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Maria Zambrano: con la Spagna sempre nel cuore

Scritto da Francesco Ricci il . Pubblicato in .

María Zambrano (1904-1991), allieva di Ortega y Gasset e di Xanier Zubiri, nel 1958 pubblicò Persona e democrazia. A quel tempo la pensatrice e saggista viveva in esilio, avendo dovuto lasciare nel 1939 la Spagna, al pari di molti artisti e intellettuali repubblicani, dopo la vittoria del franchismo. A Parigi aveva conosciuto Jean-Paul Sartre e Albert Camus, a Roma, dove rimase fino al 1963, era divenuta amica di Alberto Moravia, Cristina Campo, Elémire Zolla.

Se al centro del suo libro d’esordio, Orizzonte del liberalismo, vi era la distinzione tra politica conservatrice – che vuole “fare ristagnare la corrente del tempo” – e politica rivoluzionaria – che intende “fare i conti con il tempo”, i termini oppositivi fondamentali del saggio del 1958 sono individuo e persona, dove la prima espressione contiene in sé un’idea di antagonismo alla società, mentre la seconda implica sempre un’apertura alla convivenza, una relazione con gli altri.  È per questo che la persona, non l’individuo, è la cellula prima della democrazia.

A circa metà di Persona e democrazia María Zambrano inserisce, tra alcune riflessioni relative alla violenza della Storia e un approfondimento del concetto di alienazione, una pagina molto bella, nella quale le accade di ritornare con la memoria agli anni della sua infanzia, trascorsa a Vélez-Málaga, in Andalusia. In tale contesto vengono ricordati anche “certi giochi che consistono nel passare da un riquadro all’altro senza calpestare le righe, in una specie di tabellone disegnato per terra”.  E se capita di calpestare la riga, vale a dire oltrepassare il limite, “si perde e bisogna perciò ricominciare da capo. E così tante volte, finché il fortunato giocatore non arriva alla semiluna con cui si conclude e si corona il tabellone: è il passo finale, perché ormai ha vinto”. Un gioco, questo della campana e altri analoghi, che a María Zambrano sembra possedere un valore scopertamente simbolico: “Sono il simbolo, senza dubbio, della vita umana, di quel progredire da una tappa all’altra, da un’età all’altra, da una situazione all’altra: in una parola, sono il simbolo della vita umana come storia”.  

Le citazioni tratte dalla pagina zambraniana contengono interessanti spunti di riflessione anche per la nostra epoca in relazione a due idee che attraversano l’intera storia del pensiero occidentale e ne scandiscono il divenire: l’idea di limite, l’idea di libertà.

L’idea di limite – e, di conseguenza, l’idea di finito, di chiuso, di circoscritto – appare centrale nella cultura antica e medievale. L’invalicabilità delle Colonne d’Ercole, situate nello Stretto di Gibilterra, o l’impossibilità di spingersi oltre l’Ultima Thule, nel mar del Nord, ripropongono a livello di spazio geografico la stessa diffidenza per ogni eccesso, che ispira la massina del “Niente di troppo” incisa sul muro esterno del tempio del dio Apollo a Delfi, accanto alla frase “Conosci te stesso”.
A partire dal Cinquecento, invece, la violazione sistematica dei termini prefissati, la ricerca dell’ulteriorità, il pathos del progresso determinano un rovesciamento completo di prospettiva nella cultura dell’Occidente. Caratteri, questi, tutti presenti, a ricordarlo è Remo Bodei, nella copertina del Novum Organon (1620) di Francesco Bacone, dove compaiono due navi che si spingono a vele spiegate proprio oltre le Colonne d’Ercole, accompagnate dal motto Multi pertransibunt e augebitur scientia (“Molti passeranno da qui e il sapere verrà accresciuto”).
I secoli successivi, complici i grandissimi progressi delle scienze e delle tecniche, hanno finito col rendere non soltanto inammissibile, ma addirittura incomprensibile, l’idea di limite, di confine, di soglia invalicabile. Non è rimasta che la Chiesa di Roma a ricordarci che non tutto ciò che è possibile è lecito.

Analogamente, anche all’idea di libertà ci si può accostare partendo da una cesura temporale, quella evocata già dal titolo da un testo, che segna l’avvio di un fecondissimo dibattito all’interno del pensiero liberale: il Discorso sulla libertà degli Antichi e dei Moderni (1819) di Benjamin Constant. Di fronte alla libertà antica, che è concepita come libertà politica, come libertà-partecipazione, la libertà moderna, invece, è pensata come libertà individuale, come libertà-indipendenza: “La libertà dei tempi antichi era tutto ciò che assicurava ai cittadini la più ampia partecipazione possibile all’esercizio del potere sociale. La libertà dei tempi moderni è tutto ciò che garantisce l’indipendenza”.
Il rischio che si annida nella libertà dei moderni, e che Benjamin Constant aveva perfettamente colto, è che gli individui, assorbiti dalla loro indipendenza privata e dai loro interessi particolari, trascurino il loro diritto a partecipare alla vita politica. E ciò vale soprattutto per una nazione, l’Italia, che nella sua storia ha sovente guardato allo Stato come a una entità estranea e ostile, poche volte amica, sempre avida e perniciosa, da cui è bene stare in guardia ed è conveniente tenere lontana. È come se, in sostanza, all’indomani del faticoso raggiungimento dell’unità d’Italia, qualcosa si fosse inceppato, impedendo la piena e completa realizzazione di un vero Stato, nel quale l’unificazione territoriale è accompagnata anche dall’unificazione economica e spirituale.
E fu proprio la coscienza di tale incompiutezza a persuadere Giovanni Gentile e Antonio Gramsci che sarebbe spettato al fascismo, per il primo, alla rivoluzione proletaria, per il secondo, il compito di portare finalmente a compimento il Risorgimento.

