“L’INFINITO” di Giacomo Leopardi …..
la ritmica metrica dei versi e le assonanze musicali
L’INFINITO LEOPARDIANO
______________Riflessioni e Considerazioni a cura di
ALESSANDRO LONGO e di MARINELLA ROCCA LONGO*
PREMESSA
Oltre due mesi fa, precisamente il 20 marzo, sulla Consul-Press sono state pubblicate alcune
“libere riflessioni e modeste e rispettose considerazioni su L’Infinito di Giacomo Leopardi“
a firma Alessandro Longo riguardante un suo intervento dal titolo
Da “L’Infinito” di Giacomo Leopardi ……. a “L’Universo Infinito”
AD INIZIO MAGGIO il tema de “L’INFINITO LEOPARDIANO” è stato nuovamente esaminato o reinterpretato da una diversa e particolare angolazione elaborata a firma Marinella Rocca che qui di seguito pubblichiamo con le relative note esplicative della stessa autrice ……. scusandoci del ritardo ed augurando buona lettura agli Addetti ai Lavori o Appassionati al Tema.
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“Ricollegandomi all’articolo di mio marito Alessandro su “L’Infinito”, mi sono cimentata anch’io, con l’armamentario del linguista, per rilevare i meccanismi legati alle variazioni ritmiche dei metri leopardiani dove il ritmo classico della metrica del verso si intreccia con la diversa ritmicità del significato delle parole e della loro sapiente e studiata organizzazione. Ho cercato in questo breve studio di valutare l’effetto di piacere che queste variazioni producono, come in un brano di musica jazz, e di dimostrare, benché non ce ne sia bisogno, l’attenzione e il rigore con cui il Poeta costruiva le sue liriche, nascondendo con grande abilità questa sua ferrea disciplina creativa dietro una parvenza di naturalezza e spontaneità.
Devo l’ispirazione per questo pezzo al compianto Chris Wagstaff, caro amico, fine studioso di italianistica, docente di cinema italiano all’Università di Reading e … magnifico suonatore di tromba.” (*1)
_______________MARINELLA ROCCA LONGO
“L’INFINITO RITMICO”
Al di là dei contenuti poetici, l’analisi dei quali costituisce un mare in cui il critico può facilmente naufragare, cosa rende l’Infinito di Leopardi la poesia più letta, più studiata e più nota in Italia e fuori d’Italia?
Dell’Infinito esistono traduzioni in tutte le lingue, dal greco antico al moderno vietnamita, dal giapponese all’amarico e al gaelico e, insieme alla “Divina Commedia”, è una delle poche composizioni poetiche alle quali si può fare riferimento certi che qualunque interlocutore sappia di che cosa si sta parlando.
E’ dunque una poesia “memorabile”, nel senso etimologico della parola, un componimento la cui struttura rimane nella memoria e, come una musica che il nostro orecchio riconosce con facilità, suscita una reazione di piacere alla lettura o all’ascolto. Al di là dei suoi contenuti, dicevo, L’Infinito ha anche una notevole struttura ritmica, la cui qualità essenziale sta nella sovrapposizione di due diverse costruzioni metriche.
Il metro dell’Idillio leopardiano è l’endecasillabo, ma la sintassi combacia assai raramente con questo metro, e allora ciò che si direbbe per un brano di musica jazz forse va detto anche per i versi di Leopardi: che la poesia trae la sua forza ritmica dall’interazione fra metri diversi.
Lo studio della psicologia della percezione ritmica ci dice che per costruire in noi il senso oggettivo del tempo, il nostro cervello deve far leva sulla consapevolezza di avvenimenti, forme e significati, per poi percepirne la successione. Il ritmo sembra essere uno dei metodi che il cervello e il corpo usano per organizzare la percezione del passaggio del tempo.
Per costruire un ritmo acustico, poi, la rapidità della successione dei suoni deve contenersi tra i limiti imposti dalla nostra capacità di percezione acustica e da quella della memoria a breve termine. Ma il nostro cervello non è in grado di percepire una successione puramente regolare di suoni: esso tende a scomporre la successione neutra in una serie di suoni forti e deboli (l’orologio fa tic-tac per noi).
La percezione delle configurazioni ritmiche è dunque un processo mentale attivo, non una semplice ricezione passiva di stimoli (vedi gli studi di Clynes e Walker, Fraisse, Roederer, Gabrielson e molti altri).
