Skip to main content

Reinaldo Arenas e la gioventù cubana
…hasta la victoria siempre (!-?)

Quando ha cessato la giovinezza di essere una grande avventura?

Reinaldo Arenas e la gioventù cubana


un “Sogno Rivoluzionario” analizzato da FRANCESCO RICCI *

In Prima che sia notte Reinaldo Arenas, nato a Cuba nel 1943 e morto suicida a New York nel 1990, ripercorre la sua esistenza, segnata, al pari di tanti suoi connazionali, dalla rivoluzione di Fidel Castro. All’inizio l’adesione dello scrittore al nuovo regime è forte e convinta, anche se il nonno gli ha sempre detto che il comunismo rappresenta la fine della civiltà.

All’Avana, nel luglio 1960, sfila con migliaia di altri giovani nella piazza della Rivoluzione “applaudendo, urlando gli slogan tipici”, e poi la sera riceve la visita di Fidel Castro all’Hotel Habana Libre, visita che lo riempie di gioia: “Eravamo tutti entusiasmati dalla sua presenza: era un onore che il Comandante in capo venisse a trovare noi, semplici contabili agricoli”.
Reinaldo Arenas è parte dell’avanguardia della Rivoluzione – ne è consapevole –, e avverte perciò una grande responsabilità – e ciò lo inorgoglisce. Lasciata l’Avana, fa ritorno al villaggio di Holguín, quindi raggiunge coi suoi compagni la Sierra Maestra, dove si trova un accampamento nel quale vengono formati i maestri. È allegro, è pieno di speranza, perché avverte che lui e la sua generazione hanno finalmente un compito al quale dedicarsi, compito esaltante, compito carico di significato: “Indiscutibilmente avevamo trovato il senso della vita, avevamo un piano, un progetto, un futuro, belle amicizie, grandi promesse, un’opera immensa da realizzare”.
Gli anni successivi avrebbero dolorosamente insegnato a Reinaldo Arenas che a Cuba la vita può essere molto difficile per uno scrittore dissenziente e omosessuale.

Personalmente ritengo che nessun adolescente o giovane del Terzo Millennio si riconosca più nelle parole del grande scrittore cubano. Una conferma, in tal senso, ci viene offerta dalle lettere che Umberto Galimberti ha raccolto nel volume La parola ai giovani, uscito nel 2018 per i tipi di Feltrinelli. Ciò che i ragazzi e le ragazze lamentano, infatti, è proprio l’assenza per loro di progetti e di prospettive, il prevalere di relazioni a bassa intensità, il trovarsi a vivere in un ambiente deserto di senso: il presente è arido, l’avvenire non si lascia né scorgere né indovinare.
Questa perdita del futuro, passato nel giro di pochi decenni da promessa a minaccia, ha una spiegazione, a prima vista, di carattere generale. Il cambiamento climatico, infatti, costituisce un pericolo non soltanto per l’ambiente e per la salute dell’uomo, ma anche per la sopravvivenza di quest’ultimo, come dimostra l’alto numero di vittime causato dagli eventi estremi. E ciò vale in ogni angolo del mondo e per qualunque persona, a prescindere dall’età e dalla nazionalità. Insomma, non è una questione di età o di latitudine.
Sotto questo aspetto, la situazione attuale ricorda quella venutasi a creare con la fabbricazione della bomba atomica, “il primo fatto”, come ha scritto Carla Benedetti, “che ha fatto vacillare l’illusione della posterità”.
Tale rischio nucleare, a partire dagli anni Cinquanta, non è mai venuto meno, e nel frattempo si è aggiunto anche il rischio ambientale (acidificazione degli oceani e aumento della temperatura in primo luogo), che ha reso ancora più concreta la possibilità di un’estinzione di specie. Nessuna sorpresa, perciò, se i progetti dei nostri giovani possiedono un respiro e una durata brevi: il pensiero della (possibile) fine imminente toglie forza alla loro voglia di futuro.

