LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA
Ogni sistema politico sia esso democratico, dittatoriale o anarchico deve trovare un equilibrio tra due elementi fondamentali: l’efficienza e la legittimità. L’efficienza risponde alla domanda: di quanto tempo ha bisogno un governo per mettere in atto soluzioni reali ai problemi? La legittimità risponde alla domanda: in che misura il popolo è d’accordo con queste soluzioni e riconosce l’autorità del governo o del parlamento? L’efficienza corrisponde alla capacità d’agire, la legittimità al sostegno dei cittadini all’azione pubblica. Questi due criteri sono in genere antitetici: la dittatura è senz’alcun dubbio la forma più efficiente di governo, ma raramente gode di una legittimità duratura. Al contrario, un paese in cui ogni decisione dà luogo a discussioni interminabili rafforza senza dubbio l’adesione popolare, ma certamente non la capacità di agire.
La democrazia cerca di soddisfare entrambi i criteri. Ogni democrazia aspira a un sano equilibrio tra legittimità ed efficienza. Talvolta è la prima a incorrere nella critica, talaltra la seconda. Il sistema si mantiene allora in equilibrio. Ma oggi le democrazie occidentali si confrontano simultaneamente con una crisi di legittimità e una crisi di efficienza. Questo sta producendo uno scenario del tutto nuovo e preoccupante.
La crisi della legittimità si manifesta anzitutto nel crescente astensionismo. Sempre meno persone vanno a votare. Negli anni Sessanta, più dell’85 per cento degli europei partecipava alle elezioni. Negli anni Novanta, questa cifra era inferiore al 79 per cento. In Italia le consultazioni elettorali recenti vedono il 65% alle politiche e meno del 50% alle amministrative locali. In termini assoluti, si tratta di milioni di europei che non vogliono più andare alle urne. Rappresenteranno presto un quarto degli elettori. Negli Stati Uniti, la situazione è ancora più critica: alle elezioni presidenziali la partecipazione è inferiore al 60 per cento, a quelle intermedie si aggira addirittura intorno al 40 per cento. L’astensionismo sta diventando la principale corrente politica in Occidente, ma non se ne parla mai. La democrazia occidentale ha un serio problema di legittimità se i suoi cittadini non hanno più voglia di partecipare alla procedura essenziale del suo funzionamento, il voto. In queste condizioni, il Parlamento si può ancora considerare rappresentativo? Un quarto dei seggi non dovrebbe rimanere vuoto, per quattro anni?
In secondo luogo, parallelamente all’astensione, c’è l’incostanza degli elettori. Non solo gli elettori europei vanno a votare di meno, ma il voto è sempre più volubile. Quelli che vanno ancora a votare riconoscono forse ancora la legittimità della procedura, ma mostrano sempre meno fedeltà a un solo partito. Le organizzazioni politiche ammesse a rappresentarli contano su un sostegno molto provvisorio del loro elettorato. I politologi parlano in questo contesto di “volatilità elettorale” e notano che dagli anni Novanta essa si è considerevolmente amplificata: spostamenti di oltre il 10, il 20 o anche il 30 per cento dei voti non sono rari. È il regno dell’elettore fluttuante.
In terzo luogo, c’è sempre meno gente che aderisce a un partito politico. Negli stati membri dell’Unione europea, solo il 4,65 per cento degli elettori è ancora iscritto a un partito. Si tratta di una media. In Belgio, il 5,5 per cento dei cittadini ha ancora la tessera di un partito (contro il 9 per cento nel 1980), mentre in Olanda questa cifra è scesa al 2,5 per cento (contro il 4,3 per cento nel 1980). Uno studio scientifico di Ingrid Van Biezen, Peter Mair e Thomas Poguntke, “Il declino dell’appartenenza ai partiti nell’Europa contemporanea”, in “European Journal of Political Research”, n. 51, 2012, pp. 33-38 trae la seguente conclusione: “Nei casi estremi (Austria, Norvegia) questa emorragia supera il 10 per cento, in altri casi si avvicina al 5 per cento. Tutti i paesi, a eccezione del Portogallo, della Spagna e della Grecia (che conoscono la democrazia solo dagli anni settanta), registrano inoltre, in termini assoluti, una notevole erosione a lungo termine del numero di cittadini iscritti a un partito: un calo di un milione o più in Gran Bretagna, in Francia e in Italia, di circa mezzo milione in Germania e quasi altrettanto in Austria. In Gran Bretagna, in Norvegia e in Francia, i partiti politici hanno perso più della metà dei loro iscritti dal 1980, in Svezia, in Irlanda, in Svizzera e in Finlandia, quasi la metà. Sono dei dati sorprendenti, che indicano che la natura e il significato dell’appartenenza a un partito politico sono profondamente cambiati”.
