Realtà e Verità del divenire
Sappiamo che esiste un mondo esterno, fatto da tutto ciò che accade, e sappiamo anche che esistiamo noi, gli uomini, che abbiamo coscienza e razionalità. Siamo quindi in grado di intendere e volere e abbiamo memoria di ciò che è accaduto a noi stessi per diretta esperienza e al nostro gruppo di appartenenza, sia esso famiglia, clan, città o nazione per informazione indiretta, e cioè tramite la storia universale. Apprendiamo quindi che il mondo, cioè tutto ciò che accade, può provocare dolore e morte e che la vita di ciascuno è sempre a termine. Desideriamo la nostra soddisfazione e quella del nostro gruppo e l’essenza della nostra esistenza è nello sforzo di continuare a vivere per raggiungere questa soddisfazione. Vorremmo anzi poter vivere in eterno e siamo quindi molto sensibili alla religione che ci rasserena circa una alleanza con un dio più potente di noi, forse in grado di aiutarci.
Nel corso del tempo, per mezzo del linguaggio e delle esperienze comuni, ci siamo formati una rappresentazione del mondo e di quanto vi accade. È nata così la filosofia e la scienza e abbiamo verificato che il mondo può essere spiegato razionalmente utilizzando le leggi della fisica che mettono insieme la matematica con la misura di osservabili. Si è poi compreso che leggi diverse possono essere aggregate da un punto di vista logico e assiomatizzate sotto forma di teorie che forniscono rappresentazioni del mondo, cioè di quello che accade, sempre più generali e approfondite e capaci anche di prevedere accadimenti futuri. Con il progredire della scienza, nei vari campi, si è potuta sviluppare la tecnologia che migliora la qualità e la durata della vita, dando l’impressione di poter raggiungere l’obiettivo di avere una vita illimitata e abbondante per tutti.
Con il progredire delle indagini sulla natura e sull’uomo, abbiamo ora una rappresentazione, imperfetta ma importante, della vita biologica e della coscienza. La psicologia chiarisce meglio il significato di coscienza e di inconscio e la sua relazione con la nostra volontà insieme ai problemi di relazione tra gli uomini e all’aggressività. L’aver eliminato in maniera definitiva il fissismo di tutto ciò che accade e l’averlo inserito in una dinamica di evoluzione governata da una logica di conservazione della prole e della specie ha finalmente chiarito la natura dell’egoismo umano che è assimilabile allo sforzo di controllare e possedere risorse ritenute vitali per sé e per il gruppo di appartenenza allo scopo di conservare la vita.
L’aggressività senza limiti, la violenza e gli assassinii da parte dell’uomo sull’uomo e la distruzione della vita stessa e di tutto quello che c’è di più prezioso, sono presenti nelle guerre di ogni epoca. Esse fanno capire e desiderare una qualche forma di regolamentazione per migliorare questa giungla assurda prodotta da un sia pur giustificabile egoismo a livello individuale o di gruppo mutuato dalla esigenza di continuare a vivere. Viene naturale chiamare “male” tutta questa tendenza di distruzione della vita e “bene” la tendenza che, viene sperato, possa esistere nel fondo di ciascun uomo a qualcosa che abbia il potere di mettere da parte l’egoismo o perfino produrre un sacrificio di sé a vantaggio collettivo.
Viene facile ed è molto efficace descrivere l’uomo “egoista” come un uomo imprigionato nella logica del profitto individuale e della morte da infliggere ai simili (anche se dettato da una legge naturale di conservazione della specie) e l’uomo capace di amare l’altro a spese di sé, come un uomo libero e “altruista”.
Si è anche arrivato ad annunciare che l’uomo che sacrifica in tutto, cioè morendo fisicamente, o in parte, cioè con il sacrificio del proprio tempo, dei propri beni ecc. e cioè con piccole “morti esistenziali”, la propria vita per un altro in realtà non riceve danno dal non essersi difeso ma, viceversa, riceve vitalità e soddisfazione perché viene resuscitato da queste morti da una forma di amore presente nel Dio creatore stesso che per primo è morto e resuscitato per gli uomini. Non ci sarebbe quindi più la necessità di alcuna legge se si vivesse questa verità, che cioè si potesse evitare di difendere la propria vita, il proprio tempo, i propri beni ecc. senza distruggere sé stessi ma, anzi, realizzando una piena ed eterna felicità. La Chiesa cristiana, nata come setta staccatasi dall’ebraismo duemila anni fa, che sosteneva questa impostazione, è tuttora esistente e prospera dopo aver attraversato vicissitudini ed errori e rivolgimenti politici di ogni genere. Alcune migliaia di persone che hanno creduto a questo sono state esempio di bontà e, nel corso della storia, hanno costituito un esempio di eroismo e di positività. Tramite loro e tanti altri si è potuta costruire una vera e propria civiltà cristiana che è alla base della nostra attuale società occidentale che si è rivelata egemone su tutte le altre civiltà grazie allo sviluppo della scienza, della cultura e dell’arte in tutte le sue forme.
Ma il successo ottenuto implica la verità dell’enunciato? Cosa è questa “verità”? Cosa vuol dire “credere”? La “verità” può essere rivelata da antichi scritti mediorientali paragonabili ai racconti mitologici? Esiste una differenza tra il racconto del sacrificio di Isacco e quello dell’accecamento di Polifemo? Dobbiamo credere alla “realtà” dei racconti dei Vangeli? È vera la resurrezione raccontata nei Vangeli?
In definitiva: che differenza c’è tra la “realtà” storica e la “verità” del racconto mitologico? Ha senso confondere i concetti di “realtà” e “verità”? Cosa è la storia e cosa è il mito? È proprio così importante che i racconti della bibbia siano reali o esiste un livello di verità più largo e più esistenziale? È proprio necessario che il racconto di Adamo ed Eva e la creazione sia reale (cioè che la storia sia andata effettivamente in quel modo) o è sufficiente che sia vero per noi, per la nostra esistenza?
Il grande malinteso che è sempre esistito tra scienza e fede è proprio in questa confusione che viene fatta tra “reale” e “vero”. Non capisco come personaggi di grande spessore intellettuale sia di scienza che di fede abbiano sempre equivocato questi due termini senza tenerli separati, facendo sorgere incompatibilità tra le due discipline che non esistono e che non sono mai esistite. L’incompatibilità nasce dal dover considerare come realtà storicamente avvenuta i vari racconti della bibbia che invece hanno solo un contenuto di verità esistenziale. La realtà può essere anche “scoperta” cioè portata alla luce, come qualcosa di preesistente che attraverso la ricerca viene ad emergere, mentre la verità viene stabilita o per rivelazione da testi antichi o per ispirazione di menti illuminate. La scienza si occupa di “realtà”, di modellizzazione matematica dello sperimentabile e di progresso di conoscenza e di tecnologia di tutto ciò che accade. Essa non può inferire sulla “verità” dell’uomo, che è invece di carattere esistenziale e ha a che fare con la soluzione dei conflitti tra gli uomini e con la conquista della vittoria sulla sofferenza e sulla morte. Viceversa, la “verità” non può interferire con il progresso della scienza che ha regole sue proprie di sperimentabilità e riproducibilità.
L’uomo, al fondo della sua pienezza, ha bisogno di entrambe queste fattispecie: la realtà come approccio razionale alla vita e la verità come approccio esistenziale all’eternità. Esse sono come le due ali di un uccello, ciascuna indispensabile per spiccare il volo, come dice Giovanni Paolo II nell’incipit dell’enciclica su scienza e fede.
Il punto chiave di tutta la questione, e dei malintesi enormi che ne conseguono, è di definire quale sia il linguaggio tra creatore e creatura. Molti sostengono che il creatore parla nei “fatti che ti accadono”. Così un improvviso terremoto che distrugga una città viene interpretato come la risposta del creatore ai peccati degli uomini.
Questa impropria e inammissibile invasione da parte della “verità” nei confronti della “realtà” fa il paio, invertendo i termini, con l’altrettanto grave confusione interpretativa di realtà storica di frasi della bibbia in materia, ad esempio, di origine del mondo e dell’uomo. È evidente che la confusione tra realtà e verità è ancora presente e l’errore commesso è lo stesso: qui si parte da una realtà storica e si interpreta come fosse una verità esistenziale e prima il viceversa. Realtà e verità sono disgiunte e non sono consentite sovrapposizioni e reciproche mescolanze interpretative. Il creatore ci parla nella verità delle nostre coscienze esistenziali e lascia la realtà in totale autonomia.
Le incompatibilità, di cui spesso si sente parlare, tra chi appartiene al mondo della “spiritualità” e chi appartiene al mondo della “razionalità” non hanno motivo di esistere. Questi due mondi non esistono affatto ma ne esiste uno soltanto e si chiama “umanità” che le comprende entrambe e che ci fa concepire sia la enormità e bellezza dell’universo conosciuto come frutto del potere dell’indagine razionale e nel contempo ci permette di riconoscerci bisognosi di affetto e speranza alla fine della vita sulle soglie del mistero e dell’oscurità.
Nicola Sparvieri
Foto © Artribune