Vero è che la minaccia nucleare, che spinse Elsa Morante a leggere nel 1965 la conferenza Pro o contro la bomba atomica (al Teatro Carignano di Torino, al Teatro Manzoni di Milano, al Teatro Eliseo di Roma), si collocava in un tempo che non aveva ancora visto del tutto scomparire quelle che il filosofo Jean-Francois Lyotard nel saggio intitolato La condizione postmoderna (1979) ha chiamato grandi narrazioni o meta-narrazioni, vale a dire, oltre alla religione cristiana, il meta-racconto illuminista (e positivista), il meta-racconto idealista, il meta-racconto marxista.
Ad accomunare queste grandi credenze era la convinzione che la storia proceda in maniera lineare e l’ottimismo col quale si guarda al futuro. Insieme, questi due fattori hanno potuto contenere, almeno in parte, la forza, inibente ogni fiducia nell’avvenire, che l’idea di una possibile catastrofe nucleare inevitabilmente generava e alimentava.
Dopo la fine della credenza nelle grandi narrazioni, però, la preoccupazione che il pensiero del domani suscita – a causa soprattutto, come si è visto, della crisi ambientale, ma anche della sovrappopolazione del pianeta, del consumo frenetico delle limitate risorse, dei numerosi conflitti in atto – non rinviene né argini né limitazioni di sorta.

Il cambiamento di segno del futuro, per riprendere l’espressione impiegata da Miguel Benasayag e Gérard Schmit in L’epoca delle passioni tristi, si è pienamente compiuto (il futuro-promessa è diventato futuro-minaccia), e non c’è più un pensiero forte, come potevano esserlo il comunismo o la religione cristiana, capace di garantire significato e direzione all’esistenza di milioni di persone. Il senso latita, l’orientamento difetta, quel senso e quell’orientamento del quale “la globalizzazione che rende tutto uguale”, osserva correttamente Byung-Chul Han in Perché oggi non è possibile una rivoluzione, contribuisce a spogliarci ulteriormente.

La verità è che, dopo la trascendenza religiosa, con la sua fede nel paradiso, abbiamo preso congedo anche dalla trascendenza immanente, con la sua fede in un futuro migliore. Non solo oramai viene negata l’esistenza di uno spazio altro, rispetto a quello dove noi trascorriamo e consumiamo i nostri giorni di vita, ma anche di un tempo diverso, rispetto al presente che ci stringe d’assedio.
Non c’è passare, non c’è passare oltre, non c’è oltrepassare. Nessuno slancio, nessun tendere.
La verticalità è stata cancellata e l’orizzontalità è scaduta a mera addizione di segmenti che non lasciano riconoscere la retta alla quale appartengono, dal momento che l’esistenza di suddetta retta è o messa in dubbio o è negata.
Come possono, allora, i nostri giovani avere un progetto o una prospettiva che somiglino, citando Reinaldo Arenas, a “un’opera immensa da realizzare”? Progetto e prospettiva, infatti, come rivelano a sufficienza le rispettive etimologie, sono parole-ponte, parole, cioè, che gettano un ponte tra la dimensione presente e la dimensione futura, tra ciò che io sono e faccio e ciò che io ho intenzione di essere e di fare in avvenire.

Chi le impiega, guarda in avanti e guarda lontano. Chi le usa, ha fiducia, se non fede, che un avanti e un lontano esistano, non siano menzogne della mente o illusioni del cuore.
Ma quando tale fiducia viene meno, nessuno, neppure i giovani, sono più in grado di formulare progetti o possedere prospettive di un qualche respiro. E più forte, se non intollerabile, diviene allora il pensiero che si avvicina il tempo, nel quale la Terra diventerà inabitabile per gli uomini e per molte specie viventi.

 

*FRANCESCO RICCI,  Fiorentino, classe 1965, vive a Siena
ove è docente di letteratura italiana e latina, nonché autore di
numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al
Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento.      

Condividi: