A Milazzo dal 9 luglio a Palazzo D’Amico
Bruno Cicognani, uno scrittore trascurato
Riscoprire l’Italia e gli Italiani
Un titolo recentemente proposto dall’editore Polistampa è un’opera di Bruno Cicognani, scrittore italiano assurto agli onori della stampa all’inizio del 1900, poi bruscamente lasciato nel dimenticatoio. Ma l’editore suddetto ha la sagacia di andare a ricercare le eccellenze nostre, ed ecco qui fresco di uscita “La Velia”, romanzo dai sapori forti, che quando si offrì la prima volta fece scandalo.
L’appiattimento cantilenante e macchiato di indifferenza di altri scrittori esecutori di prodotti di mercato similstranieri o consono al pensiero unico da disco rotto hanno sgomitato questo piccolo e trascinante capolavoro, questo vivido ritratto della borghesia, ma anche dell’umanità imperfetta e generosa di un’Italia né schiava, né eroina, ma immensamente reale .
Velia è una giovane povera piena di iniziativa, che riesce in grazia delle sue doti prima ingenue, poi coscienti, a salire la china del benessere per poi tutto abbandonare per amore, un amore inatteso, diverso dall’incidentale al quale si era adeguata per superficialità o desiderio di ricchezza. E’ una ragazza che appare calcolatrice ed in parte lo è, ma nel suo nucleo è tesa a trovare se stessa ed a completare quel sussurro interno che la spinge al di là del limite allora stabilito in voce piena fisica e spirituale, improvvisamente scoperta osservando un gesto di tenerezza fra una madre e suo figlio.
Il libro contiene tutti i sentimenti possibili e plausibili perchè di ognuno si trova ragione, e contiene personaggi che potrebbero anche viverci daccanto, pensati più per se stessi che per l’immaginazione dell’autore. Il filo conduttore è il canto: quello di una natura libera e pulita, opera d’arte anche nel gelo o nella nebbia, quello dell’uccello che lega l’espressione della sua passione all’infinito nel quale si libra, quello del sentimento di un amore nuovo risvegliato dall’inconscio che porta via come il vento di maggio e coinvolge anche gli altri come stadi preparatori di questa trasmutazione.
Già qua e là preparato nei variegati racconti dello stesso Bruno Cicognani sempre editi da Polistampa, Velia rappresenta il culmine della sua maestria inventiva e linguistica, per le velature di quadri ambientali, nelle pennellate a corpo per evidenziare reazioni e razionalizzazioni di avvenimenti, per i complessi ariosi di atteggiamenti ed atti che fanno cornice alla creazione delle singole figure. Lasciamo ai ricercatori paragoni e paralleli con altri, che, come antecedenti o collaterali indubbiamente potranno alla lontana ricordare la genesi tutta italiana dell’opera e del suo autore, e per il quale c’è da andare orgogliosi: questo è un romanzo da tenere con sé, Cicognani è un autore da ammirare come fino agli anni settanta lo è stato, quando ancora si era colti e si sapeva lasciarsi colpire, ferire, abbracciare da ogni singola parola del nostro volgare e, citando Florenskji, dalla sua magia. Il libro “La Velia” ha uno scopo incantevole, quello di dimostrare che, bello o brutto, felice o infelice, carnale e spirituale, l’amore è il vero padrone di ogni vita, il Mago bianco che fa trasmutare, è la guida talvolta mai riconosciuta di ogni percorso, è l’umile e colorata viottola di campagna che passo dopo passo ci fa rivelare grandi perchè umanamente figli di qualcosa d’immenso.
Marilù Giannone
L’opera è curata dalla Prof. Maria Panetta, dell’Università Roma Tre per la Letteratura italiana contemporanea.
Bruno Cicognani, di famiglia filocarbonara ed anti tirannica, è nato a Firenze il 1879 ed è morto quasi centenario, dopo aver scritto moltissimo: oltre a La Velia, che è considerato il suo capolavoro, si ricordano di lui “Villa Beatrice”, ” Il soldato Pendino”, “La Nuora” ed una buona quantità di racconti ed opere teatrali, la più nota delle quali è “Yo y el Rey” che molti critici per lo stile avvicinano alle opere di Claudel. In realtà, dopo il primo incontro con il mondo della critica, che non lo comprese subito, è evidente l’impronta neorealistica del Cicognani, con un’aderenza alla fede cristiana espressa senza quel misticismo spesso noioso di autori naturalisti italiani e francesi, e con migliori e più ricchi esiti narrativi ed attenti al carattere dei suoi personaggi. Nella sua vita Cicognani ha soprattutto amato i classici ed ha studiato scienze mediche con particolare riguardo alla psichiatria, anche se la scelta finale dei suoi studi è stata quella delle Scienze Sociali. Un difetto che gli si può attribuire è quello del regionalismo, se non si nota che in quel momento era quasi un passo dovuto, una moda, come lo fu di Verga o di Capuana. Secondo il Cecchi Cicognani dà completa visione della sua eccellenza quando si affida al mondo infantile ed ai ricordi che, generati dal puro sentimento per i suoi soggetti, esprimono con più pienezza le narrazioni, indubbiamente spesso fantasiose e composte con grande semplicità, che sfiora il lirismo. (L’età favolosa)
Osservatore del suo tempo, Cicognani fu amico di Papini, Cecchi, Pea, ed ammirò moltissimo Carducci così come Marinetti, D’Annunzio, Pirandello: uno scrittore, dunque, che come questi costruì il mondo italiano fino agli anni ’70 dello scorso secolo senza l’intento psicologicamente decostruttivo di un Moravia e senza la circoscrizione di altri scrittori per il mondo minimalista incalzante.
