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La settimana enigmistica, sì ! ma non troppo Il Kaos Politico in Italia .

Non è fabula di un poeta antico e non è l’arena del Colosseo, seppur  
Superior stabat lupus, longeque inferior agnus…” alcuna pietas

Torquato Cardilli

Pressappoco due mila anni fa, all’epoca di Augusto, viveva a Roma, dove era stato educato fin da bambino, un ex schiavo macedone, tale Gaio Giulio Fedro, che occupò un posto di un certo rilievo nel genere letterario favolistico, con i suoi scritti a carattere pedagogico pieni di saggezza e dalla morale comprensibile da tutti.

Una delle sue favole più celebri “il lupo e l’agnello” condanna chi, forte dei propri mezzi, ma privo di una ragione plausibile che non sia solo la smisurata sete di potere, accampa una qualunque scusa per opprimere e sopprimere con falsi pretesti ogni essere che abbia la sventura di incrociare la sua strada. Vale la pena di rinfrescare la memoria su questa favola “Superior stabat lupus, longeque inferior agnus…”

Il lupo e l’agnello si stavano abbeverando allo stesso torrente; il primo in cima alla sorgente e il secondo a valle. Il lupo, cercando un pretesto di litigio per poterlo sopraffare, accusò l’agnello di inquinargli l’acqua che stava bevendo. L’agnello rispose che la sua accusa era risibile visto che l’acqua scendeva dal monte, e che era lui (il lupo) a bere l’acqua pura perché stava più in alto. Il lupo allora accusò l’agnello di averlo pubblicamente diffamato sei mesi prima. L’agnello rispose che l’accusa era palesemente falsa perché all’epoca del supposto fatto egli non era ancora nato. Con gli occhi rossi di sangue e la bava per la rabbia, il lupo concluse che senz’altro ad offenderlo doveva essere stato suo padre, il montone, e lanciatosi sull’agnello lo sbranò.

Le cronache degli ultimi anni della nostra repubblica rigurgitano di episodi di violenza del lupo fiorentino che si ritiene più astuto di una volpe pugliese. Non contento di esercitare il potere, si è lasciato andare ad atti contrari alle regole di bon ton istituzionale, alla dovuta onestà nella competizione politica, al vero e proprio tradimento pur di zittire ed emarginare chiunque abbia osato contendergli il favore popolare e offuscarne il prestigio.

Prima ha preso a martellate sui denti il povero Bersani costringendolo alle dimissioni da segretario del partito per la figuraccia nell’affossamento della candidatura di Prodi al Quirinale, poi, nonostante che in televisione avesse affermato solennemente che non sarebbe arrivato a Palazzo Chigi se non dopo un’elezione, ha pugnalato alle spalle l’ingenuo Letta (autodefinitosi Jo Condor) ammansito con un saluto “stai sereno” tipo bacio di Giuda.

Non contento ha spezzato le gambe al sindaco di Roma Marino, obbligando i consiglieri a dimettersi di fronte al notaio per far decadere l’intera giunta.

Arrivato a Palazzo Chigi, sconfessando un’altra promessa politica quella di tenersi alla larga dalla destra del paese, ha sottoscritto con Berlusconi il patto del Nazareno e di lì a poco ha concordato con il suo ventriloquo, Verdini, allora senatore di Forza Italia, il testo di una riforma costituzionale che violentava in modo irreversibile lo spirito e la lettera della Carta fondamentale. Sembrava che volesse sfondare persino il cielo avendo ottenuto alle elezioni europee un impensabile 41% dei voti, percentuale che lo proiettava nel pantheon dei leader europei più affermati.

Poiché il successo è una parabola e non una linea ascendente infinita, superbia, narcisismo, disprezzo per gli altri gli hanno fatto imboccare repentinamente la traiettoria del declino. Si è intestardito sulla riforma costituzionale, sottoposta a referendum confermativo, presentandolo come la battaglia per la vita o per la morte e promettendo di scomparire dalla scena politica italiana in caso di sconfitta. Il popolo non si è fatto pregare né fregare e gli ha voltato le spalle in massa consegnandolo ad una sconfitta storica.