Oggigiorno i bambini non giocano più al gioco della campana, descritto da María Zambrano in Persona e democrazia. Più in generale, non conoscono i giochi che hanno scandito le vaste e morbide giornate delle generazioni precedenti, nella piazzetta del piccolo borgo come nel rione cittadino. Al di fuori del parco giochi e delle feste di compleanno, sono rare per loro le occasioni di fare esperienza del mondo, d’incontrare concretamente il mondo, coi suoi spigoli e le sue resistenze: sempre più precocemente, infatti, il loro rapporto con la realtà esterna risulta mediato dallo schermo di un tablet o di uno smartphone.
Non pestano la riga tracciata col gesso sull’asfalto (“senza calpestare le righe”), non posano il piede, saltellando, dentro il riquadro dove è consentito farlo (“passare da un riquadro all’altro”), non ripartono dall’inizio quando sbagliano (“e perciò bisogna ricominciare da capo”), non alternano successo (“è il passo finale, perché ormai ha vinto”) e fallimento (“si perde”), non provano la gioia del progredire (“quel progredire da una tappa all’altra”).
E ciò proprio negli anni in cui la mente non solo è più avida di apprendere, ma è anche in grado di ricavare un insegnamento da ciò che le oppone resistenza. È per questo che i giovani non possiedono né la cultura del fallimento né la cultura del successo, perché sono privati delle occasioni per sperimentare l’uno e l’altro. Con la conseguenza che sono più esposti alla ferrea logica che regola l’odierna società della prestazione: sfruttarsi, autorealizzarsi, avere successo. Chi fallisce, non è una persona che ha fallito: è un fallito. Colpa e vergogna sono i sentimenti che le si addicono.

Ma c’è di più. Il gioco della campana ricordato da María Zambrano, al pari di altri giochi oramai per lo più dimenticati, suggerisce e simbolicamente esprime un’idea di limite e un’idea di libertà – e dunque del rapporto che s’intrattiene con un’alterità resistente – che non trovano riscontro nella società del XXI secolo. Perfino il secondo termine di ciascuna delle coppie sopra riportate – non plus ultra/plus ultra, libertà degli Antichi/libertà dei Moderni libertà degli Antichi/libertà dei Moderni – non è più in grado di descrivere l’attuale e concreta congiuntura storica.

Il “comportamento coatto” del “potere dei consumi”, analizzato da Pier Paolo Pasolini in uno dei suoi Scritti corsari, il celebre Articolo delle lucciole, ha infatti lasciato posto al “comportamento libero” del nuovo “potere assoluto”. Merita di venire definito “potere assoluto” quello che, per impiegare le parole di Byung-Chul Han, “agisce silenziosamente”, realizzando il perfetto combaciamento di libertà e sottomissione. Non esiste, infatti, solamente il potere che prende la forma della costrizione e che rinviene il suo verbo modale nel “devo comunque”; esiste, anche il potere che prende la forma della libertà e che rinviene il suo verbo modale nel “voglio”. Quest’ultimo, secondo il filosofo originario di Seul, è più stabile, dal momento che la più stabile è la continuità fra Ego e Alter, col secondo che “si sottopone volontariamente” alla volontà del primo.                                                    

Il regime neoliberista costituisce a tutti gli effetti un esempio di “potere assoluto”. La base sulle quale viene a poggiare è, infatti, la perfetta sovrapposizione di costrizione e libertà. In una società di consumatori, quale è la nostra, dove ciascun membro è valutato esclusivamente in base al valore di mercato – l’unica sorgente di senso rimasta –, tutti si sentono liberi e tutti sono sottomessi, eccezion fatta per quelli che Zygmunt Bauman denomina “consumatori difettosi”, vale a dire, coloro che non possiedono un reddito sufficiente per poter accedere al consumo, per assolvere ai doveri connessi al consumo. Questi ultimi, infatti. sono sì sottomessi – naturalmente secondo la modalità seduttiva, non repressiva, propria del dominio neoliberista –, ma non si sentono liberi, non possono sentirsi liberi, dal momento che è loro preclusa la possibilità di avere accesso al mondo-mercato perennemente aperto, sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro.

Nella cornice dell’ordine simbolico dominante, perfino la classica dicotomia freedom to (“libertà di”) / freedom from (“libertà da”) ha smarrito ogni funzione orientativa o interpretativa dell’esistente. Dice poco, non serve a niente.
Come linee di gesso tracciate sull’asfalto e divenute irriconoscibili.   

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 


Foto autore articolo

Francesco Ricci

Fiorentino, classe 1965, vive a Siena ove è docente di letteratura italiana e latina, nonché autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento.
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