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Quando il salario minimo era fascista

Negli ultimi tempi è stato molto vivace il dibattito politico tra governo Meloni ed opposizione sul tema della possibile introduzione per legge del salario minimo ovvero di una soglia base di partenza, remunerativa del lavoro, al di sotto della quale non possano scendere i datori di lavoro nel computo della retribuzione, oraria o giornaliera o mensile che sia, ai proprio dipendenti.

In molte nazioni vigono leggi applicative del salario minimo, in Italia, invece, il livello base delle retribuzioni è affidato alla contrattazione tra le parti sociali, quindi ai contratti collettivi, ma non in modo esclusivo poiché sono ammessi pure contratti di lavoro individuali, fuori dalla trattativa collettiva e, di conseguenza, da ogni valore di salario minimo. Nel Jobs Act del 2016, la riforma del governo Renzi per attuare la maggiore flessibilità del mercato del lavoro, il salario minimo era previsto, ma non è stato, poi, contemplato dai decreti attuativi della legge stessa.
Solo il 4 luglio scorso l’opposizione al governo Meloni, quindi Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Sinistra Italiana e Azione hanno presentato alla camera la proposta di legge, istitutiva di un salario minimo orario di 9 euro entro le stesse regole di tutela sociale ed economica dei contratti collettivi, conclusi dai sindacati maggiormente rappresentativi.

                                                               

 

I favorevoli al salario minimo ne dichiarano una duplice capacità: accrescere il tenore di vita dei dipendenti, riducendo la povertà e le disparità sociali, e garantire  un maggior benessere lavorativo, sollecitando le imprese ad essere sempre meglio organizzate e produttive; i contrari, invece, governo Meloni compreso, ne evidenziano il fattore di rischio per una crescente disoccupazione, soprattutto a scapito dei lavoratori meno qualificati o al primo impiego, e per una caduta dell’innovazione da parte delle imprese.
Eppure, cosa davvero singolare, oggi tutta l’opposizione antimeloniana con la sua proposta di legge per il salario minimo si trova, in realtà, a recuperare un provvedimento di legge, già attuato nel 1929 dal governo Mussolini su sollecitazione dei sindacati fascisti: dunque, l’odierna sinistra italiana recupera nella sostanza e nella finalità il salario minimo fascista; al contrario, il centrodestra di governo, animato da spirito liberista, è meno incline a ingessare le retribuzioni in vincolanti parametri salariali.

Senza volerlo o saperlo, dunque inconsapevolmente – e la cosa fa davvero sorridere – la sinistra è incredibilmente nostalgico fascista, ritorna sui suoi passi e cancella quello che era stato uno dei suoi primi provvedimenti: l’eliminazione del salario minimo fascista nell’immediato dopoguerra su pressione dei sindacati antifascisti che reclamavano subito il proprio controllo sulla contrattazione retributiva.
Adesso, la sinistra italiana con la sua proposta di salario minimo conferma il valore di quel programma economico d’ispirazione socialista con il quale, ancora verso la fine del 1922, Mussolini proponeva misure come la tassazione progressiva, quella sui profitti di guerra, la nazionalizzazione delle industrie di armi, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e, infine, proprio il salario minimo, per legge introdotto, appunto, nel ’29.                                                             

Non solo, una forma di salario minimo era già nelle idee di Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti ai tempi dell’Impresa di Fiume (12 settembre 1919-27 dicembre 1920), anche in linea con i principi lavoristici, poi sostenuti dal sindacalista massimalista Alceste de Ambris nell’ambito della fiumana Carta del Carnaro. Comunque, il salario minimo fascista del 1929 sopravvenne dopo circa sette anni di governo mussoliniano, fortemente impegnato nel riordino della previdenza, della sicurezza sul lavoro, della definizione oraria della giornata lavorativa, pure considerando i disagi di talune attività usuranti: tutto questo giustamente propedeutico alla formulazione nel 1927 della cosiddetta Carta del Lavoro, documento importante dello stato corporativo fascista per disciplinare in trenta punti i rapporti fra datori di lavoro e lavoratori, sopperendo, finalmente, alla precedente grave carenza normativa in proposito.

Quando il salario minimo era fascista nessuno mai avrebbe immaginato che oggi, 94 anni dopo, lo stesso provvedimento sarebbe tornato di grande attualità per iniziativa di buona parte di quell’antifascismo, vincitore sul regime mussoliniano, ma, in fondo, si sa, a volte la storia non è priva di significative contraddizioni.

 

 

 

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Franco D'Emilio

Storico, narratore, una lunga carriera da funzionario tecnico scientifico nell'Amministrazione del Ministero per i beni e le atiività culturali