Round Table su “RED LAND” …..
per discutere non solo di “Settima Arte” !
RED LAND:
UN FILM SUI VINCOLI di SANGUE e di SUOLO
DEGNO DEL GIUSTO RIGUARDO
____________una analisi a 360° di Massimiliano Serriello
È trascorso più di un secolo dall’uscita nelle sale del kolossal “Nascita di una Nazione”. L’avvertito pensiero del regista statunitense David Wark Griffith, che nella didascalia introduttiva volle chiarire di non voler offendere con provocazioni od oscenità, rivendicando però il diritto di mostrare il lato oscuro del male per mettere in luce il lato luminoso del Bene, sembra avere insegnato poco, se non niente, agli accidiosi posteri.
Lo dimostrano le polemiche che lo scorso dicembre hanno preceduto la proiezione di “Red Land” a Cinemazero di Pordenone. Eppure, al di là dello spirito di parte, puntare i riflettori sulle zone d’ombra della Storia significa anche mettere in rilievo i vincoli di sangue e di suolo. Con buona pace delle cesoie censorie. Il suolo, infatti, o territorio che dir si voglia, non serve ad appiccare il fuoco di vecchi ed eterni rancori. In essi sono racchiusi – coi segni lasciati dalle scariche dei mitra, con l’innata necessità della sopravvivenza, con l’attitudine ad amare i patrii luoghi come la linearità dell’anima – i timbri poetici della geografia emozionale.
Gli inglesi chiamano il suolo “land”. Per la gioia di chi pensa che l’erba del vicino sia sempre più verde. A voler adottare la prospettiva del cosiddetto name placement, la parola d’origine celtica trova spazio nel titolo di diversi film: da “No Man’s Land” di Danis Tanovic a “Land of Mine” di Martin Zandvliet; da “This Is My Land… Hebron” di Giulia Amati e Stephen Natanson a “Land” di Babak Jalali.
I primi due – incentrati l’uno sulla trincea nella terra di nessuno nell’arco della guerra serbo-bosniaca, l’altro sulle traversie degli imberbi soldati della Hitlerjugend addetti al disinnesco delle bombe piazzate dal Terzo Reich in Danimarca dopo lo sbarco anglo-americano – hanno riscosso un ampio successo di critica e di pubblico.
Invece il documentario diretto in tandem da Amati e Natanson, nonostante la candidatura al David di Donatello del 2010, sta ancora alla finestra. Sotto molti aspetti. L’ennesima proiezione, prevista per mercoledì 6 marzo al cinema Farnese di Roma, testimonia che lo sguardo rivolto alla città originariamente di Abramo (nomen omen), dove ai palestinesi, quantunque di numero assai maggiore, viene negato l’ingresso all’esclusivo quartiere di Shuhada Street, stenta ad appaiare il carattere d’autenticità con la capacità di avvincere. Nondimeno l’effigie della donna all’ombra del carrarmato, il canto muliebre stagliato nella semioscurità e l’asincronia delle contraddizioni appaiono efficaci. Assai meno, tuttavia, della virtù di far riflettere ironicamente e di far ridere amaramente adottata da Eran Ricklis con la commedia agrodolce “Il giardino di limoni” affrontando la questione mediorientale alla stregua di una disputa di condominio.
L’iraniano Jalali, smarrita tra le mura domestiche la schiettezza dell’ispirazione artistica del previo “Frontier Blues”, nel cercare di accrescere il processo d’identificazione con la famiglia dei Denectclaw nella riserva indiana di Prairie Wolf, finisce col trascinarci in una noia di piombo. Il western revisionista, caldeggiato negli anni della discutibile fantasia al potere sia dalla frangia reazionaria sia dai contestatori, avversi al governo yankee, mostra ora la corda. Specie perché i motivi d’inquietudine risultano ridotti al lumicino senza la componente dell’estrema durezza dell’habitat difeso dagli impavidi nativi con un armamento inferiore, rispetto agli scorretti coloni, e una tempra morale ben superiore.
Ad andare in profondità è, quindi, solo il bistrattato “Red Land”. Non deve trarre in inganno lo share ottenuto dal lesto passaggio tv di febbraio in occasione del Giorno del Ricordo. Il boicottaggio ricevuto con l’approdo nel mercato primario di sbocco svela l’intrinseca volontà collettiva di rendere unicamente onore alla Giornata della Memoria in ricordo dell’Olocausto degli ebrei. Le pochissime copie richieste dagli esercenti e i tabù imposti da coloro che cianciano di libertà, per poi negare il principio che la anima, divengono comunque una questione di lana caprina dinanzi ai pregi artistici ed etici. Maximiliano Hernando Bruno dietro la cinepresa rimedia all’ordinaria psicotecnica recitativa, impiegata nel ruolo del disertore schiavo delle rivalse altrui, con l’assoluta schiettezza del fulgido ingegno creativo.
Togliendo al visibile per aggiungere all’invisibile, il lavoro di sottrazione veicola i movimenti di macchina da destra a sinistra. Tutti noi, a eccezione del popolo di Abramo, scriviamo nella direzione opposta ed ergo l’inversione tiene sui carboni ardenti.
Sin dall’incipit ogni sibilo, ogni rumore, persino sordo, ancor prima del crepitio degli spari, squarcia l’armonia di Santa Domenica di Visinada. La fierezza delle radici, che risalgono ai tempi della Repubblica di Venezia, paga dazio alla sete di rivalsa degli inferociti titini. Più che’ negli occhi cerulei di Franco Nero, nei panni del docente intento ad abbracciare l’umana pietas, il teatro a cielo aperto dell’orrido eccidio seguito dall’iniquo esodo acquista notevole spessore tramite le rughe d’espressione di Geraldine Chaplin, nel ruolo dell’ex bimba delusa Licia Cossetto.
Il momento in cui la sorella Norma, laureanda all’Università di Padova, prende commiato in chiave onirica dal corpo martoriato dalle sevizie degli stupratori slavi, per guardare dall’esterno con ferma lucidità all’infamia perpetrata ai suoi danni, sulla medesima falsariga con la quale il piccolo Giuseppe Di Matteo esce in “Sicilian Ghost Story” dalla prigionia dell’umile carne svilita dagli aguzzini mafiosi, ripaga appieno dei limiti puramente formali sparsi qua e là: le programmatiche inquadrature dal basso verso l’alto, al servizio dell’inevitabile vulnerabilità, le risapute carrellate circolari, a sostegno dell’idea della cospirazione, e il bisogno di servirsi dell’idonea gamma cromatica per contrapporre la bontà al diktat delle tenebre.
Il legame della martire istriana con la terra natia, resa rossa dalla bauxite, conforme all’ordine naturale delle cose, a onta degli empi assassini, con al collo i fazzoletti dello stesso colore, che la gettarano insieme ad altri innocenti negli inghiottitoi della regione tinta di sangue, merita il giusto riguardo.
Merita pure riguardo il senso di sbigottimento dovuto all’armistizio dell’8 settembre. Riguardo per un modo di esibirne gli strascichi immediati agli antipodi con la sagacia sarcastica in “Tutti a casa” di Alberto Sordi, memorabile nei panni del tenente Innocenzi, convinto, lì per lì, che i tedeschi si fossero alleati con gli americani. Riguardo per il Giorno del Ricordo delle foibe. Per capire che non è una ricorrenza di secondo piano ma una commemorazione sacrosanta, colma di note intimiste, di false piste ed emozioni vere.