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Il digiuno nelle religioni monoteiste

Tutte le culture conoscono il digiuno come astinenza dal mangiare e dal bere e per lo più lo mettono in relazione ai riti religiosi, alla fede e alla morale, per conquistare una visione più chiara e una maggiore introspezione mistica. Viene considerato una forma di disciplina interiore per raggiungere un livello più alto di spiritualità; è una pratica connessa alla purificazione.

Quasi ogni religione lo promuove o lo sanziona e sin dalle prime forme cultuali politeiste venne utilizzato per soddisfare le divinità o per favorire la virilità o come preparazione per le pratiche cerimoniali. Gli antichi greci digiunavano prima di consultare gli oracoli, gli sciamani per contattare gli spiriti, gli indiani d’America per acquisire il loro totem. Sulla linea della purificazione, dell’espiazione e della disciplina interiore, sono anche le filosofie orientali come buddhismo, Induismo e Taoismo. Celebre il digiuno “politico” praticato da Ghandi, connotazione di digiuno esistente già nell’antichità. Questi elementi sono a grandi linee confluiti nelle tre grandi religioni monoteiste, Ebraismo, Islam e Cristianesimo, nelle quali il digiuno è stato associato alla disciplina della carne e al ravvedimento dal peccato.

Nell’Ebraismo il digiuno è presente in tutto l’Antico Testamento, sia nella forma individuale che pubblica, come accompagnamento alla preghiera, come segno esteriore di ravvedimento e rimorso o per manifestare la serietà dell’impegno preso verso Dio. La solennità del Kippur si celebra a cavallo tra settembre e ottobre per chiedere perdono dei peccati contro Dio: ci si astiene per 25 ore dal mangiare, dal bere e da qualsiasi lavoro o divertimento, dedicandosi solo alla preghiera.

Oggi il digiuno è un momento in cui si produce l’unità di un gruppo; il suo valore sta nella ritualità e il digiunare rivela la propria identità. Il senso del digiuno in ambito ebraico è come la memoria, si definisce per un atto più che per un fatto, ha un fondamento civile, riguarda episodi della storia. Si digiuna per ricordare la caduta di Gerusalemme, si digiuna la vigilia della Pasqua di liberazione per ricordare il prezzo della propria libertà, si digiuna il giorno della deportazione da Gerusalemme ad opera dei babilonesi, si digiuna il giorno prima della festa di Purim. Si segna col corpo un momento riflessivo cercando il senso del proprio esserci nella storia. Si digiuna per ricordare quegli eventi e il digiuno è il segno della loro storicità.

Per tutto questo il digiuno non può essere un atto di solitudine, ma è un momento in cui prevale la storia collettiva: nel digiuno ebraico si mangia insieme prima di cominciarlo, si trascorre insieme il tempo del digiuno e si consuma insieme il primo pasto dopo il digiuno. Digiunare è un atto condiviso e comunitario, è il segno dell’appartenenza è l’occasione in cui si raduna la famiglia allargata, costituisce il segno più profondo dell’appartenenza. Astenersi dal digiuno equivale a dimettersi dalla propria identità.

Nel Cristianesimo dall’Antico Testamento il digiuno nasce come variante del sacrificio e ha funzione liturgica: il sacrificio dell’animale è cruento, invece il digiuno è un’offerta, una rinuncia al cibo. I cristiani digiunano durante la Quaresima, nel tempo che precede la Pasqua, mentre gli Ortodossi, avendo mantenuto diverse Quaresime, digiunano anche nel tempo che precede altre feste. Nell’Antico Testamento viene superato il primato del sacrificio animale su quello esistenziale cioè il digiuno conta di più del sacrificio fatto nel Tempio: Gesù sosterrà che la rinuncia a qualcosa di proprio ha un valore simbolico ulteriore perché rappresenta la rinuncia al male. Il profeta Isaia parla del digiuno gradito al Signore che è quello del compimento di alcune opere di misericordia corporale.

Per il cristiano il digiuno è una pratica che accompagna la preparazione e la conversione del fedele che si appresta a celebrare i momenti forti dell’anno liturgico come momento di offerta di sé e di penitenza per donazione al prossimo.  Quello quaresimale è un periodo di ascesi e di ricerca di Dio in cui ci si priva di qualcosa per scelta libera e personale e non riguarda solo il cibo ma anche la rinuncia ad azioni. La tradizione contempla l’astinenza dalle carni il venerdì e il digiuno il mercoledì delle Ceneri e il Venerdì Santo.

Come per ebraismo e islamismo il controllo sugli appetiti migliora il rapporto con Dio e con il prossimo: diventa un atto di carità, di apertura all’altro. Questo è il carattere del digiuno riconosciuto centrale dei cristiani che li ha portati a superare la condizione rituale raccomandandolo anche al di fuori dei tempi liturgici. E come dicono i padri del deserto il ventre gonfio schiaccia l’anima perché il cibo è simbolo delle cose, del possesso che tiene lontani da Dio. Digiunare significa fare a meno di qualcosa; Gesù presenta l’anima del digiuno come l’amore per il prossimo, come lotta contro l’idolatria in tutte le sue forme.

Con il digiuno si ottiene una sensazione di potere come dominio sulle necessità corporali e la trascendenza verso stati di comunicazione mistica più profondi. Un tempo era questo il pilastro della religiosità cristiana come oggi invece accade nel mondo islamico. Il digiuno islamico viene compiuto durante il Ramadam, memoria rituale dell’epoca in cui Maometto avrebbe ricevuto la rivelazione del Corano da Allah tramite l’arcangelo Gabriele. È un atto basilare di culto e obbligatorio per tutti i musulmani, uno dei Cinque pilastri che contrassegnano la fede. Dura dalle prime luci dell’alba fino al tramonto, periodo durante il quale i fedeli non possono assumere cibo, bevande e gli sono proibiti anche fumo e rapporti sessuali. Nell’Islam non vi sono fini espiatori o penitenziali, ma di autocontrollo su desideri fisici ed emozioni per purificarsi, affrancare l’anima dalle dipendenze e riunirsi ad Allah.  Attraverso il digiuno il fedele apprezza di più i doni ricevuti da Dio e si rende più aperto a condivisione e carità.

In sintesi il digiuno si è diffuso sin dalle origini della religiosità umana, per manifestare il dolore del lutto, entrare in contatto col sovraumano, dimostrare forza d’animo, è confluito poi nelle tre religioni come atto penitenziale, espiatorio, meritorio, di dominio dell’istinto e percorso di ascesi.

Veronica Tulli

Foto © Linkedin

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