosa realmente d’imprevedibile in uno sport di precisione. Che sfugge ai meri calcoli.
Ed è, perciò, con pieno merito, un cortocircuito poetico. Un quid d’impagabile vigore trascinante che soccorre le fasi sotto ritmo con un’elevazione imperiosa. Altresì rispetto ad alzate in bagher ed elementi di contrattacco studiati a tavolino. Perché c’è la mano dell’Altissimo nel “murare” il male. Tanto nomini. Esiste una poesia poco nota, se non ignota, che coglie, con la sua imbarazzante schiettezza, la magia di questa attività fisica meritevole di titoli a nove colonne ma già capace di smorzare i fuochi delle vane polemiche ed espandere la fiamma della vivida speranza. A Dio piacendo.

La pallavolo è vita… 
E’ una vita rinchiusa in una palla… 
E’ la mia vita… 
La pallavolo è la mia amica del cuore, 
 ed è anche di più… 
La pallavolo è il mio rifugio nei momenti difficili… 
quando tutto mi sembra buio.
La pallavolo è la mia gioia… nei momenti felici. 
Per molti può sembrare una semplice 
palla colorata… ma non è così…
racchiude: emozioni, gioie, paure, 
ansie, lacrime, fatiche, delusioni. 
Ogni giorno stai lì a cercare 
di diventare qualcuno, 
altri ti possono reputare folle… 
perdere delle ore della tua vita 
 a rincorrere questa palla, 
 ma non sanno cosa si perdono, 
non sanno apprezzare 
 le bellezze di questo sport…

MASSIMILIANO SERRIELLO

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