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A colloquio con Ivano De Matteo sui dubbi utili dei film d’autore

UN REGISTA LEGATO AL VEICOLO D’INTERROGATIVI CRUCIALI ED ECHI SEMPITERNI DEL CINEMA

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Molti spettatori dai gusti semplici lo identificano nel ruolo di Puma nella serie tv cult Romanzo criminale. Quelli più avvertiti ne avevano applaudita in precedenza la psicotecnica sul grande schermo in Velocità massima di Daniele Vicari. Uno spaccato sulla passione per i motori, preferiti alla sete di cultura, che sta all’adrenalinico ma superficiale Fast & Furious come il capolavoro Mulholland Drive di David Lynch sta all’ammiccante Vanilla Sky.

Al posto degli infiniti testacoda, dei coefficienti spettacolari promossi ad antidoto contro i dispendi di fosforo, lui, Ivano De Matteo, conferisce al tronfio figlio di papà detto “Fischio” un’ampia gamma di sfumature.

Sul set, nelle dispute dialettiche, non certo in punta di forchetta, con il rivale indigente e insolente impersonato dal grintoso Valerio Mastandrea (nella foto insieme a De Matteo), le forme-bandiere del canzonatorio vernacolo romanesco si sono andate ad appaiare all’espressività neolitica del volto cupo. Negato al sorriso. Nelle pause, invece, Ivano declamava con sincero trasporto ed entusiasmo ridanciano i versi dei poeti classici in grado d’illuminarne i tratti somatici, addolcendoli decisamente, spingendo così il resto del cast a esclamare, tra il divertito e lo stupito, che di Fischio se ne erano perse le tracce. 

Ed è la qualità basilare degli attori che sanno entrare nello stream of consciousness dei personaggi incarnati sulla scorta della fiamma interiore che infonde all’arte della recitazione stimoli inesausti. Restando, comunque, legato all’intensa leggerezza che lo esorta a stemperare nell’ironia e nell’autoironia lo scoglio del delirio d’onnipotenza. A metterlo a riparo dalla goffa e dilettevole improntitudine dei colleghi che trascinano la ricerca delle pose maggiormente lusinghiere nella realtà è la sana estrazione proletaria.

Trasteverino di nascita, Ivano proviene da una famiglia numerosa. Il padre operaio, scomparso eppure vivissimo nei suoi ricordi, resta un esempio di rettitudine e di franchezza da anteporre al vacuo frastuono dei falsi modelli. La madre, che lo assiste tra un ciak e l’altro preparando le melanzane per l’intera troupe, è una donna schiva. Che parla con gli occhi. Lo scorso mercoledì, al Cinema delle Province, al termine della proiezione dell’amaro ed emozionante scandaglio introspettivo La bella gente, il suo sguardo emanava quel connubio di affetto e saggezza che fa difetto agli intellettuali. Che, secondo Woody Allen, non l’ultimo degli sprovveduti quindi, non sanno cogliere la verità oggettiva. Perché troppo condizionati dai compiaciuti bla-bla, dalle infeconde discipline di fazione, dall’impasse di menzognere certezze fini solo a se stesse.

Ivano è, comunque, soprattutto un regista schietto ed estroso. La bella gente è il suo fiore all’occhiello. Gli è costato fatica, sudore, soldi. Gli stessi che ha guadagnato li hai reinvestiti a sostegno della propria meravigliosa creatura. Impreziosita dall’omaggio in filigrana nei confronti del nume tutelare per eccellenza Luis Buñuel, che con L’angelo sterminatore e Il fascino discreto della borghesia seppe aprire in chiave surreale l’atroce vaso di vermi celato dagli impostori benpensanti attraverso le menzognere buone maniere.

Non c’è, però, alcuna invidia sociale. Né l’impasse delle idee attinte all’ingegno d’incensati antesignani. Ivano alla forza immaginifica del cortocircuito poetico ed evocativo privilegia, per molti versi, la crudezza oggettiva per fare una franca radiografia dei cali di personalità e delle ipocrisie nascoste dei cosiddetti radical chic. Una categoria con cui condivide alcuni punti di vista. Senza rinunciare all’onestà intellettuale che lo spinge ad ammettere di essere divenuto anch’egli un borghese. Allergico nondimeno alla spocchia intellettuale. L’intralcio assoluto alla fragranza dell’onestà.