Come detto, la crisi della democrazia non è solo di legittimità ma anche di efficienza. I parlamenti impiegano a volte una quindicina d’anni per riuscire a votare una legge. I governi fanno sempre più fatica a formarsi, sono spesso meno stabili e, alla fine del loro mandato, sono puniti sempre più severamente dagli elettori. Le elezioni, cui partecipano sempre meno cittadini, costituiscono sempre più spesso un ostacolo all’efficienza. Innanzitutto, le consultazioni per la formazione di un governo durano sempre più a lungo, soprattutto nei paesi guidati da coalizioni complesse. Ciò si spiega per diverse ragioni. Una è certamente il continuo prolungamento e il carattere sempre più dettagliato degli accordi di governo. Ogni partito non vuole rimetterci. Bisogna quindi fissare per iscritto in anticipo il maggior numero di disposizioni possibile, poiché si tratta di salvaguardare al massimo il programma del partito all’insegna dell’accordo di governo. Conseguenza: le negoziazioni si allungano. In secondo luogo, i partiti di governo devono subire attacchi sempre più duri. Lo studio comparativo dei governi rappresentativi è una disciplina relativamente giovane, ma alcuni risultati sono impressionanti. Ciò vale in particolare per lo studio della “ricompensa” elettorale in Europa. Qual è la sorte di un partito di governo alle elezioni successive? Negli anni cinquanta e sessanta, i partiti che avevano partecipato a un governo uscente perdevano tra l’1 e l’1,5 per cento dei voti, negli anni settanta il 2 per cento, negli anni ottanta il 6 per cento. Dall’inizio di questo secolo, le perdite arrivano all’8 per cento, se non di più. Chi può ancora voler promuovere una politica attiva in Europa, se il prezzo da pagare per l’esercizio del potere è così spietatamente elevato? Restarsene in disparte è oggi un’opzione molto più razionale, soprattutto se non incide sul finanziamento del partito: lo stato paga comunque. In terzo luogo, l’azione pubblica richiede sempre più tempo. Le grandi opere pubbliche sono state realizzate a fatica o sono state addirittura bloccate. In quest’inizio di Ventunesimo secolo, la sovranità, un tempo fondamento dello stato-nazione, è diventata una nozione del tutto relativa. Di conseguenza, le grandi sfide della nostra epoca – cambiamento climatico, crisi bancaria, crisi dell’euro, crisi economica, paradisi fiscali, migrazioni, sovrappopolazione – non possono più essere affrontate in modo adeguato dai governi nazionali. Di conseguenza c’è impotenza del cittadino di fronte ai governi nazionali, dei governi nazionali di fronte all’Europa, e dell’Europa di fronte al mondo. Ciascuno nutre disprezzo per i cocci che vede sotto di sé e alza lo sguardo, non più con speranza e fiducia, ma con disperazione e collera. La gerarchia del potere oggi: una scala piena di gente che s’insulta. L’incapacità di affrontare i problemi strutturali s’accompagna oggi a una sovraesposizione del triviale, incoraggiata da un sistema mediatico che ha perso la testa e che, fedele alle logiche di mercato, preferisce ingigantire conflitti futili piuttosto che analizzare problemi reali, soprattutto in un periodo di calo delle quote di mercato dell’audiovisivo. Nel corso degli ultimi anni, il numero d’interrogazioni parlamentari è molto aumentato nelle stesse proporzioni dell’audience dei talk show politici alla televisione, perché ogni parlamentare degno di questo nome deve distinguersi nel momento in cui le telecamere stanno riprendendo. “I deputati non esitano a dirsi quotidianamente ‘sbalorditi’, ‘scioccati’, ‘molto spiacevolmente sorpresi”. Quando la voglia di essere notati ha la meglio sulla gestione, quando la febbre elettorale diventa un’affezione cronica, quando i compromessi sono costantemente tacciati come tradimenti, quando la politica dei partiti suscita sistematicamente il disprezzo, quando l’esercizio del potere provoca immancabilmente una severa punizione elettorale, perché un giovane idealista dovrebbe ancora voler entrare in politica? Diventa sempre più difficile reclutare uomini nuovi ed entusiasti – sintomo secondario della crisi dell’efficienza. La professione del politico ha lo stesso destino di quella dell’insegnante: un tempo era una funzione nobile e prestigiosa, oggi un mestiere da cani. Ecco il nodo della crisi dell’efficienza: la democrazia ha perso a poco a poco tutto il suo mordente, ma nello stesso tempo è diventata curiosamente sempre più rumorosa. Invece di borbottare a voce bassa in un angolo discreto, provando vergogna per la propria impotenza, reso modesto dai limiti del suo raggio d’azione, l’uomo politico di oggi può, o meglio deve, urlare ai quattro venti le sue virtù – le elezioni e i media non gli lasciano scelta – preferibilmente stringendo i pugni, contraendo i muscoli e spalancando la bocca, poiché si tratta di una posizione vantaggiosa che dà un’impressione di energia. Invece di riconoscere con umiltà che i rapporti di potere sono cambiati e di andare alla ricerca di nuove forme di governo che abbiano senso, l’uomo politico è costretto a continuare a giocare al gioco mediatico-elettorale. Il cittadino comincia a trovare lo spettacolo un po’ stancante: tutta quest’isteria esagerata e artificiale non è in grado di far rinascere la sua fiducia. La crisi dell’efficienza non fa che aggravare la crisi della legittimità.
Nicola Sparvieri
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