M:G:
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Nella Lingua è riposta la Storia. Quando diciamo “succede un quarantotto” evochiamo un tempo in fondo non molto lontano da noi, animato da sentimenti di Unità e Libertà.
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L’ECONOMIA DEL CINEMA ANALIZZATA CON UGO DI TULLIO:
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La concretezza è una bestia nera solo per chi usa le scorciatoie del cervello nella convinzione di preservare il carattere d’ingegno creativo. È curioso che dietro la difesa a spada tratta della cultura con la “C” maiuscola si celi un tentativo di evitare dispendi di fosforo. Perché è certo più comodo fare distinzioni tra film d’autore e film commerciali che affinare il senso operativo di messa in opera ed erogazione in seno al cinema. Lo sa bene il Prof. Ugo Di Tullio, Docente di Organizzazione e legislazione dello spettacolo teatrale e cinematografico, all’Università di Pisa, ed esperto di Economia e gestione dei beni culturali, al punto da manifestare il suo dissenso nei riguardi delle sterili dottrine manichee col sorriso sulle labbra.
Francesco Panico: l’Arte non guarda alle classi sociali
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Il sottobosco artistico di Roma è immensamente ricco, tuttavia lo si nota per caso, dopo essere usciti magari da una inaugurazione di mostra di qualche nome ultrareclamizzato, perplessi e talvolta senza un sentimento preciso. I critici si danno da fare con paragoni stellari, parole che ripescano dalla inventiva dannunziana, allusioni politico-sociali ed altre chiavi, anche giuste, per un linguaggio che appare sempre più rarefatto e identitariamente labile.
Una Stonehenge in Russia: è ora di riscrivere la Storia
SU INPUT E SEGNALAZIONE di “ERETICAMENTE”,
è stata ripresa una ricerca a firma di Fabio Calabrese
Non mancano nell’area scandinava costruzioni megalitiche come il dolmen di Lyo, conosciuto come “la pietra del corvo”, o i tumuli di Raevehoj nel Sjelland meridionale. Sono comuni poi gli allineamenti di menhir disposti in modo da ricordare la prua di un’imbarcazione, una tipologia che si ritrova dal neolitico all’età vichinga, segno evidente del fatto che le genti scandinave hanno dovuto da tempo immemorabile cercare sul mare la loro sopravvivenza.
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Il più notevole di tutti è però probabilmente il grande tumulo di Kivik (di 75 metri di diametro) nella Svezia meridionale, una costruzione che ricorda da vicino le tombe micenee e che contiene al suo interno un grande sarcofago formato da lastre graffite con incisioni che somigliano a elaborati ideogrammi. Un fenomeno riportato alla luce solo negli ultimi decenni e praticamente sconosciuto al grosso pubblico, è il megalitismo nell’Europa orientale, in Russia e nei territori dell’ex Unione Sovietica.
Comincio citando a tale proposito la scoperta meno recente, che per la verità si situa geograficamente fuori dall’area europea, in quella che, almeno stando agli atlanti, è decisamente Asia, e tuttavia sembra collegarsi piuttosto al megalitismo russo e dell’Europa orientale che ad altro. Mi riferisco a un post apparso su “Antikytera” nel maggio 2003, che parla della scoperta di una “Stonehenge tagika”, una sorta di osservatorio astronomico d’alta quota rinvenuto a 4.000 metri tra le montagne del Tagikistan:
“Nella regione del Pamir, nell’area orientale del Tagikistan, un gruppo di archeologi ha incontrato a 3850 metri d’altezza un sorprendente complesso monumentale, risalente al 1000 a. C. Potrebbe trattarsi di un santuario solare o di un osservatorio astronomico, eretto in un luogo dalla bellezza naturale stupefacente, la valle del fiume Shorol, dove, fra chilometri di catene montuose, svettano alcune delle cime più alte della Terra.
