INDIANI DI RISERVA
DI MARIO ALBERTI
una recensione del Concerto di Ariccia Palazzo Chigi, Sala Maestra, 7/7/24
La Sala Maestra del Palazzo Chigi di Ariccia è già colma quando arrivo. Le sedie occupano la maggioranza dell’ampia stanza.
Davanti la strepitosa tela “Sant’Agostino e il Fanciullo” (Martina realizzata a due mani da Mattia Da Farnese e Jan De Momper), è allestito un piccolo palco coperto da velluto rosso, non molto alto, con sopra due spie, due casse rivolte verso il pubblico e sei lampade Par, tre a destra e tre a sinistra. Al centro le armi del delitto: un microfono e una chitarra su cavalletto.
Sale sul palco Annamaria Gavotti, addetto stampa dell’Associazione “La Terzina” che ha proposto, promosso e organizzato l’evento.
Sale per i ringraziamenti ufficiali alle autorità presenti in sala, e sono molte, un vero parterre de rois: l’Avvocato Loredana Mariani, rappresentante dell’Amministrazione Comunale e Assessore ai Servizi Sociali della città di Ariccia (che sale sul palco per salutare il pubblico); il Sindaco di Colonna Fausto Giuliani; la Consigliera con delega alla Cultura e all’Istruzione della città di Castel Sant’Elia Cecilia Maria Paolucci; il Presidente del Consiglio del Comune di Genzano di Roma Patrizia Mancini; il Presidente del Consiglio del
Comune di Marino Eugenio Pisani e la Consigliera Barbara Cerro; le rappresentanze di Unitre di Ariccia, Albano e Marino e quelle del Filarmonico Enrico Ugolini di Marino; Il Presidente dell’Associazione Sole Invictus Marialuisa Graziani; Andrea Pettinelli Presidente della ZdB, casa discografica che ha prodotto e curato la registrazione del disco; il portavoce della Famiglia Tenco, Michele Paicentini; Gianni Nocenzi, musicista fondatore del Banco del Mutuo Soccorso, che non ha certo bisogno di presentazioni. Grandi assenti della serata il Sindaco di Ariccia Gianluca Staccoli, al quale impegni ufficiali impediscono la presenza al concerto, e il Professor Aldo Onorati, esimio dantista che una febbre alta costringe al letto. Finite le presentazioni e i ringraziamenti lasciamo che la musica parli.
Il Maestro Mario Alberti entra, in camicia bianca e pantalone chiaro. Impressiona subito per il fisico da cestista NBA.
Mi chiedo sospettoso: come fa uno con delle mani del genere a suonare la chitarra classica?
Entra tra gli applausi, giunta le mani in segno di ringraziamento e sembra come intimidito mentre si siede al suo posto, poi chiede al microfono di un certo Stefano e imbraccia la chitarra, facendo un cenno al tecnico audio prima di inserire il jack (ok, sarà intimidito ma è un professionista). All’improvviso ecco Stefano, che sale sul palco e legge un brano.
Sono memorie indiane, Luther Orso in piedi credo, e Stefano le legge senza fretta, affinché tutti le intendano bene, con una voce chiara, pacata e potente. Le parole sono magnifiche, e lo speech ci rende emotivi e recettivi.
Sull’ultima parola pronunciata poi, il Maestro Mario Alberti attacca con un giro di accordi dal ritmo sostenuto.
La tempistica dell’entrata è perfetta, il primo applauso scroscia, e in un lampo ci ritroviamo nelle verdi praterie, al galoppo del ritmo incalzante della chitarra del Maestro.
Stento a credere ai miei occhi, ma le mani da cestista sono rapide come il batter d’ali di una farfalla, e
altrettanto delicate tra le corde.
E’ un gigante gentile il Maestro, è uscito da una fiaba di giganti gentili.
Poi si tende verso il microfono e sia fatta voce. Pronuncia le prime parole di “Indiani di Riserva”, il brano che da nome all’album, primo nella track list dello stesso nonché primo singolo estratto.
