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Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri

Le disuguaglianze sociali ed economiche sono drammaticamente aumentate negli ultimi decenni e le disparità di reddito sono addirittura tornate ai livelli di un secolo fa. Le differenze tra poveri e ricchi rimangono alte anche a livello globale, nonostante la rapida crescita dei principali paesi in via di sviluppo, come la Cina e l’India. L’opinione pubblica è sconcertata nell’apprendere che oggi la ricchezza posseduta dall’1% più ricco della popolazione mondiale è uguale a quella del resto dell’umanità. I fattori che hanno portato a questa palese ingiustizia sfuggono all’opinione pubblica: Cosa provoca questo palese errore? Si tratta di un errore nella gestione della cosa pubblica o è una volontà calcolata e perseguita?

Si sostiene spesso che la disuguaglianza è in gran parte la conseguenza di forze internazionali o globali che sono fuori dal controllo degli Stati nazionali. In effetti, un secolo fa, le cause delle disuguaglianze avevano le proprie radici all’interno delle economie nazionali, mentre oggi esse tendono a essere soprattutto espressione di processi globali: i grandi flussi internazionali di capitali, beni, lavoratori e conoscenza, l’espansione della finanza, i livelli salariali che sono condizionati dai bassi salari dei paesi emergenti.

La capacità delle politiche nazionali di affrontare questi cambiamenti è fortemente diminuita e gli Stati sembrano accettare la propria impotenza, rinunciando a contrastare la disuguaglianza e le sue conseguenze più inaccettabili. Per di più, non è emersa nessuna autorità politica internazionale con il potere di affrontare e regolare gli effetti dell’aumento delle disparità a livello globale.

La disuguaglianza del XX secolo ha avuto come principali motori la transizione dalla società agricola a quella industriale, la conseguente divisione in classi e i rapporti di forza che stabilivano la distribuzione del reddito tra capitale da un lato e lavoro dall’altro. Oggi la finanza è una forza dominante nella maggior parte delle economie e ridefinisce il processo di accumulazione di capitale e la dinamica della distribuzione di reddito e ricchezza. Un secolo fa la divisione in classi della società spiegava gran parte delle disuguaglianze di reddito, status e opportunità. Chi nasceva in una famiglia benestante aveva più possibilità di alti redditi rispetto a quanti nascevano da famiglie contadine o operaie.

Le vittorie elettorali di Margaret Thatcher in Gran Bretagna nel 1979 e di Ronald Reagan negli Stati Uniti nel 1980 hanno dato l’avvio all’età del neoliberismo che ha significativamente aumentato le disuguaglianze sociali. Nei paesi avanzati il capitale ha provocato uno spostamento verso la finanza, che offriva nuove possibilità di accumulazione di denaro con un enorme potenziale per la crescita dei valori finanziari e per la speculazione di breve periodo. Un decennio dopo, nei paesi avanzati la globalizzazione e la rapida diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno trasformato i sistemi di produzione e i flussi d’investimento, riducendo la produzione interna, distruggendo posti di lavoro, minando il potere dei sindacati, abbassando i salari. Il nuovo potere del capitale sul lavoro ha portato dagli anni ottanta a oggi a uno spostamento di circa il 10% di Prodotto Interno Lordo dalla quota dei salari a quella del capitale, nei paesi avanzati. Questo spostamento ha causato l’aumento della disuguaglianza di ricchezza causata dal crescente valore delle attività finanziarie e immobiliari e l’aumento senza precedenti dei redditi dei “super ricchi”, dovuti ai compensi inauditi dei manager e di altre categorie di privilegiati.

