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Le “Caste” & il “Popolo”

Il potere della CASTA INDUSTRIALE e MILITARE

e il sudore del POPOLO

di  TORQUATO  CARDILLI 

Il generale Eisenhower, che aveva sperimentato di persona il rischio del disastro nell’attacco alla fortezza nazista in Normandia, il pericolo di morire nella battaglia delle Ardenne, le sofferenze dei suoi soldati, i lutti di tanti civili estranei al campo di battaglia, poco dopo l’elezione a Presidente degli Stati Uniti pronunciò, nel 1953, uno storico discorso alla nazione, di cui vale la pena riportare un passo significativo: «Ogni arma da fuoco prodotta, ogni nave da guerra varata, ogni missile lanciato significa, in ultima analisi, un furto ai danni di coloro che sono affamati e non sono nutriti, di coloro che hanno freddo e non sono vestiti. Questo mondo in armi non sta solo spendendo denaro. Sta spendendo il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi giovani. […] Questo non è affatto un modo di vivere, in alcun senso legittimo. Dietro le nubi di guerra c’è l’umanità appesa ad una croce di ferro.»

Prima di lasciare la Casa Bianca, al termine del secondo mandato, nel gennaio del 1961, conscio del pericolo rappresentato in ogni tempo e in ogni latitudine dal complesso militare-industriale, e preoccupato che gli interessi economici e commerciali dell’industria bellica potessero avere il sopravvento sulla pace e sulla democrazia, concluse il suo saluto al paese affermando che era necessario «stare in guardia contro l’acquisizione di un’ingiustificata influenza, palese o occulta, del complesso militare-industriale… . Solo una popolazione in allerta e informata può costringere ad una corretta interazione la macchina industriale e militare con il sistema democratico e con gli obiettivi di pace, in maniera tale che sicurezza e libertà possano prosperare insieme.»

È doloroso, ma allo stesso doveroso, constatare come questa lungimirante e saggia lezione a partire dalla caduta del muro di Berlino e soprattutto negli ultimi 20 anni sia stata completamente dimenticata dall’Amministrazione americana (Bush padre, Clinton, Bush figlio, Obama e ora Trump) e purtroppo anche dall’Italia che (con Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni) si è sempre inchinata verso Washington come un obbediente scudiero o un maggiordomo ossequiente anziché dialogare come un alleato che chiede una giusta compensazione per i sacrifici che gli vengono costantemente richiesti. La rivista francese Basta! ha rivelato che, secondo un rapporto del Congresso USA, non certo sconosciuto al nostro Governo, dall’attentato alle torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001 al 2017, gli Stati Uniti (oltre al bilancio corrente del Pentagono di 550 miliardi di dollari) hanno dilapidato nel Vicino e Medio Oriente e in Africa una somma astronomica di almeno 1.600 miliardi di dollari (815 miliardi per l’invasione dell’Iraq, 686 per quella dell’Afghanistan e 108 miliardi per la prevenzione del terrorismo). Con quali risultati? Il beneficio sicuro esclusivamente per l’industria degli strumenti di guerra delle armi e del munizionamento di ogni tipo, al prezzo di un costo enorme in vite umane: almeno 350.000 morti oltre ai militari americani ed alleati tra cui 4.500 soldati NATO (53 italiani, più 650 feriti), 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri, senza contare i morti per contaminazione qualche anno dopo.

