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Oggi e milioni di anni fa

I recenti e ripetuti terremoti del Centro Italia ha spinto studiosi e una grande parte della popolazione, impaurita dai suoi tragici esiti, ad approfondire le relative conoscenze su queste sconvolgenti manifestazione della Terra. Lo scopo, pur se privo di una probabile risposta positiva, sarebbe quello di realizzare una potenziale prevenzione  o, nel peggiore dei casi, preservare da catastrofi abitazioni, edifici di valore e paesaggi da tali calamità.

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Il fatto di guardare all’antichità, per ricerca e confronto, è normale, come lo è percorrere i secoli per acquisire informazioni utili. L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, dopo la rovina del sisma del 2009 all’Aquila, sostiene che esso era l’ultimo di una serie infinita di moti distruttivi che hanno interessato il Centro Italia, e precisamente, secondo Emanuela Guidoboni, la documentazione storica di terremoti antichi e medievali chiarisce e fa luce sulla storia sismica della zona, fermo restando che le parti di essa non hanno un sottosuolo unitario e quindi non tutte subiscono traumi della medesima portata.

I ricercatori hanno passato al setaccio documenti scritti e presenze archeologiche a partire dal 1° secolo A.C. fino al 1500. Prima del 1° secolo, sembra, da scrittori greci e latini, i moti della terra erano visti come prodigi, da interpretare spesso come messaggi divini: il “Liber prodigiorum” di Obsequentis riporta una lista di terremoti avuti nel periodo repubblicano, poi cita quello del 100 a.C. nel Piceno come “distruttivo, fece crollare ed abbattere abitazioni, ed alcune rimasero prodigiosamente inclinate al loro posto”. Ma due terremoti furono invece subiti come tremenda calamità, che fu definita “universale” ed ebbe come conseguenze furiosi maremoti. Del primo parla S.Girolamo (Continuazione della Cronaca di Eusebio), che riferisce esattamente come, il 21 luglio del 365 d.C. un terremoto nella zona del centro della Penisola abbia causato danni talmente diffusi e gravi da estendersi anche nel Mediterraneo orientale con crolli ed inondazioni; del secondo riferisce Paolo Diacono, per il quale esso avrebbe investito in forma di maremoto il 568 l’Italia settentrionale, tanto violento da modificare addirittura il territorio padano.

Seneca non si esclude dal gruppo di studiosi che osservano questi fenomeni tellurici più o meno gravi. Si sa anche Comoplinio che uno dei massimi geni per lo studio della natura, Plinio il  Vecchio, aveva più volte offerto al mondo l’ampiezza dei suoi  interessi e delle conclusioni che l’osservazione dei moti e delle  caratteristiche del mondo in cui visse gli fornivano. L’amore per  questi studi fu tale, insieme ad una dose non comune di umanità,  da condurlo alla morte per asfissia nel corso del tentativo di  salvataggio di superstiti e di presa diretta del fenomeno, nel corso  della maledetta eruzione del Vesuvio l’anno 79, preceduta e seguita  da terremoto, che portò via Pompei, Ercolano, Stabia, dalla faccia  della terra. I libri, suoi e di un’enorme biblioteca, sono ancora  sepolti nei pressi di Ercolano e si stanno cercando.

Seneca, dunque, nel suo : “de terrae motu”, sesto libro delle “Naturales Quaestiones”, parla dei terremoti secondo la scienza del tempo, dividendoli in tipi, discutendo se essi manifestino più una “concussio”, un “tremor”, o siano, d’accordo con Posidonio, determinati da varie cause e non da una sola, come Anassagora , Aristotele e Metrodoro sostenevano, attribuendo all’aria compressa nelle viscere dei terreni, o all’acqua, o ad un fuoco profondo la colpa di tanti fenomeni e disastri. Ma invece di osservare gli esiti come messaggi celesti, Seneca, seguendo Epicuro, li indica come risultati di moti dati da tutti quegli elementi ed assolutamente naturali, e descrive, senza esagerare, ogni grave e tremenda conseguenza di essi. Si è già ad un punto di vista più vicino al secolo attuale.

Dopo il 568 si ha nozione di un grande terremoto il 1315 nei pressi de l’Aquila, così forte che portò fazioni avverse ad “abbandonare le malefatte e tornare alla via stretta della coscienza” ed un secolo dopo si parla di un sisma terribile che fece crollare i tetti delle case romane nella zona, poi di altri titanici tremori accaduti il 1456 ed il 1461.