Si tratta di giganteschi blocchi di pietra che si uniscono a rappresentare rettangoli, frecce e figure falliche dal significato ancora misterioso, ma che rivoluzionano tutte le nostre conoscenze sull’Asia centrale preistorica, introducendo nuovi interrogativi sulle nozioni di astronomia in possesso dei popoli che la abitavano.
Durante alcuni scavi precedenti erano già state rinvenute alcune sepolture, che testimoniano la presenza, in quest’area di montagne impervie, di alcune tribù nomadi d’origine iraniana, vissute qui fra l’VIII e il IX secolo a. C. E questa decina, o poco più, di imponenti massi rappresentano figure probabilmente sacre a quei popoli.
Secondo gli esperti dell’Istituto di Storia e Archeologia dell’Accademia Nazionale di Scienze del Tagikistan, a cui spetta il merito della scoperta, la stupefacente costruzione potrebbe essere opera di una speciale casta di sacerdoti, salita a quell’altitudine per creare un proprio spazio magico, con lo scopo d’osservare e venerare la principale divinità, il Sole. Alcuni astronomi, però, azzardano un’altra interpretazione: secondo i loro calcoli uno degli assi di pietra tracciati può determinare il sorgere del sole durante i solstizi d’estate e d’inverno, mentre un altro asse varrebbe per gli equinozi di primavera ed autunno”.
Ma tutto ciò è ancora poco, perché qualche mese più tardi, nel gennaio 2004 è arrivata la notizia del ritrovamento di una vera e propria Stonehenge russa a Ryazan nella Russia centrale. Il post, ripreso da “La porta del tempo” è il seguente:
“La Russia ha ora la sua stonehenge. Nell’estate, una struttura megalitica di 4.000 anni or sono è stata scoperta al sito di Spasskaya Luka, nella regione di Ryazan della Russia centrale. Questa struttura, che, gli archeologi ritengono fu eretta come santuario, si trova su una collina che sovrasta la confluenza dei fiumi Oka e Pron. L´area circostante è sempre stata vista come un´ “enciclopedia archeologica”, un caleidoscopio di culture che spaziano dal Paleolitico Superiore al Medio Evo.
“Se esaminiamo questo sito archeologico, per come rappresentato su una mappa, vedremmo un circolo di 7 metri di diametro, segnato da piloni, spessi mezzo metro ed alla stessa distanza l´uno dall’altro” ha illustrato il capo della spedizione Ilya Akhmedov, che lavora per il Dipartimento Storico per la Storia ed i Monumenti Archeologici del Museo di Mosca. “Vi è un grande spazio rettangolare ed un pilone nel centro del circolo. I piloni di legno non sono sopravvissuti, naturalmente, ma i grandi fori dove una volta stavano infissi possono essere visti chiaramente. Lungo i bordi del sito vi sono due fori ulteriori. Originariamente potrebbero anche essere stati quattro, ma la riva del fiume è stata parzialmente distrutta da una frana, e parte del sito è stato sicuramente danneggiata”.
Un altro foro con un pilone è stato dissotterrato sette metri ad est del sito. E qui ve n´è anche uno a sud, che fu scoperto tre anni or sono. “Con tutta probabilità, vi è un secondo raggio di piloni che circondava il tempio, ad una dozzina di metri di distanza” ha dichiarato Akhmedov.
Le due coppie di piloni formano un passaggio, che, se osservata dal centro, offre in estate una spettacolare visione del tramonto. Un altro pilone, dietro il recinto circolare, punta al sole nascente. La struttura del monumento ha portato gli studiosi ad avanzare ipotesi circa il suo scopo astronomico. Gli oggetti trovati al sito devono essere stati elaborati con un rituale religioso in mente.
La dimensione dei fori varia da 44X46 a 75X56 cm. In uno dei fori centrali è stato trovato un piccolo contenitore di ceramica. E´ finemente decorato con zigzag, che ricordano i raggi del sole, e con linee arricciate, che simbolizzano l´acqua. Gli archeologi specializzati nell’Età del Bronzo, hanno riconosciuto i manufatti come databili al “loro periodo”. Visivamente, ricordano oggetti prodotti dalle tribù eurasiatiche meridionali.
Frammenti di ossa lunghe e denti sono stati trovati da uno dei fori all’esterno del santuario. Si ritengono essere i resti di un sacrificio. Ma non si può nemmeno escludere il fatto che questi ampi fori fossero utilizzati come seppellimenti. Uno strato di decadimento organico è stato scoperto sul fondo del foro centrale; gli archeologi hanno giustificato la decomposizione delle ossa con alcune proprietà particolari del suolo locale. I resti trovati potrebbero bene essere appartenuti ad un capo-tribù santificato in modo postumo.