Antonio Catania (il rimo a sinistra nella foto col cast), in grado nei panni del sensibile ma scettico capo-famiglia di arricchire La bella gente d’infiniti semitoni, preposti agli accenti sia degli irosi che tirano pugni sui tavoli sia dei saccenti che montano in cattedra a ogni piè sospinto, ha dichiarato ai tempi in cui il film fu proiettato al Teatro Valle Occupato: «Se tutti i registi avessero la passione di De Matteo, il cinema italiano sarebbe salvo». 

Ivano fa spallucce, per evitare gongolando di cadere vittima dell’infruttifero narcisismo. Chi si loda, si sbroda. Così si dice nella Città Eterna. Tuttavia è felice per l’attestazione di stima dell’attore siciliano. Un fior di galantuomo alieno agli elogi a buon mercato che, piuttosto, dice quello che pensa e fa quello che dice. Anche quello che gli dice il regista per evitare di costruire castelli di carta aderendo agli slanci e ai limiti dell’architetto protagonista. Restio a ospitare nella villa delle vacanze, su sprone della moglie impegnata nel sociale, una prostituta costretta a battere. Lì a due passi. Sulla strada che porta al paese limitrofo

Ivano, lungi dal sentirsi depositario della verità assoluta, non lancia strali acuminati contro nessuno, non abbaia alla luna, non si perde nei rivoli dell’accademia, non cerca di parlare inutilmente in chicchera. Va al sodo: vuole insinuare un dubbio utile. Mentre la coppia dei vicini esibisce a bella posta la propria insensibilità, il nucleo familiare dei buonisti cela dietro la nonchalance il compiacimento dell’azione filantropica compiuta mettendosi in casa una di quelle. Che si porta dietro un dolore profondissimo. Ed è come se facesse l’amore per la prima volta quando il primogenito della coppia la seduce. Il desiderio di cambiarle la vita va a carte quarantotto. Fai del male e scordati, fai del male e pensaci. Così recita un vecchio adagio popolare che conosce la gente davvero bella dentro. All’oscuro dei versi della Divina Commedia ma col dono, assai più importante, dell’assennatezza. Ivano ne è ben provvisto insieme alla virtù di servirsi della scrittura per immagini come mezzo investigativo. Lontano dalla spocchia propinata dalle presunte élites alla stregua di un valore speciale.

Ivano non pretende di piacere a tutti, né di emettere sentenze, bensì desidera far riflettere la gente nel buio della sala. Non per toglierle il sonno. Ma per metterla all’erta. Ai prodotti d’evasione, che non procurano grattacapi, replica andando avanti per la sua strada. Irta talora di ostacoli. In apparenza insormontabili.

Le traversie distributive patite da La bella gente, divenuto proprio un film fantasma dall’ingegno più vivo che mai, lo hanno messo a dura prova. Superata grazie alla tigna di chi si batte per le giuste cause. Di chi non è accecato dalle ragioni di partito. Di chi non fa sconti. Di chi sostiene l’importanza di un confronto tra progressisti e conservatori. Tra produttori e distributori. Tra distributori ed esercenti. Purtroppo qualcosa si è inceppato nel trapasso ai limiti dell’incredibile in quattro complicati ed eterogenei contratti di distribuzione che hanno finito per rendere il film fantasma un’opera schiava delle meste circostanze.

