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La lezione di Beirut in una estate per nulla non tranquilla

Libano: il Paese dei Cedri e dell’antichissimo Mito d’Europa,
la principessa rapita
e portata a Creta, che ha dato il nome al nostro continente    

Torquato Cardilli

Dopo i massacri nelle trincee della prima guerra mondiale, i milioni e milioni di morti della seconda guerra, combattuta sugli oceani, nel deserto africano, nel gelo della steppa russa. Dopo lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, sembrava che gli uomini avessero toccato il punto più basso dell’abbrutimento. E invece no.

Ci volle il terribile sigillo del 6 agosto 1945 con la prima bomba atomica della storia ad Hiroshima per spostare ancora più avanti i confini della crudeltà da cui difficilmente si sarebbe tornati indietro.

Da allora le grandi potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno costantemente dichiarato ai quattro venti, con una propaganda martellante, di ambire a garantire la pace nel mondo, ma ciascuna di esse intendeva alle proprie condizioni, alimentando la guerra fredda e i conflitti caldi.

Smentendo nei fatti ogni pacifismo di maniera hanno coartato la volontà delle Nazioni Unite e partecipato direttamente, o per stati interposti, a guerre sanguinose in Asia, in Africa, in America Latina e persino in Europa con l’obiettivo di riaffermare la propria influenza politica, la difesa dei propri interessi geostrategici, la propria superiorità militare.

 

La carneficina giapponese non si è ripetuta, ma le centinaia di conflitti armati, in ogni parte del mondo, hanno seppellito per sempre sotto la cenere dell’egoismo i buoni propositi.

Se volessimo elencare tutte le guerre della seconda parte del secolo scorso, e che tuttora perdurano, dovremmo riempire varie pagine: Corea, Indocina, Algeria, guerre inter-africane e in America Latina, Vietnam, Egitto, Israele, Giordania, Iran, Argentina, Somalia, Golfo, Iraq, Serbia, Siria, Libia, Afghanistan, sono state le macabre tappe della insensata efferatezza dei governi.

Questo secolo si è aperto con l’incredibile carneficina delle Torri Gemelle a New York ad opera di fanatici assassini. Gli Stati Uniti trafitti al cuore hanno reagito come bisonti impazziti colpendo alla cieca chiunque, a torto o a ragione, perseguisse idee diverse. Hanno prima distrutto l’Iraq dalle fondamenta, poi dopo aver bombardato con missili il Sudan hanno schierato tutta la loro forza distruttiva contro l’Afghanistan ed il suo principe nero Bin Laden che, un tempo, li aveva aiutati a cacciare i sovietici dal paese.

Da allora gli atti di terrorismo si sono intensificati (Tunisi, Beirut, Baghdad, Cairo, Sharm el Sheikh, Nairobi, Parigi, Madrid, Nizza, Barcellona, Francoforte, Londra, Bruxelles, Boston, Mogadiscio, Bamako ecc.)

Dappertutto in Europa si sono ripetute cerimonie di commemorazione e di ipocrita partecipazione, minuti di silenzio in ogni assemblea, anche di condominio, vessilli abbrunati, candele e silenzio di tromba, capi di Governo che si tengono per mano e che mettono un fiore sul selciato insanguinato, lutto nazionale, un profluvio di banalità e di retorica, ma nessun provvedimento concreto.

Subito dopo l’eccidio del Bataclan di Parigi il presidente francese Holland sulle bare dei morti aveva detto parole gravi: “noi siamo in guerra”. Come in guerra? Contro chi? Con quale strategia? Con quali strumenti? Andando a bombardare a casaccio in Siria e in Iraq?

I governanti dell’Occidente, culla della difesa della vita, del benessere, degli agi, e anche dell’accaparramento economico, hanno indetto conferenze e vertici inconcludenti a ripetizione con l’intento di salvare le apparenze, senza rendersi conto che si è piombati in un rapporto di contrapposizione asimmetrica e non convenzionale, non più rispondente agli schemi del passato. Risultato? Hanno solo fatto ingrossare i portafogli dei fabbricanti di armi, bombe, ordigni, strumenti di guerra seminatori di morte.

