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Pompeo Bettini e la poesia italiana prima della “Grande Guerra”

 La poesia italiana ante il 1915 – 1918

Il lamento dell’Italietta di Pompeo Bettini: un vero italiano e comunista

 di RAFFAELE  PANICO 

Qual era lo stato delle lettere e della poesia italiana sino alla Grande Guerra? Un lamento. La lirica civile degli italiani era per lo più un piangersi addosso, un’accorata constatazione della inferiorità italica, il rimpianto continuo alle glorie di un passato latino, romano alle spalle da secoli ormai. E terre, terre irredente e altre cedute così, per acquisire provincie più simili a quelle del Bey di Tunisi che all’Europa dei popoli civili (l’Italia dalle Alpi, si diceva, finisce a Livorno). Un appellativo che riassume tanto incisivamente l’Italia umbertina e giolittiana è “Italietta”; nome miserrimo che unisce amaramente disprezzo e massima diminuzione dell’idea di Stato. Un nome voluto dal D’Annunzio.

Per un italiano di allora, la patria poteva dire, da un lato, emigrazione verso le Americhe, dove lì si, forse, poteva esserci la salvezza, col duro lavoro retribuito senza caporali e passaggi di mano, pur affrontando mille difficoltà, come avveniva per la classe meno abbiente; dall’altra, parlare e discorrere di patria poteva farsi solo disprezzandola, e allora si trattava della classe piccolo borghese, o persino media e intellettuale. Disprezzare, disprezzare e ancora disprezzare.

Re Umberto venne assassinato come sappiamo a Monza, da un anarchico tornato dalle Americhe. La stessa patria allora stava dando lustro ai suoi primi Cinquant’anni col monumento di piazza Venezia, dedicato a Vittorio Emanuele II, poi divenuto l’Altare della Patria: una patria aulica e di marmo freddo, la Patria massonica e anticlericale. Patria che tra il 1907 e il 1908 aveva visto espatriare il picco dei suoi figli, ossia due volte il numero dei cittadini di Napoli d’allora. Andare per gli oceani, sui bastimenti, per popolare nuovi Paesi sorti dalla fine della primissima età coloniale imperiale nel sud America, o dalle rivolte dalle 13 colonie inglesi al Nord. Tra il 1911 e il 1936, quello stesso Stato “lazzarone” ottiene tre risultati, seppur anacronistici, degni dei grandi Stati d’Europa: vince la guerra contro l’impero ottomano nel 1911; la prima guerra mondiale il 4 novembre 1918, e infine la rivincita sulla sconfitta di Dogali nel 1936 conquistando l’Africa orientale italiana.

A nulla è servito, e dopo i successi pur ammirevoli della storia repubblicana post tragedia bellica, da Nazione ancora dai primi posti nel Mondo, arrivò il turno di alcuni untori novelli, per un verso, tra i quali “Cuor di Coniglio”.

Possiamo rivisitare i versi di un poeta dell’Italietta. A nulla – scriveva – serve il nostro vino, il nostro olio, i nostri prodotti che non scaldano i focolari degli italiani. Nell’attuale contingenza, gli ideali più alti di un uomo, l’amore più sincero, profondo senza condizione di una Madre, ogni speranza d’Italia in man loro è solo che funebre ritocco. Ogni occasione è buona per tali istituzioni, portare la corona a qualsiasi caduto per questa sciagurata patria. Non così per francesi e inglesi ancora e sempre pronti a difendere isole o lembi di terre coloniali, nei quattro angoli del pianeta. Ci hanno tediato l’animo!  La prospettiva è la dissoluzione della nostra stirpe, alla cui “vista” prossima ventura anche il più generoso individuo dotato d’amore e intelligenza, fatica come Ercole invano a dirsi saldo in tanta nave senza nocchiero contro ripetuti scogli. Occupati, come son loro, agli scanni politici, per tener saldi i loro confini:  il loro estratto conto; e la concordia della Nazione cola profonda.

SWScan00509Il poeta di cui manteniamo fermo questo ricordo è Pompeo Bettini (nato a Verona il 1 maggio del 1862, morto a Milano 15 dicembre 1896) di fede socialista, grande poeta dimenticato, correttore di bozze e traduttore dal tedesco, era amico di Filippo Turati; è stato il primo tra il 1892-93 a tradurre il manifesto del Partito comunista (dal tedesco), è stato un collaboratore di “Critica Sociale” di “Lotta Comunista”. L’elogio, forse il più alto, è in queste poche righe, a un Nostro martire, di questa ingrata Italia, di cui ricordiamo questi versi:

Italia, tu produci ottime cose: – Marmi pel genio, fiori per i morti, Nevi per l’Alpe, e cavoli per gli orti, – E venticelli per sfogliar le rose. Ma tu produci pur genti cenciose – Dalle man ladre e dai cervelli corti, – Che s’accapiglian dentro gli angiporti – Ed urlano bestemmie ingenerose…” .

Una chiara allusione alla carnevalesca sfilata parlamentare del regio regime liberale dell’Italietta, di ieri, senza mai un domani.