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Inglesismi da esterofilia dilagante

“INGLESISMI”

 RICCARDO PEDRIZZI

In primis fu Luigi Di Maio, che destò meraviglia e qualche imbarazzo parlando del “vairus” che minacciava il mondo e anche l’Italia. Aveva osato trasformare perfino un termine latino come virus, veleno, in una parola pronunciata all’inglese, anzi all’americana. Ma dal suo punto di vista, come capo della Farnesina, aveva ragione lui: all’estero in tanti dicono “vairus”. E nella diplomazia internazionale, sempre più spesso si tende ad americanizzare perfino il latino. Come media, da molti pronunciato “midia”, anche dai giornalisti italiani.


Sarà per questo che con la crisi del coronavirus è arrivato una sorta di tacito via libera, dunque, all’inglesismo selvaggio. Occhio al “delivery”, spazio allo “smart working”, ed ancora, “rispettiamo il lockdown e via dicendo, tutto rigorosamente in inglese. Poveri italiani, costretti a casa o negli ospedali dal coronavirus, torturati dal caos di news e fakenews (a proposito, non è meglio parlare di bufale?) sparate dai media e dal governo e obbligati a tenere a portata di mano un vocabolario d’inglese per capire cosa sta succedendo.
Sono i più anziani, soprattutto, a soffrire l’esterofilia dilagante causata da un moderno e provincialissimo vizio della classe politica e dei media di utilizzare termini inglesi per spiegare cose semplici e italianissime. “Food delvery”? E’ la tradizionale consegna del cibo a casa, la facevano anche le nostre nonne a figli e nipoti, ma forse qualcuno pensa che traducendolo in inglese il cibo risulti poi più saporito. A proposito, avete starnutito e la mascherina ha bloccato le vostre goccioline? Per i giornali si chiamano “droplet”, attenzione. Contagiano lo stesso, ma sembrano più internazionali e moderne.

Nemmeno la pandemia del Coronavirus riesce ad uccidere la nostra esterofilia ed il nostro scimmiottamento della lingua inglese, per cui secondo il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e, quindi, di tutti i mezzi d’informazione, le nostre espressioni che pur andrebbero bene ed utilizzate di “lavoro da lontano”, “lavoro a distanza”, “lavoro da casa”, “telelavoro”, “sono diventate “Smart working”. La cui traduzione esatta però sarebbe “lavoro agile”. Forse perché la parola “lavoro” si associa alla “fatica”, e lo si vuole rendere più piacevole o addirittura esorcizzare come si è fatto con il “flash mob”, che poi sarebbe il teatrino improvvisato di canti e balli?
Cosa aspettarsi nei prossimi mesi dal coronavirus? Meno morti, più mascherine. Anzi, “filtering face piece”. Ma non illudetevi che chiamandole così vi proteggano meglio…

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Riccardo Pedrizzi

Giornalista, saggista, autore di numerosi testi e direttore di importanti periodici.

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