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“Linee Guida” per gestire l’immigrazione

Rammentando l’ ITALIA ANTICA E DEL SOMMO POETA  

Dante: “…Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade,
come del vostro il cibo che s’appone…” 

Cittadinanza Romana significava la totale accettazione della legge, delle regole, delle usanze, della lingua, tutti requisiti indispensabili per l’integrazione politica

La ripresa dei contagi, l’esplosione di una contestazione ingiustificata delle misure governative di contenimento del Covid 19, le dementi discussioni, in nome di una presunta compressione della libertà, per l’uso delle mascherine o per le altre direttive sul distanziamento sociale, hanno relegato in secondo piano i temi dell’immigrazione, dell’integrazione degli stranieri, della libera circolazione delle persone, della modifica dell’accordo di Dublino, della ripartizione degli immigrati fra gli Stati europei.

La pandemia prima o poi passerà, grazie ai progressi della scienza e ai comportamenti virtuosi, mentre in un paese impoverito come il nostro la lotta a parole all’immigrazione sarà sempre più brandita come arma politica per indebolire l’azione governativa, accrescere un senso di paura nella popolazione e pregiudicare il prestigio italiano nel consesso internazionale.

L’immigrazione è un tema antico, connaturato con gli esseri viventi che si spostano di continuo alla ricerca di migliori condizioni di vita e già due mila anni fa esso era a Roma argomento di politica militare, economica e sociale. 
La nostra storia antica è piena di esempi e di decisioni sull’immigrazione che hanno avuto effetto nei secoli; per questo sarebbe il caso di riflettere ed imparare dal passato, adattando strategia e strumenti ai tempi attuali. 
Forse è opportuno un breve ripasso di storia.

Sin dai tempi della repubblica, Roma capì l’importanza dell’inglobamento e della integrazione, considerata linfa vitale per rafforzare la propria civiltà, per garantirsene la sopravvivenza ed evitarne la scomparsa, come avvenuto a quelle che si erano chiuse in se stesse (fenici, egizi, assiri, parti, greci,  ecc.).  
Prima assorbì le cento etnie italiche e poi gradualmente, man mano che si estendeva il suo dominio politico e militare, le popolazioni che si affacciavano sul Mediterraneo, dal deserto africano fino alle isole britanniche, dalla Spagna alla Macedonia, dalla Grecia all’Europa balcanica e centro-orientale.

Gli abitanti dell’Impero erano suddivisi in due grandi categorie: i cittadini romani, che godevano di tutti i diritti e privilegi, a cominciare da quello di accedere alle cariche pubbliche, gli altri, quasi l’80% della popolazione non di origine romana, erano sudditi soggetti al severo dominio della legge. Il conquistatore, in qualsiasi parte dell’impero si trovasse, si considerava come un padrone a casa sua, mentre lo straniero doveva adattarsi ed ubbidire in tutto alla legge romana senza eccezioni, anche se in contrasto con le proprie usanze e tradizioni.

Roma non nutriva alcun pregiudizio etnico o razziale o religioso, ma considerava “La Romanità” come espressione di un patrimonio civico e culturale, assimilabile ed inclusivo. Nerone, resosi conto che l’impero con una scarsa popolazione romana aveva sempre più bisogno di molta mano d’opera per mantenere il suo livello di benessere, lanciò una campagna per attirare i barbari, dietro pagamento di un tributo, ad insediarsi nell’impero, visto come area di civiltà e di prosperità. 
Questi immigrati, miserabili e incolti, incominciarono a svolgere, presso le famiglie patrizie romane, una serie di mansioni umili (badanti, portatori d’acqua, facchini, servi, manovali, garzoni, contadini, maniscalchi, messaggeri, lettighieri).

L’IMPERO CON L’ESPANSIONE DI TRAIANO 

L’accoglienza dello straniero con il passare del tempo era divenuta una questione di merito e non di diritto e data la necessità del rafforzamento delle forze militari con legioni sparse ovunque, vennero istituiti percorsi facilitati per l’acquisizione della cittadinanza attraverso l’arruolamento volontario nei corpi militari ausiliari per 25 anni previo giuramento di fedeltà. In seguito anche gli alti incarichi e i gradi militari furono aperti agli stranieri che arrivarono a dare la scalata al potere imperiale. Caracalla, figlio di Settimio Severo che era di origini puniche e berbere, all’inizio del III secolo d.C. ritenne che dopo duecento anni di dominio romano su tutte le terre e i popoli conosciuti questa distinzione tra cittadini e sudditi fosse priva di senso ed accordò il diritto di cittadinanza a tutti gli autoctoni, residenti nell’impero, eccezion fatta per gli schiavi.
La cittadinanza significava la totale accettazione della legge, delle regole, delle usanze, della lingua, la cui conoscenza era il requisito indispensabile per l’integrazione politica. Anche se le classi colte e il patriziato romano facevano sfoggio di conoscenza del greco, utilizzato non solo per mostrare la propria erudizione, ma anche in atti ufficiali, Roma non consentiva che gli stranieri divenuti cittadini si rivolgessero ad altri cittadini in una lingua diversa dal latino e i nati non romani che aspiravano alla piena integrazione nell’impero, velocemente ne impararono lingua, usanze e leggi. Sicché divenne normale incontrare cittadini romani alti e biondi, oppure mori, con chiare origini barbariche o africane, che occupavano posizioni di rilievo nell’esercito e nell’amministrazione pubblica.