A conti fatti, perchè il Centro ed il Meridione d’Italia sono il più frequente epicentro? Roberto Esposti sostiene che in questa zona e nella zona marina che le è riferita, vale a dire il mare Tirreno, i vulcani determinano la tranquillità e la rivoluzione dei territori. I grandi vulcani presenti e formanti i colli Albani, tutti sistema del Grande Vulcano Laziale, hanno origine seicentomila anni fa e vanno dalle isole Pontine alla Tuscia settentrionale: le attuali bocche spente formano i laghi maggiori del Lazio, ed anche qualcuno minore che non si è o non è stato prosciugato, come il lago di Castiglione verso Gabi, o Ariccia, o Prata Porci. All’inizio della vita il Laziale, con tutte le sue bocche, eruttava circa 280/kmq di materiali, fabbricando letteralmente l’Italia, con un vero e proprio ventaglio di modi eruttivi, dal flusso magmatico all’esplosione, ad emissioni piroclastiche od anche collassi o innalzamenti di territori che mutavano continuamente paesaggi, coste, cime ed alture, obbedienti tutti al gran calderone caldissimo del suo ventre: son nati così i Monti Cimini, Sabatini, Volsini e gli altri.

Il tempo trascorso fra una fase vulcanica e l’altra danno la dimensione del fenomeno immane della generazione della Nazione italica e danno la certezza, per le ricorrenze non precise ma effettive delle manifestazioni, che la grande bestia non è spenta, ma in quiescenza.

La rinnovata attività della scienza nel secolo 1700 stimola i ricercatori a codificare, spiegare, interpretare questi fenomeni distruttivi e costruttivi: Giambattista Vico cercò di risalire all’origine di essi mediante l’etimologia che avrebbe dovuto attestare, tramite antichi termini, il secolo della loro menzione primaria, per stabilirne l’età . Il suo pensiero andò di pari passo con quello dell’amico Raimondo di Sangro di San Severo e di tutta la sua famiglia, che interessò i centri napoletani di sua influenza a studiare questi fenomeni: il risultato è stato quello che la Geologia conferma: l’Italia dall’ultima Era Glaciale era legata alle isole ed era più alta di 120 m sul livello marino dell’attuale. Lo scioglimento dei ghiacci produsse la penetrazione potente del mare negli abissi infuocati, che distaccò lo stivale dalle sue grandi isole e l’invasione delle acque ebbe come conseguenza una serie di spaventosi terremoti che separarono fin nel profondo la Sicilia dalla punta della Penisola , in quanto l’acqua, penetrata nel cuore delle caldere, avrebbe generato un quantitativo di energia veramente indicibile.

Il secolo 1800 vede confermata questa tesi dal Mazzoldi, che chiama “Tirrenide” la prima Italia unita alle isole, e sottolinea che questa certezza gli è stata prodotta dagli scritti degli antichi e dal descrivere gli antichi loro miti, i quali sarebbero stati nient’altro che un modo simbolico di definire un dato evento.

Mazzoldi dice addirittura che prima di Roma attuale ci sarebbe stata una città forse di nome Saturnia, scomparsa per una terribile eruzione, e che sarebbe stata governata da Camese, re prima di Giano, come assunto da Protarco di Tralli e da Igino, e come dice Virgilio di Roma, quando la chiama “saturnia tellus”.

La scienza dimostra ancora che a 600/700 metri sotto il mare vi è non solo un altro vulcano scoperto nel 1800 da Marsili, situato fra Napoli e le isole Lipari, ma una serie di vulcani che il sorgere curioso e momentaneo dell’isola Ferdinandea avrebbe in qualche modo evidenziato, e dichiarato ancora attiva o quiescente: per farla breve, la terra magnifica e solare, feconda e passionale che si estende al centro del Mediterraneo vive fra il tristo subbuglio di terremoti prodotti dalla loro diffusa ed attenuata energia e quello altisonante, da capolavoro naturale, dei vulcani Stromboli ed Etna, con la costante paura per il loro indiscusso e capriccioso collegamento.

Lorenzo de’Medici concluda questa breve informazione: “chi vuol esser lieto sia, di doman non v’è certezza”.

Marilù Giannone

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