L’uscita il 27 agosto 2015 del terzo figlio, La bella gente, è stata quindi una vittoria per il film finanziato dal ministero dei Beni culturali. Con i soldi dei cittadini gettati alle ortiche sennò. La sala commerciale, anche se la parola è disdegnata dai nerd con la testa per aria, costituisce una meta d’approdo diversa, in prassi e in spirito, dai circuiti d’essai. Ivano, d’altronde, è un regista sia da bosco sia da riviera. E i suoi film, così come i suoi due figli, gli somigliano. Da Gli equilibristi a I nostri ragazzi con Rosabell Laurenti Sellers (nella foto) capace in entrambi di far vibrare corde profonde. Nella parte della buona, la prima volta; in quella dell’incosciente, la seconda. I nostri ragazzi, attinto al romanzo La cena del vispo romanziere nonché attore olandese Herman Koch, ha esercitato sulla scorta delle interpolazioni un forte ascendente sul poliedrico regista israeliano Oren Moverman. Autore già di Time Out of Mind. Imperniato sul mondo dei senzatetto. Il suo adattamento per il cinema, The Diner, con star del calibro di Richard Gere e Laura Linney, rappresenta una pietra di paragone piuttosto curiosa per saggiare l’audacia stilistica di due autori agli antipodi ma ugualmente decisi a metterci del proprio. 

 

La padronanza della tecnica non è un motivo di sfoggio. Le sue molle, in quest’ottica, sono le correzioni di fuoco da un soggetto all’altro e i piano-sequenza. Ivano preferisce lo spirito di verità che dal Neorealismo in poi è diventato un fertile avvicendamento ai colpi di gomiti dei colossi. Alcuni dai piedi d’argilla. I film di Ivano hanno, al contrario, i piedi ben piantati per terra. Con le idee chiare e la cognizione che le storie per il grande schermo devono usufruire del linguaggio cinematografico.

Con la dolce metà Valentina Ferlan (nella foto) s’intende a meraviglia. Sulla medesima falsariga di Billy Cristal in Harry ti presento Sally …, ha un punto di vista femminile sulle cose. Una finestra aperta sul mondo che mostra al cinema. Scrivere a quattro mani con lei gli ha permesso di scandagliare composite tematiche. Dalla violenza ai danni delle donne alla precarietà dei legami familiari; dall’angoscia delle separazioni, esacerbate dai problemi finanziari, all’insidia del bullismo che s’impadronisce mostruosamente finanche dei figli in teoria perbene. La questione della difesa personale è invece al centro dell’ultima fatica, Villetta per ospiti

A Ivano piace da sempre combinare la passione per la musica alla costruzione dell’inquadratura e ai movimenti di macchina che trasformano i corridoi degli uffici adibiti ad alcove dalle coppie clandestine in posti tutti da scoprire. Nel bene e nel male. La geografia emozionale, che dà ai luoghi eletti a location ed ergo ad attanti narrativi carichi di senso lo stesso risalto degli attori e delle attrici, se non di più, è un altro suo irrinunciabile pallino.

Il Nord Est dello Stivale, teatro a cielo aperto di una vicenda che nell’incipit richiama alla mente Il cacciatore di Michael Cimino e Jagten di Thomas Vintenberg, sembra averlo ispirato in maniera particolare. La labile morale venatoria, gli echi della commedia all’italiana, l’ordine naturale delle cose, con i foschi presagi degli animali che da dolci bestiole si mutano in predoni secondo i princìpi dell’ineluttabile selezione darwiniana, sfociano in un noir da camera. L’egemonia del lavoro di sottrazione sull’accumulo, in nuce già con I nostri ragazzi, prende definitivamente piede. L’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici cementa la virtù di amalgamare gli affondi amari nella realtà con una partitura ritmica volutamente imperfetta. Che deriva dal jazz. Adorato pure dall’amico Marco Castrichella, proprietario della storica videoteca capitolina Hollywood – Tutto sul cinema, covo per gli amanti dei film d’autore dove Ivano fa un salto di tanto in tanto.

La predilezione per il darwinismo antropologico, che ispirò Otto Preminger, per i rimandi western, per la contaminazione dei generi, per l’indipendenza autoriale di John Cassavetes, estraneo agli scaltri segni d’ammicco privi di passione, traspare da tutti i pori. Definirlo l’erede di questi mostri sacri della cinepresa equivarrebbe a dargli quella che a Roma è chiamata ‘na calla. Il compito dei critici cinematografici consiste, all’opposto, nell’instaurare con gli autori un interscambio fondato sulla sincerità a beneficio del destinatario optimum: lo spettatore/lettore.