Rendere questo pezzo in una versione “scarnificata” è molto complesso. “Indiani di Riserva” infatti, nella versione dell’album, omaggia nelle sonorità Ennio Morricone e le sue colonne sonore per il cinema Western.
Chitarre elettriche “desertiche”, arpeggi ritmici, cori maschili monosillabici, voci doppiate nel ritornello, percussioni. Non è scontata la resa di un brano del genere in una versione di sole chitarra e voce. Ma l’Alberti ci sa fare, la timidezza è scomparsa dal suo volto come l’ombra davanti al Sole.
É nel suo mestiere, e si sente. Suona in modo impeccabile, accompagnando abilmente la sua voce calda e profonda, una voce da crooner nella migliore tradizione del cantautorato. Corde di nylon e corde vocali si abbracciano e danzano insieme, e una volta portano le une e una volta portano le altre. Il pezzo usa un linguaggio forte, un linguaggio da colonizzatori, arrogante e cattivo, e il pubblico si fa serio, ascolta in silenzio assoluto, è dentro la situazione.
Il Maestro lo conduce al ritornello, che si apre come un fiore armonico.
E’ il trionfo dei vili, è il canto degli arroganti che “ogni traversina per la locomotiva, la brindavamo con un
bicchiere di terra, strappata a quei selvaggi con nomi d’animali […]” (versi del brano da ora sempre in corsivo n.d.r.). Il climax emotivo in sala cresce, e il Maestro lo riporta a più quieti lidi, rallentando un poco il ritmo e l’intensità per giungere alla seconda strofa.
Ci siamo, la seconda strofa, la voce dei nativi, la Storia con la esse maiuscola sbattuta in prima pagina. Ed ecco allora che “ogni traversina per la locomotiva era una croce in più sulla nostra Terra […]”.
Il pubblico ascolta, fa due più due, capisce le differenze.
Il Maestro ci ha sparato il primo dubbio dritto dritto nelle orecchie, vacilliamo. Poi nel finale ecco una parte completamente a cappella.
Lui non batte ciglio, perfettamente intonato continua sicuro la sua strofa, e mentre ammansisce la foga degli arpeggi fino a farli scemare, imita delicatamente il rumore del vento, e sembra quasi di sentirselo addosso quel vento che spazza via tutto, tutto quello che credevamo di sapere, fine della cavalcata, fine del brano,
buio.
L’applauso è immediato, lungo, catartico, per un’esibizione tanto emozionante da non far rimpiangere la ben più complessa versione studio.
La luce delle Par, che da blu notte per la strofa dei cowboys era mutata in verde nella parte dei nativi, ora si accende di un giallo caldo e avvolgente.
Il Maestro Alberti introduce il pezzo “America”, settima nella track list dell’album.
Introduce il brano parlandoci del genocidio indiano e dell’importanza di parlarne, discuterne, ricordare, come ha fatto lui con un album totalmente dedicato alle vicende tragiche di quei popoli.
Tragicità, dice, che è ancora presente, e che accade proprio oggi in Amazzonia sotto gli occhi di tutto il mondo, con i nativi che si rifugiano sugli alberi mentre i bianchi li tagliano uno per uno.
Il pezzo si presta molto ad un arrangiamento chitarra e voce, che anche nella versione studio sono gli strumenti che spiccano in tutta la parte centrale del brano.
Le dita del Maestro Alberti disegnano un arpeggio incalzante sulle corde della chitarra, ed esce fuori tutta la vena barocca di questo artista.
Calmo e sicuro di sé, come chi è del mestiere, doma l’arpeggio incalzante mentre imita i gorgheggi dei pellerossa.
Inizia la strofa con un sapore medioevale e giocoso, degno del miglior Branduardi.
Ma anche qui l’artista ci inchioda al testo, un testo rancoroso, sulle angherie subite e le onte affrontate, un testo profondo, sulle differenze nella visione della vita: “un arco senza frecce può suonare, la corda pizzicata può vibrare, […] un fucile senza munizioni è sempre un bastone con cattive intenzioni”.
