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La REALPOLITIK: da Bismark ad oggi

Con questo termine il cancelliere Bismarck, continuatore della visione egemonica di Metternich, intese definire una politica concreta, realistica, che, tenuto conto della realtà sia interna che internazionale, mirasse esclusivamente a conseguire gli interessi supremi del paese, lasciando in disparte personalismi, sentimenti, risentimenti e ideologie.

In precedenza altre figure, che hanno impresso la loro impronta sulla storia di Francia e d’Italia, come il Cardinale Richelieu e il conte di Cavour, per indicare la stessa politica, avevano utilizzato una formula più raffinata ricorrendo all’espressione sacrale della “ragion di Stato”. E vi fece ricorso negli anni ’70 del secolo scorso anche il presidente americano Nixon che seguì i consigli del suo Segretario di Stato Kissinger, ispirati alla restaurazione della diplomazia, per stabilire legami con la Cina maoista, nonostante le sostanziali divergenze politiche, ed avviare le trattative di pace con il Vietnam.

Ma nella nostra storia del XVII secolo c’è stato anche chi non comprese l’importanza di una politica realistica. Si tratta del caso emblematico e tragico del 27 enne Masaniello, capo popolo della rivoluzione napoletana, che per difetto di realismo e di cultura politica disperse in pochi mesi il trionfale successo che aveva accompagnato la sua ascesa, e finì sopraffatto dalle forze dell’ancien regime e della reazione, rimettendoci l’osso del collo.

Se non si è capaci di condurre una lotta senza quartiere di tipo rivoluzionario, è necessario, smussare gli angoli e farsi concavi o convessi a seconda delle circostanze, pur senza accantonare del tutto i propri ideali. Lo statista infatti si misura, specialmente nei casi di forte contrapposizione politica, dalla maggiore o minore attitudine a realizzare compromessi sulle proprie idee, prendendo il buono che c’è in quelle degli altri.

Immergendoci concretamente nella nostra politica interna bisogna subito notare che nelle elezioni regionali abruzzesi e da ultimo sarde, la volatilità dell’elettorato, rimasto pietrificato fino all’epoca di mani pulite, ha fatto accendere varie spie luminose di allarme sul barometro della stabilità del Governo per la crescita esplosiva della Lega, la pesante battuta d’arresto del M5S, la modesta performance dei due partiti storici Forza Italia e PD, mitigata dal pot-pourri (nel senso etimologico del termine di “pentola imputridita”) di parecchie liste civetta per ciascuno schieramento.

La Lega di oggi, avendo puntato tutto sul sentimento passionale del rifiuto dell’immigrazione, sull’orgoglio nazionale al posto di quello padano, sulla difesa dei confini, sulla protezione delle partite IVA, sull’autonomia monetaria, sullo scontro con l’Europa ha fatto un bottino pieno erodendo consensi su due fronti: da una parte ha ulteriormente prosciugato il laghetto di Forza Italia e dall’altra ha risucchiato come una idrovora gran parte dei voti che il popolo aveva dato al M5S nel marzo del 2018.

L’anno scorso gli elettori insoddisfatti per la continua austerità, delusi dal governo PD e dalle promesse della destra berlusconiana si erano riversati sul M5S portandolo a livello di primo partito italiano con oltre il 33%

In questo giro delle regionali abruzzesi e sarde invece il M5S ha segnato una pesante battuta d’arresto avendo rifiutato la logica delle alleanze che, stante la legge elettorale proporzionale è invece una scelta politica obbligata. Il M5S è tornato a poter contare su uno zoccolo inferiore al 20% costituito dagli attivisti, dalla rete, dai meetup, ma questo robusto bacino valido per fare opposizione, non è sufficiente per governare.

Dove sono finiti questi elettori mancanti? Nella migliore delle ipotesi hanno disertato le urne per lo scarso appeal di una squadra di governo e della sua capacità di innovare rispetto al passato, nella peggiore sono tornati nell’alveo di provenienza (del centro destra o del centro sinistra).

Di Maio ha sottoscritto l’anno scorso con Salvini un patto di governo assumendo su di sé e sul Movimento la corona di tutte le spine e la croce dei temi più scottanti e difficili (Ilva, Lavoro, Pensioni, Sanità, Infrastrutture, Trasporti, TAV, Tap, Trivelle, Sud, Ambiente, Difesa) lasciando al partner campo libero per una propaganda quotidiana e martellante sulla sicurezza, sull’immigrazione, sugli sgomberi delle occupazioni illegali, con frequenti tracimazioni in aree non proprie e di competenza di altri ministri come l’economia, i trasporti e le infrastrutture, la politica estera, la giustizia, l’informazione, l’agricoltura.

Allo squilibrio di oneri e di efficacia nel catturare la simpatia del popolo che si è fatto ipnotizzare dalle sparate salviniane, si sono aggiunti nell’ultimo mese tre infortuni che hanno eroso la fiducia degli elettori del M5S a livello nazionale che hanno finito per avere pesanti ripercussioni locali.

Si è trattato di temi che non interessano minimamente l’elettorato, alle prese con problemi quotidiani di lavoro e sussistenza e che sono stati considerati come strumenti di distrazione dai problemi di ogni giorno, ma che hanno un riflesso sulla credibilità internazionale: l’attacco frontale alla Francia di Macron sulla questione del franco centroafricano, la ricercata contiguità con i gilet gialli che si oppongono duramente al governo di Parigi e l’atteggiamento di neutralità sulla questione venezuelana, dimenticando la presenza in quel paese di centinaia di migliaia di nostri connazionali.

