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La piccola Indi Gregory, ancora “Tempo di Uccidere” ?

LA VITA: UNO SPAZIO DI TEMPO ED ESISTENZA
….tra la NASCITA e la MORTE
 

Tempo di uccidere è un romanzo di Ennio Flaiano, pubblicato nel 1947 dall’editore Longanesi e nello stesso anno Premio Strega, non senza polemiche, sul tema dell’illusoria conquista italiana dell’Etiopia nella seconda metà degli anni ’30.
Certo, la vicenda del protagonista flaianeo, il Tenente Enrico Silvestri, preso dalla paura di aver contratto la lebbra, è ben diversa da quella della piccola Indi Gregory, la bambina inglese, affetta da una rara malattia e, poche ore fa, per disposizione giudiziaria condannata a morire, in attuazione della pretestuosa giustificazione di un “fine vita” che la sollevi dalla sofferenza.

Entrambe, però, sono storie del tormento ossessivo della malattia sino all’irreparabile ma, soprattutto, della fragilità personale di chi, vittima presunta, come l’Ufficiale Italiano, o reale, come la sfortunata Indi, finisce, comunque, in balia di un prossimo con la pretesa di decidere arbitrariamente dell’esistenza altrui.
Nel caso di Indi tutto è ancora più grave: giudici, fini intellettuali a vanvera e buona parte dell’opinione inglese hanno preteso di imporre, inesorabilmente e forzatamente, un fine vita, liberatorio dalla sofferenza e anticipatorio di una morte, sicuramente certa, seppur non prevedibile nei tempi, e, tutto questo, in nome e applicazione di principi, norme di legge, assunte a terribile strumento se lasciar vivere oppure uccidere.
Con la sua scienza, con le sue regole di diritto per la migliore convivenza sociale, non ultima con la sua compassione partecipativa l’uomo ha sicuramente il diritto e il dovere di ridurre, lenire – tanta storia del progresso umano lo conferma – la sofferenza altrui, pur la più dolorosa e tragica che sia, ma non a sopprimere la vita, infelice che sia, perché presupposto della stessa sofferenza: come dire, zac, fine alla vita e la sofferenza non c’è più.
In tale circostanza, l’uomo non può e non deve assolutamente arrogarsi il diritto di uccidere, sopprimere, credendo di potersi sottrarre alla personale, evidente responsabilità di un omicidio premeditato, cinicamente ammantato da pretestuose, false motivazioni, giustificatrici di tanta abiezione.

                                                                                 

Sono fermamente e sempre più convinto che nessuno e nulla giustifichi il fine vita, anche nelle condizioni più disperate e pure dietro volontà degli sventurati, diretti interessati; sono altrettanto e sempre più nell’irriducibile convinzione che una vita sofferente non possa e non debba eliminarsi con un colpo di spugna che tutto lava e leva di torno, alla fine con la stessa finalità terribile della peggiore eugenetica: eliminare un pasticcio genetico, come nel caso della bambina Indi.
Da Jacopone da Todi a Dante, a Petrarca, a Boccaccio e, via via, sino all’esistenzialista J.P. Sartre tutti concordano come la vita sia spazio di tempo ed esistenza tra la nascita e la morte; quindi pendolo tra due destini ed essa stessa, sorte alterna tra gioia e dolore, e su questa considerazione si pone in modo esclusivo, vincolante l’etica ovvero la riflessione morale quale, sul rapporto tra vita e morte, sia e debba essere il comportamento, la scelta migliore dell’uomo.
In questo caso, l’Etica deve tutelare anche affetti, familiari e no, deve evitare che atti impositivi, come nel caso dell’infelice Indi, stravolgano sino all’estremo strazio l’animo di due genitori disperati, ma pur sempre mamma e papà di una creatura, sopraggiunta dall’intimità di un loro grande, voluto, reciproco atto d’amore.
Invece, no, prevalgono la volontà spiccia e il tempo di uccidere, gli stessi per i quali si compiono assurdi “viaggi della speranza” in Svizzera per finire suicidi assecondati e, spesso, pure istigati nel proprio proposito di farla finita.

Sono credente, forse male, ma credo, per questo penso che valga sempre provare a rendersi degni di quell’immagine e somiglianza, riflessa nella nostra venuta al mondo perché ispirata dal Bene assoluto: saremmo, però, ingenui a pensare di vivere in modo che tutto vada liscio come l’olio senza mai un intoppo, una contrarietà; saremmo egoisti del piacere e non del dono della vita nella sua complessità.
Allora, chi ci autorizza a tradire quell’immagine e somiglianza? Ho gioito per la nascita di mio figlio come ho sofferto dinanzi all’indicibile sofferenza estrema di mia moglie, eppure mi ha consolato che tra questi due diversi eventi sia intercorso un tempo lungo di serena vita familiare, tutti e tre assieme. Così, non sarà, invece, per la famiglia di Indi Gregory, solo pochi mesi assieme tra la nascita e l’imminente morte della piccola: come non capire e assecondare sino in fondo l’estremo, viscerale, profondo sentimento dei genitori di protrarre più a lungo possibile la vicinanza alla loro creatura.

Giuste le parole di Oscar Wilde, delle quali molti presuntuosamente dimostrano di non voler riconoscere la verità:
Vivere è la cosa più rara e difficile al mondo. La maggior parte della gente esiste soltanto, ecco tutto”.

_________________FRANCO D’EMILIO

 

 

 


Foto autore articolo

Franco D’Emilio

Storico, narratore, una lunga carriera da funzionario tecnico scientifico nell’Amministrazione del Ministero per i beni e le atiività culturali
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