A Ivano vanno a genio l’Università della strada, celebrata nel 1° Festival del Cinema di San Lorenzo, e la metonimia. Utilizzata dal Maestro Sergej Michajlovič Ėjzenštejn mostrando gli stivali dei cosacchi nel cult La corazzata Potëmkin. De Matteo la parte per il tutto ne La bella gente è la traduce in pratica con l’inquadratura delle mani della bravissima Viktorija Larčenko . La mancanza di diritto al merito, con la crisi occupazionale imperante nel mondo assai poco dorato del cinema che condanna a lunghi periodi di stasi le interpreti più sensibili, è un dispiacere autentico. Specie perché Ivano conosce le fulgide doti d’immedesimazione di Viktorija sin da quando la diresse, appena sedicenne, in Ultimo stadio. Il suo primo film di finzione, dopo il documentario sugli ultras Prigionieri di una fede.

«Per me i film hanno poca importanza. La gente è più importante».

L’aforisma del compianto John Cassavetes, deux ex machina dell’orgoglioso New American Cinema, parla chiaro e tondo. Ed è la gente, bella in apparenza, brutta alla resa dei conti, imperfetta, umana, che Ivano vuole rappresentare sigillando nell’ordine esistente, in mezzo alle debite varianti umoristiche, un tragico ma utile margine d’enigma. 

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A colloquio con Guido Lombardi sulla fabbrica dei sogni

UN REGISTA AVVEZZO ALL’ AURA CONTEMPLATIVA 
CHE CORRISPONDE ALLE ATTESE DEL GRANDE PUBBLICO

Una  conversazione con Massimiliano Serriello

Il rapporto tra la critica cinematografica e i registi è tutt’altro che semplice. Lo sa bene Guido Lombardi (nella foto), napoletano doc, a dispetto del cognome, che dietro la macchina da presa dà, come si suol dire nell’Urbe, “er fritto”. Ed è perciò irritante sentire liquidare in poche righe il frutto dell’impegno. Non solo del decantato carattere d’ingegno creativo. Utile a stabilire se i recensori abbiano a che fare con un mestierante dedito all’artigianato, magari di classe, ma nulla di più, o con un autore avvezzo ai parametri dell’arte.

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A colloquio con Giuseppe Colombo sugli aspetti concreti della Settima Arte

UN PRODUTTORE CHE PRESERVA LE VARIABILI STRATEGICHE E IL CARATTERE D’INGEGNO CREATIVO DEI FILM DI POESIA

Una conversazione con MASSIMILIANO SERRIELLO 

Mettere in pratica le variabili strategiche contemplate dagli esperti di economia dei beni artistici, in cui rientra a pieno titolo la cosiddetta fabbrica dei sogni, non è certo una passeggiata di salute. Il cinema, come parte integrante sia dell’industria culturale sia del settore dell’entertainment, impostosi all’attenzione dell’intero pianeta grazie alle prospettive finanziarie stabilite oltreoceano, resta un’arma a doppio taglio.

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A colloquio con Maximiliano Hernando Bruno sul valore etico del cinema

LO SLANCIO CREATIVO DEL REGISTA DI RED LAND: UN CAPOLAVORO CHE APRE LE STANZE BUIE E SCALDA IL CUORE

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Aprire le stanze buie della Storia significa mettere in luce le pagine d’atroce violenza ritenute necessarie, quantunque biecamente nascoste, da chi scambia le discipline di fazione e le coscrizioni dottrinali per i diritti inalienabili dell’Uomo.
Farlo attraverso la cosiddetta fabbrica dei sogni, che grazie alla forza significante della scrittura per immagini snuda gli incubi peggiori scorgendo nell’ordine naturale delle cose l’unico antidoto possibile, comporta l’assurdo diniego di quanti, all’epoca della celebre condanna al rogo ai danni di Ultimo tango a Parigi, rivendicavano a gran voce la facoltà da parte del pubblico di giudicare in piena autonomia quali film vedere. 