Intendiamoci le posizioni assunte nelle tre questioni di politica estera possono essere giudicate giustificabili, ma appartengono a quella categoria di cose che, in omaggio alla realpolitk ed alla ragion di Stato si possono pensare, ma non fare.

Invece di rifugiarci nella nicchia della non interferenza e isolarci rispetto agli altri partner avremmo dovuto cogliere al volo l’occasione di una Gran Bretagna nel marasma politico della Brexit, di una Francia alle prese con una grave rivolta sociale, di una Spagna che obnubilata dalla questione catalana marcia in modo confuso verso le elezioni anticipate, per mettere in atto una qualche iniziativa di spessore, tipo l’invio di qualche decina di tonnellate di aiuti umanitari.

La storia ci ricorda due espressioni che nei secoli hanno fatto scuola per tutte le diplomazie “andare a Canossa”e “Parigi val bene una messa”entrambe assurte a simbolo concreto di realpolitik.

Verso la metà dell’XI secolo in Europa si fronteggiavano due poteri: da una parte il Papa Gregorio VII e dall’altra l’Imperatore Enrico IV di Germania. Entrambi si contendevano la supremazia, pretendendo non solo di nominare autonomamente, l’uno all’insaputa dell’altro, i vescovi che erano dotati di un enorme potere spirituale e temporale, ma anche l’autorità di concedere l’investitura all’altro o di togliergliela dichiarandone la decadenza.

All’apice dello scontro Gregorio VII scomunicò Enrico IV.

A quel punto l’imperatore temette che la sua autorità dimezzata dalla scomunica avrebbe avuto nel regno conseguenze politiche e sociali molto gravi per la sua persona e per la dinastia e decise di fare penitenza, chiedere udienza e perdono al Papa che soggiornava a Canossa nel castello della marchesa Matilde. Era l’inverno del 1077 e l’imperatore che aveva guidato una processione di penitenza, dovette subire l’umiliazione del papa che lo tenne per tre giorni e tre notti scalzo, vestito di un misero saio da monaco sotto la neve, di fronte al portale del castello che fu aperto per il perdono, grazie all’intercessione dell’abate di Cluny.

Facciamo un salto di 500 anni. Una cruenta guerra civile devastava la Francia ed un altro Enrico, questa volta di Navarra, aspirante al trono aveva avuto nel 1508 il sopravvento sugli altri pretendenti, ma trovava sul suo cammino la forte opposizione nel papa Sisto V, da lui insolentito con il tipico disprezzo francese Monsieur Sixte soidisant pape“.

Quale il motivo dell’opposizione papale? Enrico era un ugonotto, cioè protestante, e per potere ascendere al trono di Francia (come Enrico IV) era necessario che si convertisse al cattolicesimo. Il Borbone allora, dando prova di realpolitik, si decise all’atto di conversione ammettendo che Parigi valeva bene una messa, e spiegò alla corte che il ripudio della fede protestante in favore di quella apostolica romana era un sacrificio sopportabile rispetto alla consacrazione della conquista del trono della cattolica Francia.

Cosa ci insegnano questi precedenti? Che Di Maio, capo politico del M5S, dovrà dare una concreta seconda prova di realpolitik, dopo essere andato a Canossa per chiedere scusa al Presidente Mattarella contro cui aveva avventatamente minacciato l’impeachment, rivelatosi un “brutum fulmen”.

Come? Convincersi che mettere in pratica il programma del M5S val bene una messa. Chiuda l’aspro confronto con Macron e cerchi alleanze in Europa ben prima delle elezioni. Quanto al Venezuela prenda l’iniziativa di coinvolgere l’Unità di crisi e la Protezione Civile (come fu fatto per Haiti) inviando subito 10 tonnellate di aiuti alimentari e medicinali agli italiani affamati, colà residenti. Maduro, che respinge ogni aiuto da Trump considerato un mascheramento di interferenza militare, non potrà certo impedirgli questo soccorso umanitario.

Di Maio in politica interna dovrà anche fare un vero esame di coscienza volto a capire il perché dell’orientamento popolare più profondo che lo ha abbandonato. Dovrà scegliere per i dossier più delicati ed i posti di maggiore responsabilità le persone più capaci. Dovrà rivedere l’impianto dell’informazione e della comunicazione, ma soprattutto non dovrà retrocedere di un millimetro rispetto alle debordanti pretese dell’alleato e degli ambienti vicini ai soliti poteri, contrari al vero cambiamento (in temi come lo stravolgimento del decreto giustizia, il Tav, l’annacquamento del decreto sul reddito di cittadinanza), ed elevare una linea Maginot a difesa del principio solidaristico insito nella Costituzione rifiutando ogni cedimento sulla secessione economica del Nord.

Se non lo facesse, risulterebbe del tutto oscurato all’ombra della Lega e consegnerà il suo movimento alla marginalizzazione nella prova d’appello delle elezioni europee.

Andreotti amava ripetere che il potere logora chi non ce l’ha; in questo caso il logorio è più pericoloso perché viene dall’interno.

Torquato CARDILLI

 

 

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