A 75 anni di distanza dalla tragedia del Giappone, il 4 agosto 2020 un’altra esplosione distruttrice, apparentemente senza motivazione, più letale del disastro delle Torri Gemelle, ha raso al suolo un’intera città. Beirut è in ginocchio. Un micidiale arsenale di esplosivi, bombe, razzi, colpevolmente custoditi in un capannone, in prossimità delle riserve di grano del paese e di una zona densamente abitata, è saltato in aria facendo in un colpo solo 200 mila senza tetto, oltre 7 mila feriti (anche due ospedali sono stati semidistrutti) 220 morti con un imprecisato, ma elevato, numero di dispersi.

Subito dopo la tragedia sono piovute da ogni angolo del mondo le dichiarazioni di solidarietà dei vari Governi, dell’Unione Europea. Tra tutti si è distinto il presidente francese Macron, che ha inteso mostrare alle altre potenze che quando si parla di Libano si parla di interessi francesi. Ha promosso la creazione di un fondo di aiuti che pagheranno tutti e che avrà moralmente la bandiera francese.

Ci saranno commissioni di indagine nazionali e internazionali, fiumi di dibattiti sulle ipotesi più varie (attentato di Hezbollah, sabotaggio di Israele, detonazione per errore di manipolazione, complicità dei custodi, collusione della dirigenza portuale ecc.), risoluzioni più o meno ipocrite di sostegno ad un paese in sfacelo, ma nessun Governo porrà sul tavolo il problema delle armi.

La tragedia che ha colpito Beirut è stata l’ultimo colpo inferto ad una nazione profondamente provata da una crisi economica e politica, fatta anche a suon di bombe, che va avanti ormai da parecchio tempo. Essa ha provocato danni per 10 miliardi di dollari, la distruzione del porto quale principale arteria commerciale nonché l’affondamento del turismo già colpito dal covid-19.

Le conseguenze sanitarie, sociali, economiche e geopolitiche, non faranno altro che aggravare le condizioni di vita del modello libanese già compromesso dal punto di vista della stabilità per i livelli di disoccupazione, di corruzione, di svalutazione della moneta e di inflazione altissimi. 

A pagarne il conto saranno, come sempre, le fasce più deboli della popolazione, gli anziani, i malati i bambini che, se riusciranno a diventare adulti, conserveranno negli occhi, nella memoria e nella psiche gli orrori brutali vissuti, l’assenza di acqua, corrente, cibo, e il costante urlo delle sirene.  

Quella di Beirut, che ha innescato violente manifestazioni di piazza contro il Governo e contro la corruzione, è una lezione per la politica internazionale inetta e bombarola che è restia a voler capire.

Di chi erano quegli esplosivi? Chi li ha fabbricati? Chi li ha venduti? Chi li ha comprati? Possibile che non si capisca che la presenza di quegli strumenti di morte è l’origine della tragedia?

I Governi dei paesi cosiddetti democratici e illuminati hanno dimenticato il nobile discorso di Eisenhower, che da comandante supremo delle forze alleate in Europa, essendo stato testimone diretto delle sofferenze dei soldati, dei lutti e delle brutalità imposte alla popolazione civile, divenuto presidente degli Stati Uniti nel 1953 rivolse alla nazione un monito severo: “[…] ogni arma da fuoco prodotta, ogni missile lanciato significa, in ultima analisi, un furto ai danni di coloro che sono affamati. Questo mondo non sta solo spendendo denaro in armi, ma sta spendendo il sudore dei suoi operai, le speranze dei suoi giovani […]”.

È questa l’ora di imparare la lezione di Beirut, di sospendere la fabbricazione di strumenti di guerra, di imporre l’embargo perché il Mediterraneo non veda più il trasporto nemmeno di una pallottola e torni ad essere una via di pace, di scambi culturali e commerciali.

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