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Lusso e moda: la finanza, una risorsa fondamentale ai tempi della pandemia

Il lockdown e la pandemia hanno messo in evidenza le debolezze dei comparti moda e lusso. Per affrontare le continue e crescenti incertezze del mercato, le aziende hanno capito che non basta più semplicemente diversificare, sia geograficamente che per segmenti, ma è necessario dimostrare una certa solidità finanziaria diversificando i finanziamenti. È così che abbiamo visto moltiplicarsi le operazioni finanziarie durante la pandemia.

Le aziende hanno fatto ogni sforzo d’ingegno possibile per utilizzare tutti i tipi di leve finanziarie allo scopo di proteggersi e resistere alla crisi, pur continuando a perseguire il loro sviluppo con riacquisizione delle proprie azioni, debito green, emissioni obbligazionarie, nuove negoziazioni con le banche, finanziamenti pubblici, ricapitalizzazioni, ricerca d’investitori… 

Testimonianza di questa situazione sono le numerose assunzioni negli ultimi mesi di direttori finanziari (che spesso si accompagnano ad un cambio di visione nella gestione dell’azienda), e la loro ascesa verso un maggiore potere direzionale. Così come per la direttrice finanziaria del gruppo statunitense Tapestry (Coach, Kate Spade e Stuart Weitzman), Joanne Crevoiserat, promossa ad amministratore delegato dell’azienda.

Questa crisi ha dimostrato l’importanza della finanza, oggi sempre più considerata come uno strumento fondamentale nella gestione. Certo, prima di tutto bisogna avere un buon prodotto. Ma alla fine è la finanza che fa la differenza”, afferma Stefano Caselli, professore di finanza all’università milanese Bocconi.

Come ha spiegato, l’attuale crisi legata alla pandemia ha generato fabbisogni finanziari a diversi livelli. “La prima riguarda la finanza di sopravvivenza, la ricerca urgente di liquidità, generalmente concessa dai governi in modo diretto o attraverso le banche. C’è poi un secondo livello, che consiste nel rendere più solida l’azienda attraverso dei finanziamenti. Quando il mercato diventa incerto, le società hanno bisogno di dotarsi di molta liquidità o di strumenti finanziari che permettano loro di ricapitalizzarsi”.

Ai suoi occhi, il ruolo della Borsa andrebbe rivalutato, perché le società quotate “sono meglio attrezzate per affrontare la crisi ciò consente di essere più visibili, di ottenere più ricavi e attenzione da parte degli investitori, facilitando al contempo le operazioni finanziarie come emissioni obbligazionarie, ricapitalizzazioni, ecc.”.

Tra queste operazioni, il riacquisto di azioni proprie è stata una delle primissime iniziative intraprese dai marchi durante il primo blocco, con la quasi totalità dei loro negozi e attività chiusa per due mesi tra marzo e aprile. I gruppi italiani di moda Aeffe (Moschino) e Salvatore Ferragamo hanno lanciato un programma di riacquisto di azioni. A fine gennaio, Bernard Arnault ha comprato delle azioni LVMH per 11,7 milioni di euro. Dal canto suo, Kering ha proseguito nella prima metà del 2020 il programma di acquisto di azioni proprie avviato nell’ottobre 2019.

“All’inizio della pandemia, gli imprenditori erano stressati da tre elementi prioritari, la salute dei loro dipendenti, la propria attività e il loro risparmio. Il riacquisto di azioni proprie è stato un modo per consolidare l’azienda allo scopo di evitare che venisse comprata in un momento di grande fragilità e incertezza. In alcuni casi, certuni hanno persino stipulato accordi con altri azionisti per garantirsi lo zoccolo duro di una struttura azionaria che permetta loro di respingere un possibile assalto”.

Questi buybacks erano di natura difensiva all’inizio della crisi, al fine di proteggere le società, rendendo i loro titoli meno volatili, ma ora ce ne sono molti meno”, nota Stefano Caselli. Numerosi gruppi hanno infatti deciso di rinunciare a tali operazioni, anche se erano già state lanciate e approvate, come PVH, Tod’s o L’Oréal, “ansiosi di preservare il proprio flusso di cassa in un contesto molto incerto”, o ancora EssilorLuxottica, che ha interrotto l’esecuzione del suo programma. 

Per far fronte alle interruzioni delle attività legate alla pandemia, la maggior parte delle case di moda e lusso ha stipulato con urgenza prestiti bancari ed ha attivato obbligazioni. Più indebitate che nel 2019, le imprese devono dunque generare il cash necessario per rimborsare tali debiti, ma anche per rispondere alle attuali sfide della trasformazione digitale, del sourcing e dell’organizzazione.