Il vandalo Stilicone, classico esempio di questo processo, percorse tutti i gradi della carriera militare fino ad essere nominato capo supremo dell’esercito romano e poi console dall’imperatore Teodosio (l’ultimo imperatore dell’impero unito) di cui sposò la nipote per diventare poi suocero del nuovo imperatore Onorio, fu definito dal poeta Claudiano (di Alessandria d’Egitto) come l’ultimo custode della romanità: alla sua morte, infatti, Roma fu saccheggiata da Alarico.

I motivi di crisi contro cui si confronta l’Italia oggi non sono diversi da quelli affrontati dall’Impero romano: forte decrescita demografica, abbandono dell’agricoltura in favore dei commerci, decadenza dello spirito militare e una spinta possente dei popoli oltre i confini, costretti a sopravvivere con risorse insufficienti, minacciati da fame, carestie e guerre, che cercavano terre più fertili attratte da un mondo considerato prospero.

Roma varò una militarizzazione delle frontiere che poggiava su due strumenti: l’”hospitalitas” selettiva per filtrare i profughi e gli immigrati da terre straniere, allo scopo di integrarli gradualmente nella romanità, ed adoperarli a basso costo per lo sviluppo economico, oppure la “federatio” per concedere un’autonomia che garantisse militarmente i confini dalle invasioni di altri barbari. 
Questa politica rafforzò l’impero fino a quando la corruzione e l’inefficienza burocratica, prepararono lo scivolamento verso il disastro. “Poiché molti appartenenti ai popoli stranieri sono venuti nel nostro Impero inseguendo la felicità romana e ad essi bisogna assegnare le terre da bonificare, nessuno riceva più in assegnazione questi terreni senza precise istruzioni, e poiché alcuni ne hanno occupato più di quelli loro spettanti o se ne sono fatti assegnare più del giusto per la complicità dei funzionari o con documenti falsi, si mandi un ispettore per revocare le assegnazioni illegali”. 
Questo testo del 399 d. C., tratto da un editto dell’imperatore Onorio, sembrerebbe una dichiarazione attualissima che un politico di oggi potrebbe lanciare per la corruzione e l’inefficienza delle strutture amministrative.

Il collasso delle strutture preposte al controllo dell’immigrazione, si verificò a Roma dopo l’ingresso dei Goti, incalzati dagli Unni, perché l’operazione umanitaria di accoglienza per avviare gli immigrati al lavoro, venne gestita nel modo più corrotto e scorretto possibile da generali e funzionari che intravidero la possibilità di intascare grossi profitti, costringendo i Goti a pagare le razioni di grano che avrebbero dovuto essere loro distribuite gratuitamente, già finanziate dal Senato. Risultato fu la rivolta che si estese anche ad altre etnie (Franchi, Sassoni, Alemanni), e costrinse l’impero ad abbandonare molti territori che non era più in grado di controllare.

Ancora una volta il pensiero corre alle terribili inefficienze del nostro sistema, che hanno permesso a losche cooperative o a privati senza scrupoli, di lucrare spaventosamente ed intascare, con la collusione delle strutture pubbliche, suscitando la rabbia dei cittadini poveri comuni, grossissime somme ed allo stesso tempo di innescare mini rivolte in baraccopoli luride in varie località. Allora come oggi, gestire un sistema di accoglienza, è stato per molti, grazie alla connivenza di apparati dello Stato (dal Ministero dell’Interno alla Regione o al Comune), un modo rapido per arricchirsi alle spalle di tutti. Non è un caso che in un’intercettazione giudiziaria sia stato captato l’avanzo di galera Buzzi, sodale del noto malavitoso Carminati, affermare che l’immigrazione era diventato un business più redditizio, e senza rischi, del commercio di droga.

Imparando dagli errori del passato, l’Italia dovrebbe fermare a monte questo continuo afflusso dall’Africa di profughi o immigranti economici, predisporre corridoi selettivi, pretendere da tutti, presunti rifugiati politici e non, il lavoro in cambio dell’accoglienza e l’assoluto rispetto della legge,  pena il carcere severo e l’espulsione.  
Come?   Dichiarando unilateralmente le proprie acque territoriali fino a 200 miglia marine sulla cui linea far stazionare un blocco navale effettivo contro chiunque tenti di violare il divieto di ingresso, pretendere che ogni nave di Ong diretta intenzionalmente a prelevare i fuggiaschi dall’Africa sia obbligata a fare rotta verso un porto della propria bandiera, condizionare la revoca delle restrizioni imposte dal trattato di Dublino al mantenimento della cooperazione con l’Europa. 

Al contrario è semplicemente puerile e demagogico ipotizzare l’idea di una espulsione di massa degli immigrati clandestini già presenti. Vanno sottratti al vagabondaggio ozioso da sfaccendati protervi o peggio dalla facile mano d’opera per i caporali o per la criminalità dedita alla prostituzione ed allo spaccio e impiegati subito in lavori sociali di pubblica utilità con notevole risparmio per l’erario.

TORQUATO  CARDILLI 

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