Essendosi auto inserito nelle liste elettorali, pur avendo perso la segreteria del partito e la premiership, è entrato dalla porta principale in Senato, consesso che avrebbe voluto abolire nella riforma costituzionale abortita.

Da eletto ha masticato amaro nella penitenza e nella frustrazione dell’irrilevanza. A farlo resuscitare ha pensato il capo della destra Salvini con il suo harakiri nell’estate 2019. Fiutata l’occasione propizia ha convinto l’esitante PD ad un’alleanza di Governo con il M5S, per entrare nella stanza dei bottoni.

Si sa che il lupo perde il pelo, ma non il vizio.

Di fatti il giorno dopo il giuramento del nuovo Governo in cui era riuscito a piazzare due ministre e un sottosegretario ha colpito ancora alla schiena la sua casa madre.

Insofferente del ruolo di comparsa ha tagliato i ponti con il PD per fondare un nuovo partito e poter giocare direttamente una nuova partita di potere, portandosi dietro buona parte dei parlamentari eletti sotto la bandiera del PD.

Per alcuni mesi, non sopportando il gradimento che la popolazione riversava su chi lo aveva sostituito nella tolda di comando relegandolo ad un ruolo di gregario si è esercitato in incursioni corsare lanciando accuse infondate e accampando pretesti di ogni tipo pur di sgozzare metaforicamente il premier Conte nelle sembianze dell’agnello della favola.

In un’evidente disconnessione tra ambizione personale e responsabilità verso il paese ha dato il via ad una spericolata operazione usando la esigua consistenza numerica del suo partitino al Senato come arma letale per far fuori proprio Conte.

Infischiandosene della più grave crisi sanitaria da un secolo a questa parte e dell’oggettiva difficoltà del paese, noncurante della necessità di non minarne la stabilità a cui guardano con apprensione i mercati e l’Unione Europea, ha fatto esplodere la bomba della crisi di governo, dismettendo le vesti di alleato per indossare quelle di leader dell’opposizione.

L’agnello pugliese è stato accusato di non aver saputo difendere al meglio gli interessi degli italiani, di non aver inserito nel recovery plan il ponte sullo stretto di Messina, il rafforzamento della scuola, della sanità, della giustizia, di voler tenere per sé a tutti i costi la delega ai servizi segreti.  

A crisi aperta ha pensato bene di fare una trasferta in Arabia Saudita, pagata da uno stato straniero, per la più umiliante e servile pseudo intervista all’uomo forte del paese. L’emiro che conosce alla perfezione l’inglese ma che ha dovuto attendere la tradizione in arabo per capire il senso dell’adulazione deve essere rimasto allibito per il provincialismo del furbo parolaio italiano ed ha avuto l’impressione di trovarsi di fronte un piccolo ex sindaco di una cittadina italiana.

Il nostro appena rientrato a casa è stato oggetto di un bombardamento di critiche ma ha risposto con un contrattacco: ha impappinato ai giornalisti un’improvvisata dichiarazione, ripetuta poi pappagallescamente dai suoi famuli, sul significato del suo viaggio fatto per tutelare gli interessi della nostra politica industriale.

Intanto la crisi ha continuato a dipanarsi nel rituale delle consultazioni. Ha sempre negato di essere interessato alle poltrone, ma ad ogni tornata ha esercitato una surenchère, veri e propri rilanci da pokerista incallito che alza la posta. Mirando a segare ogni possibilità per Conte di guidare un nuovo governo, per far posto a qualche suo protetto, inclusa la sua Musa ispiratrice Boschi, ha chiesto la testa del ministro dell’economia Gualtieri, del ministro dell’interno Lamorgese, del ministro della giustizia Bonafede, del ministro della salute Speranza e del sottosegretario ai servizi segreti Benassi. Certo l’insistenza con cui ha messo sul tavolo il controllo dei Servizi Segreti lascia lo spazio a qualche sospetto perché avanzato proprio da lui, stipendiato da uno stato straniero pur essendo senatore della Repubblica. Come è andata a finire si è visto.

foto copertina tratta da studiahumanitatis 

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