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A parte l’impiccagione di Saddam Hussein e l’uccisione di Bin Laden, in 16 anni di guerra durata quanto una generazione, nata allevata e cresciuta sotto le bombe, nessun pratico risultato è stato conseguito dalla composita armata occidentale sul piano della diffusione della democrazia, dell’eradicazione del terrorismo, della pacificazione nazionale e della lotta alla povertà. Al contrario quei paesi sono stati fatti sprofondare in una guerra fratricida, innescando la miccia della bomba dell’esportazione del terrorismo. Lockheed Martin, una tra le più importanti multinazionali delle armi nel mondo, con un fatturato di 45 miliardi di dollari in questi anni ha venduto di tutto: dai veicoli blindati, agli aerei, dai missili ai droni non solo agli Stati Uniti ma anche all’Iraq e all’Afghanistan. Boeing, Raytheon, Northrop Grumman, e General Dynamics completano il quintetto di società, tutte americane, principali beneficiarie di lucrosi contratti e responsabili di queste carneficine. Sono somme stratosferiche difficilmente leggibili se fossero scritte in cifre, che dimostrano il gigantismo del complesso militare-industriale di cui parlava Eisenhower, appena inferiori a tutto il debito italiano ed equivalenti all’intero PIL dell’India, che conta 1,2 miliardi di abitanti. Eppure illustri economisti ed accademici americani (premio Nobel Stiglitz e Bilmes) ritengono queste stime, nonostante la loro magnitudine, non veritiere per difetto. Sostengono non solo che la guerra non può essere contabilizzata solo sul piano monetario senza tenere conto dei morti, dei mutilati per sempre, degli orfani, delle vedove, dei bambini saltati per aria in campi minati, ma che è verosimile un costo globale più vicino ai 3.000 miliardi di dollari. Neta Crawford, professore all’Università di Boston, ritiene che il costo effettivo sfiori addirittura i 4.400 miliardi di dollari, includendovi 1.000 miliardi come costo della copertura sanitaria per i mutilati e i reduci e oltre 300 miliardi di dollari per gli interessi che gli Stati Uniti hanno dovuto rimborsare ai creditori. E qui si arriva al paradosso dato che il maggior creditore in titoli di stato degli Stati Uniti è la Cina.

Dopo questa panoramica sull’impatto delle scelte politiche americane veniamo all’Italia. Nel nostro Parlamento, dove campeggiano affaristi di ogni risma e dove i dibattiti di politica estera e di presenza militare in teatri operativi oltre confine sono sempre avari, è stato affermato dai Governi succedutisi in questi anni, e che hanno visto una perfetta coincidenza di politiche tra FI e PD, che il nostro intervento era rivolto a garantire la sicurezza dell’Italia, la difesa della pace, la lotta contro il terrorismo di al-Qaida in Iraq e il consolidamento della democrazia contro il sistema politico retrogrado dei Talebani in Afghanistan. In Iraq abbiamo sprecato in 14 anni 3 miliardi di euro, mentre in Afghanistan in 16 anni ne abbiamo bruciati più del doppio. Vi pare che l’Iraq e l’Afghanistan siano entrati in un’epoca di stabilità pacifica? O non è diventato routinario ascoltare dai mezzi di informazione di sistematici attentati terroristici con auto bomba che mietono centinaia di morti nelle strade, nelle piazze, nelle moschee delle capitali Baghdad e Kabul e persino nelle cosiddette zone verdi super controllate?  Il terrorismo si è diffuso in tutta la zona del Medio Oriente fino al Nord Africa (grazie anche alla scellerata guerra contro Gheddafi ed al dramma della Siria) ed ha tracimato in Europa senza che nessun Governo abbia messo in piedi una strategia intelligente che andasse oltre le bombe. Secondo il rapporto di MIL€X la nostra partecipazione alla guerra, in violazione dei principi fondamentali della nostra costituzione (art. 11), e di cui dovrebbero essere chiamati a rispondere di fronte alla Corte Costituzionale il Presidente della Repubblica e il Primo Ministro, è stata la più lunga e costosa campagna militare della storia italiana. La guerra in Afghanistan in 16 anni è costata al contribuente italiano che si spacca la schiena ogni giorno, ben 7,5 miliardi (costi vivi di personale, mezzi e armamento, spese accessorie di trasporto, di allestimento di infrastrutture, di sostegno alle forze armate afghane e attività umanitarie), a fronte di soli 260 milioni investiti in iniziative di cooperazione civile. A parte una lieve diminuzione dell’indice di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile, limitato alle maggiori aree urbane, fenomeni il cui merito è da attribuire all’attività delle organizzazioni umanitarie internazionali e non certo all’invasione dell’alleanza militare occidentale, l’Afghanistan ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile, tra le più basse aspettative di vita del pianeta (appena prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei Paesi più poveri della Terra, mentre la coltivazione dell’oppio e il contrabbando di droghe, sotto il controllo di una classe politica corrotta, sono letteralmente esplosi. Politicamente, il regime afgano, guidato da ex signori della guerra infeudati agli Stati Uniti è tra i più inefficienti e corrotti al mondo ed è lontano anni luce dal rispetto dei diritti dell’uomo e dalle procedure dello Stato di diritto democratico, mentre ogni forma di repressione e coercizione come la censura, l’eliminazione fisica di chi si oppone, la tortura, la prigione senza uno straccio di processo sono la norma.

Insomma sarebbe obbligatorio che il Governo spieghi al popolo italiano quali siano stati i benefici in termini politici, economici, sociali e di sicurezza che l’Italia ha tratto da questa belligeranza al fianco degli Stati Uniti. Ma forse la spiegazione del perché da Berlusconi a Renzi, tutto l’arco governativo degli ultimi venti anni abbia trovato giustificabile questo interventismo risiede, anche da noi, nella forza dell’apparato militare industriale che non sta a guardare tanto per il sottile le reali necessità del popolo dal lavoro alla lotta contro le diseguaglianze, dalla protezione dell’ambiente al dissesto idrogeologico, dalla messa in sicurezza delle scuole e degli ospedali alla riduzione del gas CO2 ecc. Il nostro paese è all’ XI° posto nella graduatoria mondiale per spese di armamenti davanti a Stati definiti tranquillamente militaristi come la Turchia (16mo), Israele (17mo) e Iran (24mo). Noi dedichiamo l’1,4% del nostro PIL alle spese per l’apparato militare ben più della Germania, della Spagna e dell’Olanda che vi destinano solo l’1,2%. Per il 2018 il bilancio della difesa prevede una spesa di 25 miliardi di euro, cioè 2 miliardi al mese, 68 milioni al giorno pari a 2,8 milioni all’ora per coprire la nostra presenza in armi in 21 paesi con una forza di 8.000 soldati, 1.400 mezzi terrestri, 60 velivoli, 20 unità navali.

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Negli ultimi tre anni i governi Renzi e Gentiloni (che hanno avuto lo stesso ministro della difesa, facilmente adulabile e influenzabile) hanno incrementato tali spese del 9% (nel solo 2017 + 4%) ben al di là del tasso di crescita dell’economia, del livello di inflazione, del potere d’acquisto ecc., come se l’Italia anziché tirare la cinghia vivesse in una bonanza economica. Invece nello stesso periodo sono stati tagliati i fondi alla sanità e alla scuola, non si è provveduto in tempi accettabili ad assicurare gli alloggi ai terremotati, non sono state migliorate le condizioni di vita degli esodati e le condizioni di sicurezza e di trasporto di tanti pendolari, non si è provveduto alla sistemazione del territorio per prevenire disastri idrogeologici e delle infrastrutture, pur avendo applicato aumenti a raffica in tutte le utenze e nei pedaggi nelle autostrade, senza scalfire il castello delle spese superflue.

Chi volesse andare a verificare la parte militare del bilancio dello Stato dovrebbe essere avvertito che il grosso delle spese della difesa è apparentemente nascosto perché inserito nel rendiconto del ministero dello sviluppo economico. È da lì che si procede all’acquisto di armamenti che non corrispondono alle vere esigenze operative ma solo in omaggio agli interessi delle lobby delle armi italiane e straniere. Si tratta del 30% del budget per circa 6 miliardi di cui la metà per le munizioni, altri 3 miliardi per le spese generali di esercizio, a cui si aggiungono 13 miliardi (quasi il 55%) per il personale. Questo ultimo dato è la rappresentazione plastica della disorganizzazione e dello sperpero delle nostre forze armate. A fronte di 87.000 ufficiali e sottufficiali, abbiamo 83.000 graduati di truppa e soldati. Questo esercito di molti generali e pochi soldati, un macrocefalo su gambe sottilissime, potrà contare tra breve su 7 nuove fregate, sulla nuova portaerei (intitolata al grande ammiraglio Thaon di Revel, presidente del Senato dopo la caduta di Mussolini) dal costo di 5,4 miliardi e 90 supercaccia F35 dal costo di 14 miliardi cioè quasi 150 milioni l’uno che rappresentano oltre al più grande sperpero anche la più grossa presa in giro: ci avevano fatto credere che il nostro stabilimento di montaggio delle ali avrebbe impiegato 6.400 unità lavorative dirette e indirette, mentre ne risultano occupate solo 1.300.

C’è in Italia un politico di Governo che abbia mai riflettuto su quelle parole di Eisenhower, che abbia mai considerato che certi sperperi in spese militari sono il frutto del sudore di gente semplice, di operai, agricoltori, piccoli commercianti, impiegati, e sono la negazione delle speranze di tanti giovani senza lavoro? E con quale faccia chiedono ora il voto proprio a quelle classi sfruttate e neglette?