Un altro meccanismo in grado di spiegare l’aumento della forbice tra ricchi e poveri è la mentalità individualista dei lavoratori. La tendenza di mettere i lavoratori in concorrenza l’uno con l’altro per stipendi e carriera, ha portato a una polarizzazione delle competenze e delle qualifiche, ha spinto i liberi professionisti e i lavoratori indipendenti in mercati sempre più concorrenziali. Ma non è solo una questione di redditi. Le identità sociali sono diventate più frammentate, le strutture di classe sono meno definite, e sono emerse nuove divisioni. L’enfasi neoliberale sull’individuo, le sue scelte e le sue opportunità, ha influenzato il comportamento sociale anche tra i lavoratori. I meccanismi tradizionali che creavano identità collettive e solidarietà, la sindacalizzazione dei dipendenti di un’impresa o di un settore, l’attivismo locale, le mobilitazioni sociali, sono stati indeboliti da un’individualizzazione che può essere vista come un ulteriore e più profondo segno del nuovo potere del capitale sul lavoro.

Per ultimo, ma non meno importante di altri, vi è poi il minor peso che ha assunto la politica e le forme rappresentative con le quali il cittadino e lo stato possono partecipare alle governances sociali e aziendali. Fino agli anni Settanta nei paesi avanzati, lo Stato, attraverso una vasta gamma di attività e politiche, ha svolto un ruolo fondamentale nella riduzione delle disuguaglianze. La distribuzione del reddito era governata da politiche complessive che riguardavano i redditi, la tassazione, il controllo degli affitti, la regolamentazione della finanza e dei flussi di capitale. Le disparità che emergevano dai meccanismi di mercato erano contenute da un sistema di tassazione fortemente progressivo, da imposte specifiche sui beni di lusso, da elevate imposte di successione che colpivano le eredità, da un’ampia fornitura di servizi pubblici fuori dal mercato, dal sostegno al reddito dei più poveri.

Dagli anni ottanta in poi quasi tutte queste politiche sono state cancellate o sostanzialmente indebolite. Le politiche hanno preso la strada della liberalizzazione dei mercati e della deregolamentazione. L’impresa privata è stata incoraggiata, la finanza privata è stata favorita ancora di più, la regolamentazione è stata ridotta, molte attività pubbliche sono state privatizzate. Quest’orizzonte neoliberale si è progressivamente affermato in tutti i paesi avanzati.

In molti paesi europei l’intervento statale riguardava anche le attività economiche, con le imprese pubbliche che gestivano infrastrutture, acqua, energia, comunicazioni, e operavano in una serie di settori chiave, dall’acciaio alla chimica e all’elettronica. Quando le attività economiche vengono svolte da organizzazioni di proprietà pubblica i profitti o non esistono o costitui­scono entrate per lo Stato, riducendo la tassazione; la loro attività non porta ad accrescere la quota del capitale nella distribuzione del reddito o l’importanza della finanza. La gestione da parte dello Stato deve puntare all’efficienza e all’efficacia, non al massimo profitto e ai lavoratori delle organizzazioni di proprietà pubblica sono di solito concessi salari più elevati per ore lavorate, maggiori diritti sindacali con contratti di lavoro che tendono ad avere effetti egualitari. Nel caso delle imprese pubbliche che operano accanto a imprese private nello stesso settore, questo ha un effetto anche sui salari e sulle condizioni di lavoro delle aziende private, nonché sulla possibilità di evitare pratiche collusive, eccessivo potere di mercato e aumenti dei prezzi.

In conclusione possiamo affermare che la causa più importante della deriva sociale ed economica che a sua volta è la responsabile principale delle ingiustizie nella distribuzione dei beni è la mancanza di controllo della politica. Il grande aumento della povertà nelle società economicamente evolute è in gran parte dovuta all’aver lasciato al capitalismo individuale e privato la progressiva gestione dell’economia. La rinuncia della politica a contenere le disuguaglianze ha avuto conseguenze molto gravi: l’aumento della povertà, il degrado sociale, fino alla riduzione dell’aspettativa di vita per i più poveri in molti paesi del mondo.

Nicola Sparvieri

Foto © Valdera Solidale

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Distribuzione delle ricchezze, Disuguaglianze sociali, Neoliberismo