Produttività e costi: i fattori del lavoro
per lo sviluppo del Mezzogiorno
Adeguare le retribuzioni al costo della vita
con la partecipazione dei Lavoratori alla gestione delle Imprese
a cura di Riccardo Pedrizzi *
I temi della produttività e del costo del lavoro sono fondamentali per la produzione industriale e per la crescita, soprattutto in assenza della possibilità di agire attraverso la politica monetaria. Il “Miracolo Economico” degli anni ’50 e ’60 in Italia fu possibile proprio perché basato sulla crescita della produttività e della produzione.
Oggi in Europa, soltanto la Grecia in termini di crescita e di produttività, sta peggio dell’Italia.
Riporto solo qualche dato: la produttività del lavoro cresceva di 1,2 % annuo tra il 1997 ed il 2001; dello 0,6 % tra il 2004 ed il 2007 e solo di un decimo di punto percentuale negli anni dal 2015 al 2019. La variazione media annua della produttività del lavoro in tutto il periodo tra il 1996 ed il 2019 è stato dello 0,3 % in Italia, a fronte di + 0,7 % annuale in Germania e di + 0,8 in Francia e Spagna.
Se consideriamo il primo ventennio di questo secolo, il confronto è ancora peggiore: la produttività del lavoro è aumentata dello 0,2 % in media annua da noi, dello 0,6 in Germania, dello 0,7 in Francia e di un punto percentuale all’anno in Spagna. In questi ultimi vent’anni di inizio secolo, sino allo scoppio della pandemia, la produttività della Germania, a parità di costo del lavoro, è aumentata in media tra l’1 e il 2 % l’anno, in Italia tra l’1 e il 2 %, ma in tutto il periodo.
Anche il Centro Studi di Confindustria lo ha sottolineato nel suo rapporto: “L’industria italiana si trova incagliata in un circolo vizioso dove la mancata crescita della produttività è al tempo stesso causa ed effetto della perdita di competitività”.
Sostiene inoltre Confindustria che: “Nei prossimi anni i salari sono previsti recuperare potere di acquisto, in virtù di un meccanismo contrattuale che spalma su più anni gli effetti di fiammate inflazionistiche”.
Allora, “rimarrà cruciale che gli aumenti salariali a copertura dell’inflazione siano accompagnati da guadagni di produttività sufficienti ad evitare un’erosione della redditività di impresa a danno della propensione ad investire o a un innalzamento del costo del lavoro che andrebbe ad alimentare le pressioni inflazionistiche”.
Ed Ignazio Visco, Governatore di Bank-Italia, è sulla stessa lunghezza d’onda: ”Le prospettive di sviluppo dell’economia dipenderanno in larga misura dalla capacità di tornare a ritmi di crescita della produttività del lavoro nettamente superiori a quelli degli ultimi venticinque anni e almeno pari a quelli medi osservati negli altri paesi dell’area dell’euro”. Invece, per un quarto di secolo “il prodotto per ora lavorata è cresciuto di appena lo 0,3 % annuo, meno di un terzo della media degli altri paesi dell’area dell’euro”.
Banca d’Italia suggerisce poi che: “Nelle contrattazioni nel mercato del lavoro va evitato un approccio puramente retrospettivo, poiché una dinamica retributiva che replicasse quella dell’inflazione passata non potrebbe che tradursi in una vana rincorsa tra prezzi e salari. Quello che occorre per un recupero del potere d’acquisto è una crescita più sostenuta della produttività. Eventuali misure di bilancio dovranno rimanere temporanee e mirate”.
Occorre quindi affrontare innanzitutto il tema del costo del lavoro ed in questo può aiutare l’analisi di Keynes che ci spiega come, in certe condizioni, la diminuzione del costo del lavoro può essere molto favorevole all’occupazione perché tale politica è in grado di aumentare la produttività e quindi di favorire la bilancia dei pagamenti, incrementando esportazioni e, di conseguenza, investimenti e occupazione.
Un discorso analogo – suggerisce l’ex Governatore Antonio Fazio – andrebbe tentato in Italia per riconquistare la competitività del Centro-Sud d’Italia con quella del Centro-Nord. Certo non si possono più riproporre le “gabbie salariali”, ma si può prevedere una differenziazione significativa dei salari che tenga in considerazione il costo della vita e la produttività.
“L’effetto sull’occupazione sarebbe immediato, così come il miglioramento della bilancia dei pagamenti e quindi degli investimenti, dell’occupazione e del reddito”.
Ricorderò che nel 1993 Fazio, da poco nominato Governatore della Banca d’Italia, fu molto critico sull’abolizione delle gabbie salariali, prevedendo effetti negativi sull’economia del Mezzogiorno. Ed anche Tarantelli e Modigliani ritenevano che l’analisi dell’occupazione e dell’andamento dei salari non può essere isolato dal tema della produttività ed attraverso il Modello Econometrico svilupparono analiticamente l’idea di un sistema economico con gradi differenti di produttività.
