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Gianni Brera, Beppe Viola, Franco Zuccalà ed Italo Kunhe ….. Il “Giornalismo d’ Autore” e i Campioni del Football

I GENTILUOMINI DELL’INFORMAZIONE CON IL “CALCIO” SUI MACCHERONI

Laudatores temporis acti. Persino uno scrittore della levatura di Cesare Marchi,  così affezionato  ai valori ereditati dalla tradizione da dedicare un bellissimo libro al prode Giovanni dalle Bande Nere, morto per un colpo di falconetto, frutto dell’empio progresso, stigmatizzava  il  rimpianto  brontolone. La questione, tuttavia, non è semplice al punto da liquidarla con una battuta. Sia pure indovinata. Il “sentimento presbite”, che  vede il bene solo nelle cose lontane, merita comunque rispetto. La capacità di toccare il cuore nell’ambito  della comunicazione viene trasmessa di generazione in generazione. E non avviene esclusivamente con opere  snob ritenute di particolare pregio culturale.

Alberto Sordi, nei panni di Nando Mericoni, con  la celebre sequenza dei maccheroni dell’inobliabile “Un americano a Roma”, diretto dal sagace Steno, dimostrò, grazie altresì al talento dispiegato nella geniale attitudine a improvvisare, che il senso di appartenenza, ed ergo l’amore per la Tradizione, onde trascendere la prova del Tempo, passa attraverso prove viscerali ed enogastronomiche. Quindi le mire moderne ed esterofile vanno date al gatto, al “sorcio” o destinate ad ammazzare cimici.

Il gioco del calcio, definito l’oppio dei popoli, nonché l’antidoto contro il grigiore dell’esistenza, né più né meno del cinema, trae linfa dalle qualità spontanee dei divulgatori provvisti d’ironia. I primi ‘comunicatori’ sportivi, a dirla schietta, quando non erano malati di retorica, intesa nell’accezione negativa attuale, estranea al nobile significato originario, risultavano troppo secchi, asettici, freddi. Come una lama di rasoio. Il giornalista partenopeo Italo Kunhe, dopo aver esercitato con zelo la professione di avvocato, seppe dare, al contrario, calore umano sulle pagine del glorioso quotidiano “Il Roma” al recupero dell’indispensabile metodo di composizione dei discorsi ad appannaggio proprio dei rétori. Nel passaggio dalla carta stampata alla televisione, Italo ci mise la faccia. E soprattutto la voce: garbata, attenta ad anteporre l’alta densità lessicale alle rovinose pause vocalizzate (tipo “ehm” e “cioè”, divenuto biecamente un giornaletto per adolescenti dall’ignoranza abissale). Con lui le imprese calcistiche del Napoli, detto il “Ciuccio”, con Diego Maradona, pronto a dribblare gli avversari come birilli, e Salvatore Bagni, deciso a buttarsi su ogni palla vagante da mastino del centrocampo, sono rimaste impresse nei cuori dei tifosi. Ma anche degli appassionati meno accesi. Nondimeno, Italo dell’umorismo ne faceva un uso discreto. Per lasciare spazio ad attaccanti a caccia di gol, ad allenatori avvezzi alle varianti tattiche, a difensori che facevano pochi complimenti, con la pretesa di essere presi sul serio a ogni piè sospinto. 

Gianni Brera, invece, non era il tipo da farsi intimidire e concedere il proscenio ad altri. Anche se sapevano dettare i tempi di gioco e fornire palle gol con lanci al bacio. Nativo di San Zenone al Po, in terra lombarda, profondo conoscitore del latino, tutt’altro che una lingua morta a suo avviso, Brera ne aveva per tutti. A Rivera, fuoriclasse del Milan dai piedi raffinati ad arte, il primo calciatore italiano ad aggiudicarsi l’ambìto Pallone d’oro, lo ribattezzò “l’abatino” per via del fisico non esattamente da gladiatore. Gianluca Vialli da Cremona, lottatore delle aree di rigore, divenne, all’opposto, “StradiVialli”, in omaggio al celebre concittadino violinista Stradivari. Con la parola scritta, nell’humus della morfologia e della sintassi, possedeva una padronanza magistrale; nella parola orale, insieme all’arguto Beppe Viola, portò in auge il timbro reso rauco dal sigaro, il volume di una voce tuonante e sfottente, i gesti signorili ed eloquenti in grado di farci capire che il calcio restava un gioco. 

