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La paura ancestrale delle carestie

Nel 1798 il pastore inglese Thomas Malthus segnalò il pericolo di una crescita demografica incontrollata. I suoi moniti si rivelarono tuttavia infondati perché non aveva previsto l’industrializzazione dell’agricoltura e l’introduzione di tecnologie che consentirono di usare in modo più produttivo la terra e di trasportare il cibo nelle diverse parti del mondo. I fertilizzanti permettevano di ottenere piante più grandi, l’irrigazione rendeva coltivabili i terreni aridi e le varietà selezionate di grano avevano una resa sempre maggiore.

Tuttavia anche il contemporaneo Lester Brown, agronomo e ambientalista statunitense e fondatore del Worldwatch Institute e dell’Earth Policy Institute, ritiene che i timori di eventuali carenze di cibo nel XXI secolo costituiscano una grave minaccia per la stabilità globale. Egli ritiene che l’ambiente sta arrivando al limite della capacità produttiva. L’aumento delle temperature dovuto ai cambiamenti climatici rappresenta un’effettiva minaccia per i raccolti di tutto il mondo: l’Accademia nazionale delle scienze statunitense ritiene che, per ogni grado Celsius in più di temperatura della superficie, la produttività di grano, riso e mais cali del 10%. A ciò si aggiunge l’uso eccessivo d’acqua dolce: alcuni paesi ricorrono addirittura alle falde acquifere o ad altre fonti non rinnovabili per irrigare le colture. Inoltre, lo strato attivo del suolo si sta erodendo più velocemente rispetto al processo di formazione di terreno nuovo. Per contro, la domanda di grano è in aumento, in parte per il maggiore benessere economico. A mano a mano che in India e in Cina aumenta il consumo di carne, perché oggi molti si possono permettere un alimento che un tempo era troppo costoso, la domanda di grano crescerà in modo analogo anche in quei paesi.

Convinti della necessità di prevenire i cambiamenti climatici, i governi in tutto il mondo stanno sostenendo la produzione di biocarburanti per sostituire quelli fossili tradizionali per autotrazione, Gli agricoltori vengono incentivati a coltivare mais, zucchero di canna, palme da olio e colza, tutte piante trasformabili in etanolo o in altri carburanti sostenibili. Circa un quarto del mais e di altri cereali coltivati negli Stati Uniti nel 2008 è stato usato per produrre etanolo. In base al consumo mondiale medio i cereali coltivati per produrre etanolo avrebbero potuto sfamare 330 milioni di persone per un anno. E la tendenza è all’aumento della produzione di biocarburanti e questo genera una insicurezza alimentare globale. Un rapporto della Banca mondiale del 2008 ha concluso che la corsa ai biocarburanti promossa dai governi di Europa e Stati Uniti ha fatto salire i prezzi alimentari del 75%.

Se l’unico risultato di una carenza di cibo fosse l’aumento dei prezzi, potrebbe essere considerato un problema di sviluppo, uno dei tanti, ma la crisi avrebbe ripercussioni soprattutto sui paesi poveri. In uno stato prossimo al fallimento il governo non è più in grado di garantire la sicurezza personale né i servizi sociali di base, come l’istruzione e la sanità. Gli effetti combinati di questi trend e le tensioni politiche che generano suggeriscono la possibilità che si arrivi al crollo dei governi e delle società. La incapacità di affrontare il degrado dell’ambiente che compromette l’economia alimentare del mondo, in particolare la diminuzione della superficie delle acque piovane, l’erosione del suolo e l’aumento delle temperature avvalorano la eventualità di una effetto catastrofico sui governi dei paesi emergenti da parte del proliferare delle carestie alimentari.

Questo problema toccherebbe anche le fasce benestanti dell’Occidente. Gli stati sull’orlo del fallimento hanno un impatto globale, perché generano terrorismo, traffico di stupefacenti, di armi e rifugiati. I loro abitanti minacciano la stabilità politica non solo della loro regione, ma del mondo intero. Tra i vari stati in fallimento segnalati dalle Nazioni Unite, la Somalia è diventata una base di pirati, l’Iraq il centro di addestramento dei terroristi e l’Afganistan il principale fornitore di eroina del mondo. L’aumento dei prezzi alimentari semina disordine. In Thailandia i ladri di riso hanno costretto gli abitanti dei paesi a sorvegliare i raccolti con i fucili durante la notte. In Sudan vengono rubati camion carichi di grano. Se i singoli stati iniziano disgregarsi, la finanza internazionale diventa più complicata e la diffusione delle malattie più difficile da arginare.

La tecnologia potrebbe venirci in aiuto. Potremmo modificare geneticamente le piante per aumentarne la resa o per coltivarle in terreni poveri d’acqua o di nutrienti. Ma colture simili non sono mai state sperimentate su una scala abbastanza vasta da poter affermare che sia una via percorribile. Forse però le soluzioni sono ancora più semplici. Anziché affidarci alla tecnologia, potremmo pensare di modificare il nostro comportamento, conservando il suolo, per esempio, coltivando e mangiando grano anziché riso, che richiede più acqua. Non è certo una soluzione disboscare centinaia di milioni di ettari, in America latina e in Africa, e incrementare l’attuale tipo di agricoltura, intensiva in termini di risorse e distruttiva per l’ambiente. Qui sta dunque la vera sfida dei decenni a venire: come aumentare considerevolmente la produzione agricola senza aumentare di conseguenza la quantità di terra usata.

La soluzione da percorrere che è anche la più sostenibile è quella di trovare nuove varietà di piante che richiedano meno acqua e siano più resistenti ai parassiti e al calore, ma soprattutto ridurre lo spreco dell’intero sistema. Sappiamo infatti, ed è vergognoso, che fino a un terzo di cibo prodotto nel mondo viene gettato o va perduto. Quello che occorre fare è cambiare il sistema di sviluppo limitando gli sprechi e ottimizzando la distribuzione dei beni e delle risorse tra paesi ricchi e paesi poveri. È necessario distrarre risorse utilizzate da un consumismo inutile e sfrenato a vantaggio di una diffusione dei mezzi di produzione che favoriscano l’economia e lo sviluppo dei paesi emergenti in modo più solidale e sostenibile.

Nicola Sparvieri

Foto © Maccalli

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