La customer satisfaction al tempo degli equity fund
La Customer Satisfaction al tempo degli Equity Fund,
un parametro variabile e soggetto a diverse valutazioni
“Pillole di economia” a cura di GIUSEPPE PINO
In uno scenario imprenditoriale, a livello globale sempre più caratterizzato da forti indici di competitività sui mercati, spesso e volentieri l’attenzione viene riposta unicamente sull’atto finale: ovvero la vendita di quello che si produce, realizza o si offre come servizi.
A differenza, la scarsa attenzione riposta sulle filiere produttive che hanno portato ad un successo (o anche ad un insuccesso) passano quasi sempre in secondo ordine. Alla stregua di un accessorio necessario, ma non strategicamente decisivo nel posizionamento di un prodotto, di un bene, di una attività professionale.
Come altrettanto pensare, o ritenere, che di gran lunga oggi si compete o ci si afferma, solo ed unicamente, con efficaci campagne di marketing & communication. Oppure attraverso la capacità ed il contributo fattivo di processi, talvolta esasperati e mirabolanti di tecnologia imperante.
In certi casi ossessiva, capace di produrre anche effetti boomerang su valide ed indispensabili attività di ammodernamento, come ad esempio per Impresa 4.0 (sovente confusa o banalmente equiparata anche a strumenti di digitalizzazione) che stanno caratterizzando i nostri anni e che lo diventeranno sempre di più in futuro.
Tutto quanto, però, finisce inesorabilmente per scontrarsi (disruption), anche in maniera costruttiva, nel momento in cui aziende che hanno unicamente puntato e basato la loro forza su aspetti commerciali e distributivi, debbono fare i conti (nell’accezione più stretta del termine) con la necessità di reperire risorse finanziarie per sostenersi e sviluppare differenti modelli di crescita, affrontare nuovi mercati.
Di solito, in queste circostanze, molte certezze cominciano a vacillare, a venir meno, aspetti dati per scontati non lo sono più così tanto, nodi al pettine e colli di bottiglia emergono in tutta la loro evidenza. Ancora di più se, dal tradizionale canale di approvvigionamento bancario, in ausilio a quello finanziario societario di partenza, ci si affaccia a quello alternativo degli equity fund: cioè di soggetti investitori, non di prestatori di denaro.
Se quest’ultimi (istituti di credito) sono diventati sempre più difficili da avvicinare e convincere, anche per tutta una serie di problematiche endogene rispetto alle esogene (sempre onnipresenti nella valutazione ultima e definitiva della concessione di credito al cliente) che stanno affliggendo molte banche italiane (per repentini accorpamenti, pesanti ristrutturazioni, se non addirittura commissariamenti per evitare default), i primi (investitori) sono ancora più selettivi.
Difficilissimi da avvicinare, di solito per due semplici (quanto banalissime) ragioni: da un lato scarsa conoscenza degli operatori (o, meglio, non si conoscono proprio, quasi fossero entità astratte ed immateriali) dall’altro, quella delle aziende. Principalmente per mancanza di una sufficiente preparazione in argomento e cultura di mercato, difficoltà a parlare la stessa lingua.
Anche se, in verità, soprattutto con riferimento a quest’ultimo aspetto, l’assenza (o presunta tale) di argomenti di dialogo, forse è piuttosto un problema di rapporti (più che di inconciliabilità), di metodo (più che di forma). In effetti, a guardare bene, le distanze fra investitori finanziari professionali ed aziende sono spesso fittizie, in realtà ridotte e più vicine di quanto si possa credere o immaginare.
Forse sono per di più generici pretesti, piuttosto che motivazioni vere, a dominare diffidenza e non interesse. Tuttavia, una distinzione va necessariamente fatta per gli strumenti di crowdfunding e fundraising, che sottintendono ad altre logiche di sostegno all’impresa e, soprattutto, impiegati per quelle giovani, di recente costituzione e non solo per le Start Up innovative.
In ogni caso, fondi di private equity, venture capital e, più in generale, tutti gli operatori finanziari che si occupano di industry investment, maturano le proprie decisioni (positive o negative) basandosi unicamente su piani di fattibilità (business plan), sulle capacità imprenditoriali e manageriali dei soggetti in valutazione (contano molto le skills delle persone), dei processi di innovazione.
Ecco perché, per loro, marketing & communication pur restando indubbiamente fattori ed aspetti strategici importanti, rimangono subalterni alla complessiva valutazione dell’intera filiera produttiva o dei servizi nei quali si cimenta e propone l’azienda.
Pertanto, si può tranquillamente ritenere, senza ombra di dubbio, che le aspettative derivanti dalla partecipazione ad un’azienda, da parte di un fondo d’investimento, sono paritetiche a quelle imprenditoriali. Molto più distanti, a differenza ed anche nelle modalità, quelle di una banca: semplicemente perché quest’ultima presta denaro e non partecipa attivamente alla vita aziendale, se non sussidiariamente.
I primi, invece, investono (come appunto si diceva poc’anzi), possono farne parte anche fisicamente, entrando anche nei Consigli di Amministrazione (CdA), esprimendo figure manageriali di riferimento nelle governance. Gli investitori, pertanto, possono non solo entrare negli asset societari, partecipare con quote (di minoranza nella stragrande maggioranza dei casi e nelle PMI; di maggioranza, di solito, nella grande industria e in contesti particolari, come crisi d’azienda o cambi generazionali), ma sono dei veri e propri accompagnatori, dei traghettatori. Anche se, la loro presenza, è sempre a tempo determinato, generalmente preventivabile dai cinque anni in su (non meno, salvo casi eccezionali, rispetto ai canonici tre di qualche anno addietro), sicuramente mai a tempo indeterminato o non stabilito in fase di deal mediante accordi e patti parasociali.
Poi escono (exit) e monetizzano, come farebbe qualsiasi altro operatore economico, per soddisfare investitori che gli hanno concesso (facendo raccolta) risparmi e risorse finanziarie da gestire, possibilmente al meglio.
In estrema sintesi, parliamo di dinamiche totalmente differenti nel concepire e fare impresa: che si accettano o non si accettano. Vie di mezzo non esistono.
E dove, anche la customer satisfaction, finale, incipit dalla quale siamo partiti nell’analisi, ovvero la potenziale pretesa del cliente, generata dall’azienda fornitrice di un bene o di un servizio, può venir riclassificata a monte e determinata (voluta) proprio dalla presenza dell’investitore tramite il fondo e dagli obiettivi predeterminati. Anzi: riveduta nei concetti fondamentali e capace di soddisfare, prima di tutto, le aspettative e i parametri concordati con gli investitori, ancora prima che dai mercati.