La strana coppia collaudata sul piccolo schermo nella trasmissione Rai “La Domenica Sportiva” pagò dazio a un tiro mancino del Destino quando Beppe Viola venne a mancare mentre stava montando un servizio sulla partita della sesta giornata della Serie A, Inter-Napoli, il 26 ottobre 1982.  Per chiunque amasse quel gioco, sublimato dalla destrezza di campioni capaci di realizzare coi piedi dei numeri balistici che ai rugbisti non riescono nemmeno con le mani, il suo fecondo umorismo era un toccasana. Un autentico valore aggiunto. Per compensare all’incognita della noia di piombo che, di tanto in tanto, colpiva qualche partita spasmodicamente attesa. Le sue battute pungenti, ma buone, catartiche, riconducevano tutto nell’ordine naturale delle cose. Lontano da fronzoli od orpelli come anche dal fanatismo fuori luogo che troppe volte prendeva piede sugli spalti. Pare che distribuisse multe piuttosto salate, per i tempi, ai subalterni che pescavano le frasi nell’ovvio per i loro pezzi, sui giornali o nei servizi tv, cadendo nel ridicolo involontario. Non rideva di loro, bensì con loro di determinate “pinzellacchere”. Per dirla alla Totò. Beppe Viola è stato un milanese doc, sagace, pronto alla battuta come un napoletano. Di lui, sotto molti aspetti, si è perso davvero lo stampo. 

L’ultimo dei galantuomini allergici alle formule giornalistiche  fine a sé stesse è Franco Zuccalà. Giornalista, bordocampista Rai (mestiere destinato all’estinzione), umorista ed erudito documentarista oggi, per esprimere valori artistici attraverso l’informazione culturale, senza mai ricorrere alla registrazione nuda e cruda degli eventi, con le sue quasi settantanove primavere alle spalle, in apparenza minute, l’inesausto Franco continua ad amare la geografia emozionale. I luoghi che ha visitato in giro per il pianeta – in veste d’inviato, di testimone, d’intermediario tra il pubblico e la notizia – gli sono rimasti nel cuore. A lui non sono mai piaciute le distorsioni maliziose, né lo spirito di patata e di grana grossa nato sull’esempio della pur sferzante Gialappa’s band. L’ironia applicata al calcio, nei suoi servizi da catanese trapiantato a Milano, s’incaricava di cogliere in fragrante l’inopinata goffaggine dei presunti ballerini della sfera di cuoio, di sdrammatizzare le cocenti sconfitte, di dissimulare – con la virtù di far riflettere spassosamente e di far ridere amaramente – gesta ed eventi ritenuti plateali ed epocali. Eppure avvenuti nel rettangolo di gioco e quindi da circoscrivere in un contesto dove il terreno informativo aveva il compito di pesare le parole. La bilancia veniva individuata nell’interazione tra immagini (non solo dei colpi di testa, delle elevazioni da cestisti, delle chiusure perentorie in difesa o dei gol mangiati, bensì pure delle reazioni mimiche del pubblico o delle statue indifferenti) e, appunto, parole. Prive di ridicoli incidenti dialogici, tuttavia spicce, senza tratti morfosintattici arcaici. Il “cum grano salis” lasciatoci in eredità dai nostri saggi antenati era il motore. Formuliamo l’augurio che nei suoi documentari, dedicati anziché ai campi di gioco ai territori inclini a riverberare stati d’animo ed eterni modi di agire, ad animarlo sia sempre il sale della sapienza insito nella sana ironia.  

Massimiliano Serriello 

 

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