Ancora oggi, l’ex Governatore continua a essere convinto che se nel Meridione si differenziasse il costo del lavoro rispetto al Centro-Nord, crescerebbero gli investimenti. “Non ha senso infatti pagare gli stessi salari in situazioni di produttività differenti. Nel Mezzogiorno la produttività era allora ma più meno lo è anche oggi – inferiore del 20-25 % rispetto a quella del Nord, anche nello stesso tipo di imprese e perfino in imprese con più capitale. Non ha senso, anche perché il costo della vita, in quelle zone, è più basso” scrive Fazio… …Un livello salariale significativamente più basso di quello attuale, soprattutto per il Mezzogiorno, ma più alto di quello dei lavoratori del “lavoro nero” renderebbe le imprese più competitive ed eliminerebbe, almeno in buona parte, il lavoro irregolare”.
Del resto i ‘Padri Costituenti – ha ricordato sempre il Governatore emerito – che avevano ben chiaro questo quadro, accettarono una differenziazione del costo del lavoro tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia… Erano quelli i tempi dei grandi e storici sindacalisti Giuseppe Di Vittorio e Giulio Pastore, che avevano riscontrato nelle regioni meridionali essere più bassi sia il costo della vita, sia la produttività.
E per questo, come ha scritto recentemente Maurizio Sacconi in un suo articolo, bisognerebbe “Adeguare gli stipendi ai territori”. “In un Paese con profondi divari territoriali, ciò che può consentire una “esistenza libera e dignitosa” in una certa area potrebbe non consentirla in un’altra. Ne discende la impossibilità di individuare una cifra, pure arricchita delle voci rientranti nel trattamento complessivo, ovunque adeguata. Tanto attraverso il contratto nazionale quanto con una norma di legge. Quest’ultima, da un lato non sarebbe al riparo dalla giurisprudenza e, dall’altro, in un Paese con salari mediani modesti, potrebbe indurre a schiacciarli sulla cifra individuata dal legislatore.
Prendiamo quindi atto dei limiti del contratto nazionale, che tuttavia può ancora contenere principi e alimentare le prestazioni complementari. Ma non è più idoneo a stabilire retribuzioni e inquadramenti, da adattare ai diversi contesti territoriali per le piccole imprese, e aziendali per quelle maggiori.
Tocca ora alle parti sociali, che autonomamente hanno deciso sin qui i perimetri dei settori (ormai obsoleti per il superamento dei relativi confini), condividere i perimetri territoriali più idonei a rappresentare i fattori che influenzano la competitività delle imprese e il potere di acquisto delle retribuzioni. Persino Pietro Ichino giurista, politico e sindacalista deputato e senatore del PD concorda con questa tesi: “Una cosa è certa: se lo standard è uguale per tutto il territorio nazionale, o è troppo basso per il Nord, o è troppo alto per il Sud. Occorre dunque stabilire uno standard-base che corrisponda a un valore intermedio tra le retribuzioni orarie minime previste dai contratti collettivi seri, stipulati dalle associazioni maggiormente rappresentative; ma occorre poi che esso sia adattato, in base a un indice calcolato dall’Istat, in relazione al potere effettivo di acquisto della moneta nelle varie zone. Per intenderci, con 8 euro all’ora a Crotone forse si può vivere, a Milano certamente no”.
A questa soluzione poi occorrerebbe prevedere incentivi per coinvolgere sempre più i lavoratori nella gestione dell’impresa, anche per realizzare quanto previsto dell’Articolo 46 della nostra Carta Costituzionale: “ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto, dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
E’, a questo proposito, illuminante rileggere – suggerisce ancora Antonio Fazio – le riflessioni che ci ha lasciato James Meade, premio Nobel nel 1977 (-vds. foto), uno dei giovani più vicini a Keynes, in “Agathopia l’economia della partnership” (Feltrinelli, 1989) sulla partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione dell’impresa, un lavoro che richiama il concetto di “sharing economy”.
La partecipazione, oltretutto, è un sistema previsto e suggerito sempre dalla Dottrina Sociale della Chiesa e dalla migliore tradizione giuslavoristica nazionale.
Alla luce di queste riflessioni Economisti e giuristi, insieme a sindacati e imprenditori, dovrebbero iniziare ad approfondire seriamente e studiare sia possibili sistemi di differenziazione dei salari e sia nuove forme di associazione delle maestranze alla gestione delle imprese.
*Riccardo Pedrizzi
Presidente Comitato Tecnico Scientifico UCID
già Presidente Commissioni FINANZE e TESORO
in più legislature presso i due rami del Parlamento
www.riccardopedrizzi.it
Il presente intervento è stato trasmesso alla Redazione di Consul Press da Fabio Fiorentino,
collaboratore della segreteria del Senatore Riccardo Pedrizzi