Eccola qua’ la differenza, quattro parole che sono un abisso, anzi, un canyon.
Intanto sono lì che mi concentro sulla musica, il Maestro è davvero impeccabile ma adesso arriva il bello.
Sì perché il brano contiene un ritornello fuori dagli schemi: inquietante, sinistro, con chitarre elettriche acide e allucinate, un colpo allo stomaco che spezza totalmente la giocosità della prima parte.
La voce ripete ‘America’ quasi salmodiando, gli effetti si sovrappongono, ‘America, America’, come a dire ‘Ecco Signori, eccovi l’America, l’America e le sue contraddizioni’.
L’Alberti lo affronta a viso aperto questo ritornello, non potendo ricreare la psichedelica dell’originale ci ficca dentro il flamenco.
Touchè, la trovata del campione! Il flamenco, che già si affaccia nella versione studio in alcuni passaggi di chitarra, sostiene in modo egregio l’andamento del pezzo, che può infine ritornare a saltellare sul ritmo barocco della seconda strofa.
Al ritornello seguente si ripropone il copione di prima, ma stavolta il flamenco è decisamente più intenso, e il Maestro batte col pollice sulla cassa armonica della chitarra per farne una percussione, mentre le altre dita scattano accompagnando compatte quel ritmo. Una versione davvero travolgente questa di “America”, l’artista sembra riuscire a trovare sempre la chiave giusta per far suonare il pezzo nel modo migliore.
Si torna in luce blu, mentre il Maestro introduce il terzo pezzo della serata, “Grande Padre”, stessa posizione
che occupa nella track list dell’album.
Sempre con il suo fare da racconta storie, Mario Alberti svela al pubblico l’identità del ‘Grande Padre’ a cui si fa riferimento: si tratta del Presidente degli Stati Uniti d’America, nome affibbiatogli dai nativi che la dice lunga sul rispetto che questi ‘selvaggi’ nutrivano per il capo degli uomini bianchi.
Prima di imbracciare la chitarra, l’Alberti indossa il supporto per l’armonica a bocca e promette faville con un ‘vi stupirò’.
Il brano inizia allegro e scanzonato, rimbalzato e sghembo come un De Gregori di “Quattro cani”.
Nel testo il Grande Padre comanda, ordina ai pellerossa “ci dovete assomigliare, […] non dovete nomadare”.
Ecco allora la risposta provocatoria indiana, ‘tu ferma il bisonte e noi ci accasiamo!’.
Un testo divertente tutto sommato, anche nella sua serietà, perché gli ordini non si discutono, gli ordini arrivano come carri armati a passo di marcetta (marcetta infatti presente nella versione studio).
La luce cambia in rosso, e il Maestro intraprende lunghi assoli di armonica a bocca, mostrando la sua abilità anche con questo strumento, che rende l’atmosfera festosa, subito sentita dal pubblico che reagisce bene e si produce in un lungo applauso alla fine del pezzo. Ma c’è ancora qualcosa da dire: l’artista ripercorre le vicende di Mimmo Lucano sindaco di Riace (città citata nel pezzo n.d.r.), apprezzando il tentativo di integrazione che è stato fatto lì, talmente sfacciato da procurare 12 anni di galera al suo proponitore.
Eppure, se ci fosse la possibilità di ospitare un gruppo di nativi americani in Italia, continua il Maestro, proprio i posti in cui si osa come si è osato a Riace, in nome dell’integrazione culturale ed etnica, sarebbero gli unici candidabili.
Ancora applausi per lui mentre le luci Partornano al blu, il blu della tristezza, perché il pezzo che segue nell’esibizione è forse il più delicato di tutto il disco. Si tratta di “Aquila per un momento”
(secondo nella track list), che ha per tema lo stupro di una ragazza adolescente.