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A colloquio con Federico Tocci sugli sprazzi di talento della recitazione

IL CIGLIO ASCIUTTO DI UN ATTORE DALLA MOLE MASSICCIA E DALLO SGUARDO CERBIATTESCO

Una conversazione con Massimiliano Serriello

L’intenso contrasto tra la stazza massiccia e l’introversione degli indugi permette a Federico Tocci di andare oltre il limite dei ruoli fissi destinati ai meri caratteristi. All’attore romano, incline, per ragioni di sangue e di suolo, all’acume mordace del vernacolo capitolino, che scorge nello storico disincanto una sorta di cinismo bonario, la densità testuale, conforme ai ruoli più impegnativi, piace. Eccome. È nelle sue corde, d’altronde. Insieme al dono dell’autoironia e alla capacità di trarre linfa dagli insegnamenti appresi sia nella cosiddetta università della strada sia nell’opportuno e inesausto studio della psicotecnica. Senza mai dare per scontate le incombenze di chi deve sudare sette camicie con la regìa per riuscire ad annettere gli slanci imprevisti ma proficui della poiesis, cara ai filosofi, all’indispensabile praxis costituita dalle componenti tecniche.

L’esordio dietro l’ardua macchina  da presa del collega e amico Marco Bocci (nella foto), che lo ha ribattezzato teneramente zio Thor, costituisce la prova dell’umiltà necessaria a favorire, alla superbia delle scene lusinghiere e all’esca del numero di pose fine a se stesse, la sostanza dell’indicativo lavoro di sottrazione. 

L’opera prima, A Tor Bella Monaca non piove mai, lo trova prontissimo nel ruolo di un commissario deciso a non buttare al macero mesi d’appostamento, per rendere pan per focaccia ai delinquenti che riciclano denaro sporco, nonché ad accudire un collega vittima dei disvalori imperanti nel territorio amico attanagliato dagli empi nemici.

Il relativo senso di appartenenza, restio a ricorrere ad alcun tipo di gigionesco soprassalto esibizionistico, non premia solo ed esclusivamente la professionalità di mettersi a disposizione della scrittura per immagini: dimostra, altresì, come un’empatica mimica facciale comunichi tanto quanto le forme geometriche dell’inquadratura e i match-cut visivi intenti ad accrescere l’imprinting di dettagli rivelatori ed ellissi temporali.

L’amicizia che lo lega a Tony Sperandeo, con cui ha condiviso il set della nota serie televisiva La squadra, non c’entra nulla con le reboanti ostentazioni di stima dei fan. La fragranza dell’affetto sincero, frammista ai palpiti dell’ammirazione per il ritratto acuto ed epidermico conferito in qualsivoglia ruolo, ivi compreso l’inquieto sovrintendente Salvatore Sciacca, balza agli occhi. 

L’ispettore Walter Battiston è un po’ il fiore all’occhiello di Federico Tocci. L’accento veneto, la mole robusta, lo sguardo cerbiattesco, la punta di spina del dolore per le frecce di Cupido scoccate a discapito della fortuna, che gli chiede spesso il conto, impreziosiscono gli sprazzi di talento impiegati per fungere da valido pungolo. Allo scopo, in prima battuta, di prendere confidenza con un’inflessione dialettale assai diversa da quella dei cittadini dell’Urbe. Al fine, in seguito, di dare l’acqua della vita all’aspetto spirituale, interiore, dell’onesto sbirro messo a capo delle Volanti. Pronto a cedere di nuovo il posto. Con la purezza di cuore garantita dagli sguardi introversi ed eloquenti.

Al gigionismo del fuoriclasse Sperandeo, che riesce a diventare spietato e compassionevole, sbeffeggiatore e comprensivo, scattoso e mesto, soverchiatore ed empatico, sulla scorta dell’eterogeneo sviluppo dell’intreccio, congiunto all’estrinseca vena teatrale, Federico replica con la farina del suo sacco. La sottorecitazione lo esorta, infatti, ad anteporre i semitoni agli accenti. Anche se pure quelli gli riescono bene.

