Rapporti Italo-Egiziani
LA TOPPA – PEGGIORE DEL BUCO – E’ UN TRADIMENTO
Per i genitori di Giulio Regeni e per tanti italiani che avevano nutrito fiducia nella parola e nelle azioni del Governo il giorno di ferragosto è stato più doloroso di una coltellata al cuore
Il New York Times ha pubblicato un articolo inchiesta che inchioda sulla croce delle proprie responsabilità sia Renzi che Gentiloni il cui Governo, arrampicandosi sugli specchi per cercare di nascondere responsabilità e le menzogne fornite al parlamento ed al popolo italiano, ha issato la bandiera bianca sul caso Regeni, rimandando al Cairo l’ambasciatore italiano, ritirato dall’aprile 2016.
Il titolo dell’articolo “Why was an Italian graduate student tortured and murdered in Egypt?” (Perché un dottorando italiano è stato torturato e assassinato in Egitto?) preannuncia motivazioni politiche del tipo delitto Matteotti. Ma ancor prima di svelare le ragioni di questo barbaro assassinio contiene la conferma di due verità di assoluto rilievo: che il povero Giulio Regeni, ricercatore per conto dell’Università di Cambridge sui temi del lavoro degli ambulanti, fu rapito e torturato a morte dai servizi segreti militari egiziani e che i mandanti ed esecutori del delitto erano noti da un pezzo ai più alti vertici dello Stato.
L’articolo contiene oltre all’esecrazione del regime egiziano anche un pesante atto di accusa verso il nostro Governo che era stato informato per ordine di Obama di quanto accertato dai servizi di intelligence americani circa le pesanti e dirette responsabilità nell’operazione degli ufficiali della sicurezza egiziana.
Dopo questo siluro da parte del più autorevole organo di stampa americano, Palazzo Chigi ha emesso una smentita farlocca ed inconsistente. In essa si sottolinea che nei contatti tra Amministrazione USA e Governo italiano non furono mai trasmessi elementi di fatto, né tantomeno prove esplosive. Come se la polizia spagnola potesse giustificarsi ora, dopo l’orrendo attentato di Barcellona, dicendo che l’avvertimento datole dall’intelligence americana di essere nel mirino del terrorismo, non era stato preso in considerazione perché privo delle specifiche di luogo, data, ora e minuto dell’attacco.
A mente fredda non si può che convenire che delle due ipotesi formulabili ne possa stare in piedi una sola: o l’estensore della nota di Palazzo Chigi ricorre ad un cavillo ipocrita, oppure pecca di imbecillità. Anziché smentire che gli americani abbiano mai riferito agli italiani quello che sapevano sull’assassinio di Regeni (dunque il fatto in sé è confermato), si attarda a specificare che non erano state fornite prove documentali sulla responsabilità dei servizi di sicurezza egiziani.
E’ davvero singolare che a livello di presidenza del Consiglio si possa accreditare l’ipotesi che i servizi segreti di un paese possano trasmettere a quelli di un altro documenti e prove di un misfatto, bruciando le proprie fonti informative di spionaggio. E’ notorio che tra Servizi di intelligence (alleati o nemici, non fa differenza) basta la parola e che è del tutto inimmaginabile che nei rapporti a livello di capo dell’esecutivo Obama potesse mettere per iscritto a Renzi, magari in carta bollata con timbro notarile, i nomi dei colpevoli. Dunque il governo italiano, dopo un anno e mezzo di palesi prese in giro, patite ad opera dell’establishment politico-diplomatico-giudiziario egiziano, e riversate sull’opinione pubblica italiana cui ha nascosto la verità a lui nota, comincia a spaccare il capello in quattro separando le convinzioni dagli indizi, le informative dalle prove.