Antichi santuari sono spesso situati presso siti sepolcrali. Ciò è attribuibile alla concezione pagana della morte come punto di transizione all’oltretomba. Nell’antico folklore, non solo la vita della natura era considerata un ciclo, ma similmente accadeva della vita umana. I culti lunari e solari erano collegati al culto della fertilità ed indicavano il legame mitologico tra vita e morte”.
Come se tutto ciò non fosse ancora abbastanza, nel 2010 è arrivata la notizia della scoperta di una terza Stonehenge russa o, se vogliamo, di una seconda Stonehenge caucasica; ecco cosa riferisce il post del 15 ottobre:
“Un archeologo russo sostiene di aver trovato i resti ben conservati di una “Stonehenge caucasica” costruita da una sconosciuta civiltà dell’età del bronzo nella Russia meridionale.
Andrey Belinskiy ha detto che insolite formazioni circolari di pietra sono state trovate in uno dei circa 200 insediamenti che risalgono al 1600 a.C. e si trovano sulle montagne del Caucaso del Nord. Gli insediamenti sono stati scoperti negli ultimi cinque anni da una spedizione russo-tedesca diretta dallo stesso Belinskiy.
Egli ha fatto riferimento alla struttura come una “stonehenge caucasica”, facendo un paragone con il celebre monumento nel sud-ovest dell’Inghilterra.
“Ogni struttura di forma insolita potrebbe essere collegata a un calendario”, ha detto Belinskiy all’Associated Press, aggiungendo che le strutture non somigliavano ai fienili e alle case che la sua spedizione aveva trovato in altri insediamenti.
Egli ha detto che gli ornamenti di ceramica rinvenuti nella zona avevano suggerito che i loro creatori avessero familiarità con l’astronomia e calendari. Quella civiltà non ha lasciato documenti scritti e le sue origini etniche non sono note, ha detto.
Valentina Kozenkova, professoressa di storia del Caucaso presso l’Accademia Russa delle Scienze, ha detto che il ritrovamento è “unico e senza pari”. Gli storici russi hanno trovato diverse strutture dell’Età del Bronzo in Russia e in Asia centrale, che erano utilizzate come calendari ed erano circondate da un paesaggio rituale.
Il Caucaso del Nord è una delle regioni etnicamente più differenziate del mondo, situato tra il Mar Caspio e il Mar Nero. La regione ha avuto contatti millenari con le civiltà della Mesopotamia, dell’Asia centrale e dell’Iran.
Belinskiy ha detto che gli abitanti degli insediamenti che sono stati scoperti allevavano bestiame erbivoro ed occupavano aree di montagna ideali per il loro bestiame. “Era la loro nicchia climatica. Essi avevano accuratamente progettato case e recinti ovali per il bestiame, su un altopiano tra il fiume Kuban e l’odierna città di Kislovodsk. Sono stati costruiti secondo uno standard e un sistema di misura precisi, tenendo bene in considerazione il paesaggio e il clima. I montanari più tardi si fusero con la cosiddetta cultura del Kuban, nota per i suoi squisiti manufatti in bronzo e per l’agricoltura estensiva”.
E’ saltata fuori pure una Stonehenge balcanica. Nel 2001 a Kokino in Macedonia erano stati individuati i resti di un antico osservatorio astronomico. Nel maggio 2009, si è scoperto che le rovine risalgono almeno all’Età del Ferro (VII secolo Avanti Cristo). Il 29 maggio Antikitera riporta un post da “La porta del tempo” sull’argomento, di cui è impossibile riportare uno stralcio, costellato com’è di errori di traduzione. Vediamo comunque di riassumere l’essenziale. Su questa scoperta il ministro dei beni culturali macedone, signora Elizabeta Kancheska-Milevska ha riferito al Parlamento Europeo, sul monumento per cui è stata presentata la richiesta dell’inclusione del sito nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO. Il sito, che si trova nella Macedonia nord-orientale a 30 chilometri dalla città di Kumanovo, ha restituito reperti dell’Età del Bronzo, Antico e Medio, fra cui recipienti di ceramica e ruote di mulino. Nei pressi del sito vi sarebbero pietre per monitorare i movimenti del sole.
Naturalmente di tutto ciò, nella stragrande maggioranza dei libri di testo che continuano a raccontarci la favola della Mezzaluna Fertile, non si trova assolutamente nulla, sebbene alcune di queste scoperte non si possano certamente definire troppo recenti; la scoperta del sito macedone di Kokino, ad esempio, come abbiamo visto, risale al 2001, e da allora di acqua sotto i ponti ne è passata un bel po’.
Noi tuttavia possiamo renderci conto del fatto che questa Europa preistorica e antica era molto più civile di quel che ci hanno finora raccontato, e in ciò – diciamolo pure – non è che i nostri antenati italici siano rimasti indietro, ma questo è un aspetto della questione che mi riprometto di sviscerare con la dovuta ampiezza l’anno prossimo.
Fabio Calabrese