È, comunque, il trasporto intimo, estraneo all’infruttifero diktat imposto dalle circostanze esteriori determinate dal plot, a preferire i segnali discorsivi, gli accenni, le parole non dette a garantire la fondatezza ad alcune performance altrimenti inclini ai virtuosismi vezzosi. Inutili, sia in prassi sia in spirito, allo studio della vicenda da raccontare ed esibire in tutte le sfaccettature del caso. Frutto dell’ingegno dell’autore.

In Suburra – La serie, a dispetto delle accuse lanciate contro l’inattendibilità di alcuni contesti, che permettono allo zingaro soprannominato Spadino di entrare e uscire dalle case dei cardinali in Vaticano, ad agire senza azione provvede l’insita antiretorica.

Il boss di Ostia, Tullio Adami, ricava notevole spessore dalla partitura sotterranea percorsa da Tocci per scolpirne le ubbie e la rabbia belluina. Contraddetta dall’incedere di alcune sensibili occhiate diametralmente opposte ai battutissimi sentieri conformi alla cifra dell’odio scellerato.

La cifra dell’amore, invece, per il figlio ribelle, incarnato con indubbia abilità da Alessandro Borghi (nella foto con Federico in un lampo cruciale), rende molto più interessante il succedersi degli eventi.

Il mancato punto d’incontro tra i due, divisi dai temperamenti bellicosi, negati all’adeguatezza catartica di una sana chiacchierata, rimane nella memoria. Quando l’impetuoso rampollo sfugge alla morte, per il rotto della cuffia, nell’aria attorno alla roccaforte vicino al mare preme un’arida ed emblematica uggia. La morbosa suscettibilità di entrambi sembra cedere il passo ad attimi fuggenti intessuti di premura virile.

In Sulla mia pelle di Alessio Cremonini il grande schermo lo vede di nuovo accanto ad Alessandro Borghi (nella foto le scene topiche), premiato con l’ambìto David di Donatello per la performance fornita nelle vesti di Stefano Cucchi. Sono sufficienti pochi secondi a Federico, che impersona un poliziotto preoccupato in apparenza unicamente di lavarsi le mani tipo Ponzio Pilato dinanzi ai segni d’atroce percossa rilevati sul corpo smagrito all’inverosimile del ragazzo: si ha fortissimamente l’impressione che l’incolpevole guardia dica una cosa, dettata dall’algido sarcasmo, e ne pensi un’altra. Agli antipodi. Sull’onda di un’indicibile indulgenza. La spia alla comprensione celata dall’ovvio distacco di rito.

Ai modi asciutti, che non gli impediscono di esporre i recessi più arcani dell’inconscio, custoditi con l’ausilio del sarcasmo gergale, e traditi dagli occhi cerulei, promossi a specchio dell’anima intenta a scoprire diverse zone d’ombra, illuminate dall’inopinata docilità, seguono le argomentazioni sagaci. Snocciolate senza l’improntitudine degli intellettuali estranei alla saggezza popolana. I fulgidi globi oculari, ridotti in certe circostanze a fessure iniettate di sangue, quando le sagome scure del Rischio e della Minaccia prendono piede attraverso il rapporto della finzione cinematografica col reale, lontano da qualunque, inutile forma artificiosa, tornano ad accendersi fuori del set. 

Una testimonianza di pienezza compartecipe. Allergica agli imperativi dei calcoli professionali. Alla prospettiva, nemmeno troppo remota, di aggiudicarsi un David di Donatello, come attore non protagonista per l’insolito commissario di A Tor Bella Monaca non piove mai, con l’antidoto al braccio violento della legge, non ci pensa. Gli basta salvaguardarsi dalle crisi occupazionali che affliggono tutti gli attori esclusi dall’effigie dorata attribuita dai seguaci dell’inane divismo. 