Secondo il New York Times il segretario di Stato americano Kerry, ebbe a Washington un burrascoso confronto in argomento con il suo omologo egiziano Shoukry dalle cui risposte evasive nessuno della delegazione americana riuscì ad afferrare se dissimulasse da vero professionista della menzogna o se invece ignorasse l’accaduto come aveva fatto Alfano quando raccontò la sua versione dei fatti in Parlamento sul rapimento della Shalabayeva. L’inchiesta del NYT non rivela chi avesse dato l’ordine di rapire e torturare a morte Regeni, ma i servizi di intelligence americani sapevano per certo – e lo fecero sapere anche ai loro colleghi italiani – che la leadership egiziana fosse pienamente a conoscenza delle circostanze dell’assassinio e della condotta degli ufficiali responsabili. Ora si sa che un ufficiale di polizia egiziano, esule in America, Omar Afifi, sin dal 13 aprile 2016 aveva accusato tre personaggi: Abbas Kamel, capo di gabinetto del dittatore al Sisi, il generale Mohammed Faraj Shehat direttore dei Servizi di intelligence e il ministro dell’interno Ghaffar, mentre sostenne che al Sisi ne fosse al corrente sin dall’inizio. Chi volesse ripercorrere la cronologia di quelle drammatiche giornate potrebbe trarre il sicuro convincimento della volontà egiziana di ostacolare l’accertamento della verità per occultare esecutori e mandanti dell’assassinio coperti dal regime, inventando scuse puerili offensive per il Governo e per la Magistratura italiana, nonché drammaticamente penose per la famiglia della vittima.
Il 25 gennaio 2016 Regeni scomparve dalla circolazione. Era atteso in un appuntamento alla fermata della metropolitana da un professore universitario che visto il ritardo dell’allievo diede l’allarme preoccupato di un suo possibile coinvolgimento nelle manifestazioni anti regime nella ricorrenza dell’anniversario della defenestrazione del presidente Morsi. L’Ambasciata d’Italia al Cairo, prontamente avvertita, contattò gli amici del ricercatore scomparso, il Ministero degli Esteri, quello dell’Interno, gli ospedali, il comando della polizia ed allertò il nostro addetto militare e i nostri agenti dei servizi colà operanti nel tentativo di ricostruire gli spostamenti di Regeni.
Le autorità egiziane si chiusero a riccio. Non diedero alcuna informazione, esclusero che la polizia potesse essere coinvolta ed anzi allusero ad un tipo di vita equivoco del Regeni che avrebbe frequentato amici poco raccomandabili, mentre celarono accuratamente che Regeni fosse stato venduto come spia alle autorità di sicurezza dal capo del sindacato degli ambulanti chiaramente al soldo del regime. Nei giorni seguenti montò a livello politico e mediatico internazionale una certa pressione e gli egiziani con il fiato sul collo di un’opinione pubblica che già indicava i servizi di sicurezza come responsabili della sparizione di Regeni, così come di altre centinaia di giovani desaparecido, decisero di sbarazzarsi della salma divenuta un ingombrante prova del reato.
Il corpo, seminudo, venne ritrovato il 3 febbraio 2016 sul ciglio dell’autostrada da Cairo ad Alessandria. La prima versione fornita dalle autorità egiziane fu che Regeni fosse stato vittima di un incidente stradale. Dopo vari ostacoli e trattative l’ambasciatore italiano riuscì a vedere i resti di Regeni alla morgue e constatò gli evidenti segni delle sevizie: capelli intrisi di sangue rappreso, l’orecchio destro tagliato, le ossa dei piedi e dei polsi stritolate, un dente mancante, varie bruciature sulla pelle, tagli alla schiena, costole rotte. I segni del supplizio, durato vari giorni, inflitto al quel corpo martoriato erano così estesi e profondi che persino la madre stentò a riconoscerne le fattezze del figlio. Era evidente a tutti, senza dover attendere la farsa procedurale del responso di medicina legale, che si era trattato di una tortura a morte, ma la seconda versione ufficiale egiziana fu che Regeni era stato vittima di un delitto passionale, insinuando che avesse avuto inclinazioni omosessuali.
Il 12 febbraio 2016 il ministro degli esteri Gentiloni confermava alle Camere in modo solenne l’impegno del Governo sull’orribile vicenda dell’uccisine di Regeni. Poiché vari testimoni avevano raccontato di aver visto Regeni poco prima che imboccasse l’entrata nella stazione della metropolitana, l’Italia chiese le registrazioni delle videocamere del metro del Cairo ottenendo un secco rifiuto in nome della protezione della privacy (sic!). Un paese dominato da un aguzzino, che aveva spodestato il presidente Morsi vincitore di regolari elezioni, che aveva fatto scomparire migliaia di oppositori, che aveva imprigionato giornalisti e professori e che aveva torturato, nelle famigerate carceri egiziane, numerosi arrestati invocava la protezione della privacy! Ma ormai era evidente che la versione fornita dalle autorità non reggeva più alla evidenza dei fatti ed allora ecco l’ultima trovata: Regeni era stato vittima di una banda di rapinatori che di fronte alla reazione lo avrebbero ucciso.