Il Maestro Alberti introduce il brano con uno speech delicato, in cui di domanda il senso dello stupro in generale e di quello etnico in particolare, con la sua contraddizione razziale di fondo; allo stupro insomma come usanza e bottino di guerra. Il brano inizia con un arpeggio cullante, e la voce del Maestro raggiunge l’apice della sua profondità e delicatezza, soprattutto nelle parti ‘lallate’ del testo.
La tragica storia viene raccontata con un andamento lento e calmo, fino a che la musica inizia a scemare e l’effetto a libitum sfumando riesce perfettamente grazie alle abilità del Maestro nel ‘costruire’ un’atmosfera con lo strumento.
L’applauso lo coglie quasi in lacrime, e lui abbraccia la chitarra come per appoggiarsi a riposare dopo una sfacchinata, tanto è stata intensa l’esibizione.
Poi una frase, magnifica e scintillante, quasi sussurrata dal Maestro: “Il grande passo per l’umanità citato durante l’allunaggio, sarà veramente possibile solo quando non ci sarà più il bisogno di scrivere canzoni come questa”.
Il brano successivo viene introdotto da uno racconto su Toro Seduto, e sulla sua capacità di dialogare con i bianchi, ma allo stesso tempo di denunciarne le nefandezze urlandogli in faccia nei comizi il suo odio.
Quindi iniziano le prime note di “Vi guardo dall’alto”, sesta nella track list dell’album.
Perfetta nella versione chitarra e voce, l’artista ci regala una esibizione davvero notevole, che viene direttamente dalla più colta tradizione cantautoriale.
Il pezzo funziona che è una meraviglia e ricorda i canti popolari, soprattutto nel ritornello così arioso e incalzante.
La voce dell’Alberti è ferma e potente, e sembra librarsi verso quel Cielo che è protagonista della canzone, un Cielo che non cela alcun Divino, ma che senza celia si riprende il suo ruolo di tetto del mondo, elemento costitutivo del nostro Universo.
Il Maestro intanto dosa la strofa con pause che lasciano accordi in sospeso a librarsi nell’aria, per poi far ripartire subito l’accompagnamento della mano destra.
La sinistra intanto, cambia quasi un accordo a parola.
Un piccolo tentativo di gioia quando canta “amiche nubi venite, copritemi un po’, e mandiamogli un po’ di gioia con questa pioggia”.
Poi l’ultimo ritornello erompe nella sala quasi a volerla occupare, e l’accordo finale è un frullare di dita
sulle corde.
Lascia la chitarra e torna al dialogo con il pubblico, citando diversi racconti presi dalle memorie degli indiani d’America, vicende, aneddoti, fatti reali e documentati.
Tra questi, la triste storia dei cinquemila peschi, a cui è dedicato il brano omonimo, quarto della track list dell’album.
Il pezzo parte sotto una luce arancione, con un arpeggio armonioso, mentre la voce entra per la prima
strofa, molto soffice e dosata.
La storia triste di “Cinquemila Peschi” arriva rotolando sugli arpeggi rapidi di uno dei brani più poetici dell’album.
La linea melodica della voce si intervalla ai legati intensi dell’arpeggio, finché tutto non plana leggero sul verso a mio avviso più struggente del testo: “[…] fiori di pesco, non ne abbiamo più”; l’artista esegue l’ultima battuta dello spartito e poi chiude la performance con una pennata dal basso verso l’alto. Tempistica perfetta e applauso meritato, da un pubblico coinvolto in modo attento, che segue e insegue il concetto che sta dietro tutto il concerto.
Ascolta e ascoltando impara, rivaluta. Il Maestro indossa di nuovo il supporto per l’armonica, ma stavolta ci piazza sopra un kazù, e poi dalla chitarra gli parte una scala discendente infernale, lenta e disperata, e siamo già lungo il Mississipi, e lui è l’Old Man River.
Si apre così “Mezzosangue Blues” (quinta in track list), il brano dedicato ai neri d’America, gli altri grandi
oppressi dalla ‘giovane democrazia’, che omaggia ripercorrendone la musica tradizionale e viscerale, il blues.