Recitare, per Federico Tocci, è un mestiere irrinunciabile. Che ama per motivi che non hanno nulla a che vedere con la brama di procacciarsi chissà quale quotazione sul mercato né con il freddo raziocinio. Abituato ad affidare alla fotogenia il compito di sopperire all’impasse di una recitazione meccanica. Nel suo caso il connubio delle forme somatiche del volto con la gamma luministica, assicurata dagli alacri direttori della fotografia, possiede la polpa dell’affetto. Tramutato in conoscenza. Per dare il benservito ad arzigogoli ed elucubrazioni varie. Il cuore, sintomo di sensibilità e d’audacia perenne, è tutta un’altra camminata. L’entusiasmo creativo e i piedi per terra non si annullano l’un gli altri.  Sono, viceversa, il cacio sui maccheroni. Non per cucirsi sul petto i galloni della star venerata dalle folle desiderose d’ispirarsi agli ingannevoli portatori d’invulnerabilità. Ma per far sorridere, sognare e riflettere il pubblico proprio con la vulnerabilità connaturata alla creazione di circostanze convertite in rimedi contro la monotonia. Una cura dello spirito che amplia la visione del mondo ed esplora gioie e dolori: la brama dell’iperbole, l’ansia febbrile, l’essenzialità delle note intime. Che penetrano la complessità dell’esistenza. Senza colpo ferire. 

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A colloquio con Antonio Zavatteri sull’intensa levità della recitazione

IL FULGIDO ED EMOZIONANTE SENTIMENTO CREATIVO DI UN ATTORE COI PIEDI PER TERRA CHE PUNTA IN ALTO

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Puntare alle stelle, mantenendo i piedi per terra, non costituisce una contraddizione in termini. Né si va ad aggiungere alle ormai vetuste ed enfatiche elucubrazioni teoriche di chi si parla addosso scambiando le banalità scintillanti della (auto)propaganda per perle di saggezza.

Ad Antonio Zavatteri (nella foto) interessa, piuttosto, svolgere la professione dell’attore nel migliore dei modi, difendere la categoria di coloro che, attraverso il lavoro sui personaggi da incarnare, devono comunque conseguire le debite giornate annue, per garantirsi l’accesso ai soccorsi previdenziali, e concordare attraverso il sentimento creativo, al posto dell’infruttifera chimera, la possibilità concreta della svolta.

Una svolta professionale che non paga dazio agli insulsi particolari, acuiti dai periodici a caccia di scoop, e ai fiotti di champagne diffusi in un mondo dorato, retto dall’inane esteriorità, ma che trae linfa dallo sblocco liberatorio congiunto al contatto diretto col pubblico, stabilito dallo strenuo impegno profuso in teatro, dall’aderenza al commercialista Franco Musi (nella foto) colluso con la malavita napoletana, reo nella serie televisiva Gomorra di fare il passo più lungo della gamba, e dall’impeccabile misura grazie alla quale è riuscito ad anteporre l’umiltà dell’antiretorica alle pose vanesie dei set cinematografici.

Fremere dinanzi all’ipotetica crescita esponenziale dei film da interpretare, al fine di ricavarne la notorietà capace di porre fine agli orari disagevoli e all’asservimento nei riguardi della macchina da presa, può rivelarsi un’autorete. La soddisfazione di aver impersonato in Mia madre di Nanni Moretti l’ex alunno della signora appena scomparsa e impreziosito la trama, sia pure cum grano salis, col ricordo sobrio ma incisivo di un’insegnante affezionata all’acume sempiterno degli adagi latini, riconduce tutto all’ordine naturale delle cose. Il primo piano del volto, scosso dalla punta di spina del dolore ma deciso a rispettare l’intimo contegno d’ogni lutto inevitabile, non solo tiene le opportune distanze dalle soap che chiedono agli spettatori meno scaltriti un abuso delle sacche lacrimali. Nella sua sottorecitazione risiede anche il corredo d’idee ed emozioni che, lungi dall’alterare l’intrinseca verità rappresentata e dal prestarsi all’impasse degli inutili equivoci, equipara la forza significante dell’io interiore alla fase del concepimento dell’estro.

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