Già il 13 febbraio 2016 il New York Times scriveva che Regeni era stato verosimilmente preso da agenti della sicurezza egiziani convinti che fosse una spia in contatto con i fratelli musulmani. Ci furono vari incontri tra i magistrati egiziani e quelli della procura di Roma conclusisi tutti sistematicamente con un nulla di fatto per la costante pratica di ostruzionismo e depistaggio delle autorità egiziane. A quel punto, siamo a metà febbraio 2016 inoltrato, Renzi (che come capo del Governo sapeva già tutto) garantì all’assemblea del PD di volere la verità sull’assassinio di Regeni e confermò che, come promesso ai genitori del ricercatore ucciso, l’Italia non avrebbe fatto un passo indietro nelle sue richieste di individuazione dei colpevoli.
Il 24 febbraio 2016 Gentiloni gli fece da sponda in Parlamento per definire le versioni fornite dalle autorità egiziane come scuse improbabili e verità di comodo di fronte alle quali l’Italia non avrebbe desistito dalla ricerca dei responsabili. Anche il redivivo Casini, presidente della Commissione Esteri del Senato, per riacquisire una visibilità politica ormai annebbiata, intese cavalcare la tigre dell’indignazione anti egiziana invocando l’immediato ritiro del nostro ambasciatore.
Il 24 marzo 2016 l’Egitto venne fuori con un’altra versione ancora più fantasiosa ed incredibile sulla sorte di Regeni. La polizia riferì di aver sgominato in un conflitto a fuoco una banda di 5 criminali, abituali rapinatori e spacciatori, nel cui covo furono trovati i documenti di Regeni. La finzione ebbe il suo culmine con un filmato della polizia in cui si vedevano in bella mostra su un tavolino da caffè ben allineati il passaporto, la tessera universitaria, la carta di credito ed altri effetti personali con l’aggiunta di un panetto di hashish come per fare intendere che la vittima fosse stata coinvolta in una transazione di spaccio di droga.
Di fronte a questa ennesima messa in scena Gentiloni ripetè in Senato il 5 aprile 2016 che l’Italia si sarebbe fermata solo davanti alla verità. Due giorni dopo avvenne a Roma l’ultima sceneggiata della stagione tra i magistrati egiziani e il Procuratore di Roma Pignatone che chiuse i colloqui infastidito dai continui rinvii della collaborazione e il Governo non potè fare altro che richiamare il proprio ambasciatore. Intanto grazie all’intraprendenza di una giornalista egiziana Basma Mustafa, che osò intervistare alcuni familiari di uno dei banditi ammazzati, si venne a sapere che tutti gli oggetti di Regeni erano stati portati nella abitazione dopo il raid della polizia per inscenare un finto ritrovamento. Anche in questo caso la cosa ebbe strascichi penosi: tanto la giornalista quanto i familiari del bandito furono arrestati.
Oggi, dopo un anno e mezzo, il Governo, che ha taciuto di essere stato informato da subito della trama e delle torture inflitte al nostro ricercatore, ritenendo che siano preminenti gli interessi economici dell’ENI e quelli politici di sostenere al Sisi, compare di cordata di Haftar, rimanda al Cairo l’ambasciatore affiancandogli un magistrato incaricato di proseguire le indagini. Puro fumo negli occhi! Secondo la realpolitik di Alfano l’assenza del nostro ambasciatore da strumento di pressione si è trasformato nel suo opposto, cioè in una pistola scarica, tenuto conto del fatto che nel frattempo il quadro dei rapporti di forza e degli equilibri in Medio Oriente è totalmente cambiato. Qui non si discute della valutazione politica sull’opportunità della presenza in sede dell’ambasciatore, ma della colossale presa in giro degli italiani che avrà la sua rappresentazione plastica il 4 settembre quando il Governo dovrà riferire in un’audizione farsa in parlamento. Ci sarà qualcuno che oserà sollevare la parola tradimento?
Torquato Cardilli