Né la musica, né tanto meno la poesia, dunque, ci offrono successioni neutre di ripetizioni regolari: esse comunicano essenzialmente configurazioni precostituite, atte però a stimolare il lavoro creativo dell’ascoltatore/lettore.
Una ripetizione di stimoli regolari tende ad essere scomposta dal nostro cervello, ma se la ripetizione stabilisce in noi un’aspettativa di regolarità che viene a momenti soddisfatta e a momenti frustrata, senza peraltro essere totalmente sovvertita, allora la nostra attenzione è coinvolta nella costruzione di questa aspettativa e quello che procura piacere è l’elemento di sorpresa che deriva dalla varietà che perviene ai nostri sensi: non esattamente quello che ci aspettavamo, ma qualche cosa che è compatibile con la nostra aspettativa e di volta in volta concorre a rafforzarla.
L’aspettativa di ripetizione è il prodotto della metrica o del tempo musicale (escludendo peraltro la musica contemporanea che dà l’etichetta di ritmo a configurazioni che non creano o non mantengono alcuna aspettativa di regolarità, e la poesia contemporanea che non si appoggia ad alcuna costruzione metrica predefinita).
Il piacere della lettura o dell’ascolto nasce dall’alternarsi di aderenza e infrazione di queste configurazioni con allontanamenti e ritorni all’interno di schemi definiti. L’ascoltatore deve ipotizzare una configurazione “memorabile” (se non lo è la sua ripetizione non viene percepita) e deve poi modificare la configurazione ipotizzata alla luce dell’informazione successiva.
Ne deriva un susseguirsi di eccitazione (devo modificare la mia aspettativa) e di riposo (la mia aspettativa è confermata).
L’Infinito richiede al lettore esattamente un lavoro di questo genere: ad una lettura endecasillabica della poesia, estremamente regolare, si sovrappone la lettura sintattica, nella quale risultano con maggiore evidenza le configurazioni ritmiche che, intrecciate e sovrapposte, danno forma alla poesia. La nuova lettura evidenzia una serie di quinari e settenari, un senario e due novenari, nei quali prevale la scansione di due soli accenti per ogni parte di verso.
E’ un fenomeno, questo, tutt’altro che raro nella poesia, ed è alla base della varietà ritmica che procura il piacere dell’ascolto. Ciò che colpisce, nel caso dell’Infinito, è la straordinaria consapevolezza, da parte dell’Autore, di questi processi mentali. Una consapevolezza che è resa evidente dal ripetersi di configurazioni ritmiche diverse e ricorrenti nei metri subordinati, abilmente celate nella straordinaria regolarità dell’endecasillabo portante.
Il grande lavoro di cesello al quale Leopardi sottopose il ritmo di questo Idillio è dimostrato dalla storia travagliata del penultimo verso, quale appare dalle varianti delle molteplici stesure della poesia: nell’autografo conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, Leopardi scrive prima “immensitade il mio pensier s’annega”; cancella poi il “-de” di “immensitade” e mette un accento sull’ “-a” finale ottenendo “immensità”; quindi cancella “il mio” e “s’annega” e la virgola finale; scrive nello spazio sopra le parole cancellate “s’annega il” e “mio;” (con punto e virgola); cancella “immensità” e scrive sopra “infinità”; cancella il punto e virgola finale e lo sostituisce con un punto.
Questo autografo ci dà in versione definitiva: “immensità s’annega il pensier mio”.
Nell’autografo Vissano, poi, Leopardi scrive prima “immensità s’annega il pensier mio”; cancella “immensità” e lo sostituisce con “infinità”; la versione stampata nel Nuovo Raccoglitore (1825) ha: “infinità s’annega il pensier mio”. Finalmente, l’edizione Starita, Napoli, del 1835 dà la versione definitiva con la restaurazione di “immensità”.
Quale miglior prova di quanto il Poeta fosse consapevole dell’intreccio dei metri e intendesse valorizzare l’esecuzione ritmica della poesia?
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
_______________MARINELLA ROCCA LONGO
*1) CHRIS WAGSTAFF è stato docente di cinema italiano all’Università di Reading.
Ha fatto studi sul futurismo nell’arte e sul neorealismo italiano.
La sua straordinaria collezione di film italiani dal 1911 ad oggi è stata successivamente donata alla stessa Università di Reading.
Deceduto nel gennaio del 2019 è ricordato anche come trombettista jazz di straordinaria abilità.
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*MARINELLA ROCCA ed ALESSANDRO LONGO
da più tempo sono graditi ospiti su questa Testata, con
loro pregevoli interventi sia singoli sia a doppia firma