Un pezzo sui mezzo sangue, i figli bastardi, quelli che discendono dalle “ibride razze”, malviste da tutti gli altri.
Un vero lamento, un blues come il Demonio comanda, chitarra e voce e kazù, che riempie tutte le battute tra una strofa e l’altra, in assoli che sono controcanti e contrappunti armonici e buffi (sapete com’è il kazù… n.d.r.).
Il Maestro si diverte, se lo gode questo blues, ci si appoggia senza fretta, e via una strofa, e via un kazù. Il tono della voce allaga, mentre gli accordi si compattano e poi si aprono, le dita si soffermano sul bicordo per dare una linea di basso, e poi si scatenano sulle corde acute con le settime e le diminuite.
Il pubblico si lascia impigrire, si rilassa nel ritmo trascinato, ci sguazza dentro. Gli accordi finali sono travolgenti, rumorosi e “sporchi”, e il Maestro scuote la chitarra preso nel gorgo dell’enfasi. “Ho fatto il finale alla Hendrix…” ammette,“…è stato liberatorio!”. E anche l’applauso in effetti lo è, liberatorio, catartico, energico.
E allora si continua con un aneddoto su Jimi Hendrix, il mezzosangue per antonomasia, un nero-cherokee che
ce l’ha fatta negli anni ’60, il Mito Meticcio, il grande baSTARdo.
Intanto ritorna l’armonica e la luce si fa di un bianco giglio. Inizia l’ultimo pezzo del concerto, ultimo anche nella track list dell’album: “Innocente Cattiveria”.
Anche questo brano si presta molto bene alla versione chitarra e voce, che sono gli strumenti polari dell’interno disco.
Eppure nella versione dell’album è impossibile non notare la bellezza dei solo di chitarra, che si intervallano alle strofe trascinate invece da una chitarra acustica con uno stile che ricorda Dylan.
Anche qui l’Alberti non si scompone, affronta il pezzo con grande sicurezza.
L’armonica va a riempire gli spazi tra una strofa e l’altra, e il pubblico si lascia cullare da questa vera e propria ballad, nel senso più alto del termine.
Armonica, voce e chitarra si intrecciano dolcemente, fino a che il pezzo giunge al termine, con il Maestro che fischietta lievemente nel microfono. Le Par si abbassano, la chitarra tace, tutto si acquieta.
Luci in sala e applausi che salgono al soffitto.
Applausi di gratitudine per la mirabile esibizione e la bella serata che il pubblico ha potuto trascorrere in uno dei luoghi più eleganti del nostro territorio.
L’emozione per la perfetta riuscita dell’evento fa invadere di nuovo il palco al parterre de rois, vistosamente commosso.
L’Avvocato Mariani ringrazia il Maestro per l’onore che ha concesso alla città di Ariccia, di iniziare cioè la
tournee proprio in questa città.
Annamaria Gavotti prende in causa il rappresentante del Premio Tenco, chiedendogli a caldo qualche impressione: lui, Michele Lucentini, vorrebbe dare “d’ufficio” la Targa al Maestro Alberti, candidato come miglior album e miglior singolo al Premio, e l’applauso del pubblico scroscia spontaneo. La parola passa infine a Marina Nasini, Vicepresidente e Direttore Organizzativo dell’Associazione “La Terzina”, oltre ad aver realizzato la foto di copertina del disco e di essere l’organizzatrice e coordinatrice dell’evento.
A lei, giustamente, i saluti finali.
Di questo concerto ci rimangono le riflessioni a cui i testi ci hanno indotto e il piacere della musica che ci ha cullato, e travolto e emozionato, in una versione davvero intima degli otto brani che compongono questo interessantissimo album, che rappresenta un viaggio nella Storia ma anche una rivalutazione di ciò che crediamo di sapere della Storia, leggendo per una volta fuori dalla versione dei vincitori, che sempre la scrivono e la certificano.
Ecco allora un disco dalla parte dei vinti.
Il Vostro affezionatissimo si è divertito e spero così di voi.
I miei saluti,
Danilo Pette©