La moda si è così rivolta a nuove strade per ottenere finanziamenti ed una di di queste è il debito green. I green bonds o i sustainability-linked loans hanno sedotto molte griffe negli ultimi mesi. Questi due tipi di finanziamento differiscono: le obbligazioni sostenibili sono legate ad obiettivi ambientali che l’azienda deve raggiungere, mentre i green bonds finanziano specifici progetti ecologici.

Finanziamenti simili sono letteralmente esplosi in quest’ultima parte dell’anno, adottati in massa dalle aziende per finanziare la loro transizione ecologica. Prada è stata la prima azienda del lusso a sottoscrivere un prestito legato allo sviluppo sostenibile nel novembre 2019, mentre il gruppo americano VF Corp (Timberland, The North Face e Vans) è stato uno dei primi attori della moda a lanciare un’obbligazione ‘verde’ in febbraio. Salvatore Ferragamo e Moncler lo hanno seguito in luglio, mentre in settembre Burberry ha segnalato a sua volta l’intenzione di emettere un titolo obbligazionario sostenibile.

Nello stesso momento, Chanel ha raccolto fondi per 600 milioni di euro in obbligazioni legate allo sviluppo sostenibile, operando così la sua prima incursione sul mercato dei titoli obbligazionari. Queste emissioni a impatto positivo sono state strutturate per soddisfare gli obiettivi di “riduzione del carbonio” definite nel programma di lotta contro il riscaldamento globale da parte della casa di moda francese, che dovrà pagare sanzioni se non raggiunge i suoi obiettivi.

Altro esempio recente è quello di Adidas. Dopo il consueto primo collocamento obbligazionario a settembre, il produttore di articoli sportivi ha emesso all’inizio di ottobre un prestito obbligazionario durevole di 500 milioni di euro, che lo porterà a “approvvigionarsi di materiali riciclati per prodotti fabbricati in modo sostenibile, investire nella produzione di energia rinnovabile e in edifici a basso consumo energetico, e avviare iniziative volte a migliorare in profondità l’esistenza delle comunità sottorappresentate”.

Questo tipo di investimento ha il vantaggio di essere molto concreto, perché legato a condizioni e obiettivi precisi. È una strategia win win. Gli investitori hanno fame di cose nuove e cercano investimenti redditizi. Dal canto loro, le aziende possono intercettare le risorse dimostrando di saper innovare e di essere responsabili. È anche un nuovo modo per creare posti di lavoro e ricchezza”, analizza Stefano Caselli.

Di fatto, l’incertezza e la volatilità dei mercati causate dalla pandemia hanno favorito l’esplosione dei temi etici e responsabili nella gestione delle aziende, con un’enfasi posta sui criteri ambientali, sociali e di governance (ESG). I marchi che emettono obbligazioni sostenibili incrementano la loro immagine e questo finanziamento rischia di diventare ancora più vantaggioso da quando la Banca Centrale Europea ha deciso a fine settembre di comprare e accettare come garanzia questi famosi SLB (Sustainability-Linked Bonds).

Le aziende hanno anche trovato altre fonti di finanziamento facendo appello alle banche attraverso i prestiti garantiti dallo Stato. In alcuni casi, come in Italia, il settore della moda ha potuto beneficiare di finanziamenti diretti della Cassa Depositi e Prestiti (CDP), concessi più rapidamente che all’interno delle banche. Così, Liu Jo ha ottenuto un prestito di 15 milioni di euro e OTB (Diesel, Marni, Margiela) di 50 milioni per poter perseguire il loro piano di sviluppo. Anche Stefano Ricci ha siglato un contratto di finanziamento con la CDP, ma in Cina, tramite la propria filiale di Shanghai, per un importo di 30 milioni di renminbi, equivalenti a 4 milioni di euro, nell’intento di rafforzare la sua presenza su quel mercato.

In compenso, per le start-up emergenti e i giovani creatori, la situazione è molto più complicata. Mentre è ancora possibile trovare dei partner produttori, ottenere finanziamenti per impostare tutte le altre operazioni necessarie allo sviluppo, come marketing, comunicazione, ecc. è diventato “molto, molto difficile”, secondo Luca Rizzi.

Il direttore della divisione Pitti Tutoring & Consulting di Pitti Immagine non nasconde l’amarezza: “Sul versante bancario, il discorso si è bloccato. Con questa seconda ondata di pandemia, tutti i nostri interlocutori si sono irrigiditi”, fa sapere. Per sostenere i 25-26 marchi che supporta, l’organizzatore fiorentino di manifestazioni fieristiche sta dunque creando alcune partnership con dei business angels, dei family offices e altri fondi d’investimento.

fonte FashionNetwork.com 

 

 
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