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Dalla foiba di Jules Verne alla fossa di Moncucco … Un monito contro il negazionismo

I VINCOLI DI SANGUE E DI SUOLO DEGLI ISTRIANI: TRA INGHIOTTITOI ATROCI ED ESODI DOLOROSI

«Chi si appoggia al parapetto di quello spiazzo, vede un precipizio ampio e profondo, le cui impervie pareti, tappezzate di fogliame intricato, scendono a picco. Nessuna sporgenza in quella muraglia. Non un gradino per salire o per discendere. Non una cengia per sostare. Nessun punto d’appoggio. Soltanto scanalature, qua e là, lisce, logorate, poco profonde che fendono le rocce. In una parola, un abisso che attira, che affascina e che non restituirebbe nulla di quanto vi si facesse piombare.(…)
Quell’abisso è detto nel paese Foiba, e serve da serbatoio al soverchio delle acque del torrente. Questo torrente non ha altro sfogo se non una caverna, che si è formata a poco a poco fra le rocce, e nella quale esso precipita con furia indescrivibile. Dove va il corso d’acqua che passa sotto la città? Chi può dirlo? Ove ricompare? Anche questo è un mistero. Di quella caverna, o piuttosto di quel canale che solca lo schisto e l’argilla, non si conosce né la lunghezza, né l’altezza, né la direzione.
Forse le acque urtano in tumulto contro innumerevoli spigoli contro la foresta di piloni, che sostengono la fortezza e la città intera. Arditi esploratori, quando il livello delle acque, né troppo alto né troppo basso, consentì loro d’avventuratisi con una leggera imbarcazione, tentarono di discendere il torrente attraversando quella tetra apertura, ma le vòlte ad un certo punto si abbassano e costituiscono un ostacolo insuperabile. Ecco perché non si sa nulla di quel corso d’acqua sotterraneo. Forse s’inabissa in qualche «perdita» sotto il livello dell’Adriatico
».

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A colloquio con Igor Maltagliati sulle sfaccettature della Settima Arte

I PUNTI FERMI DI UN REGISTA AFFEZIONATO
ALL’ASSURDO POETICO DEI FILM DI PRESA IMMEDIATA

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Sembra una contraddizione in termine per chi usa le scorciatoie del cervello. Invece non lo è. Lo sa bene Igor Maltagliati. Fiorentino doc, dall’impertinenza perenne, da bravo toscano brioso, innamorato però, senza ‘se’ né ‘ma’, della Città Eterna. Che conosce angolo per angolo. Lontano dagli scorci cartolineschi cari ai turisti. Nel film La banalità del crimine (nella foto) le modalità di presenza delle location romane hanno dato prova della sua predilezione per la geografia emozionale. In grado di garantire ai territori eletti a location la virtù di riflettere gli stati d’animo e condizionare i modi d’agire (da quelli empi ad audaci inversioni di tendenza). Basti pensare allo sfogo nei confronti dell’Altissimo da parte del manovale della malavita impersonato da Mauro Meconi mentre scava l’ennesima fossa per un rivale freddato.

L’esperienza gli ha suggerito l’idea di mostrare il tran tran giornaliero dei losers chiamati a svolgere le mansioni più umili nell’ambito del banditismo. Il richiamo all’umor nero e alla cultura postmoderna celebrata da Tarantino, che continua a mettere sullo stesso piano Jean-Luc Godard ed Enzo Girolamo Castellari, sarebbe caduto nell’infecondo déjà-vu se già nell’incipit un morbido movimento di macchina all’indietro, degno dei maestri del lavoro di sottrazione, non avesse svelato l’arcano sulla scorta del valore terapeutico dell’umorismo. Con i personaggi interpretati da Marco Leonardi e Alessandro Parrello seduti su un cadavere in attesa dell’indegna sepoltura fintanto che la propensione allo small talk funge da bislacco tono dominante.

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A colloquio con Paul Herman sugli accenti e sui semitoni della recitazione

UN CARATTERISTA DEL GRANDE CINEMA AMERICANO,
dalla battuta pronta e dalla fulgida umanità 

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Ha realmente la battuta pronta, Paul Herman (nella foto). Il luogo comune che rende i caratteristi schiavi della limitatezza dei ruoli fissi non lo tange affatto. È consapevole del valore espressivo riposto nei primi piani in grado di trarre linfa dal cinema della spontaneità. Ed è per questo motivo che alla ricercata facondia dell’alta densità lessicale privilegia i segnali discorsivi e le pause dialogiche del cosiddetto ‘broccolino’. Una cadenza costituita dall’interazione tra inglese ed elementi vernacolari relativi alle forme bandiera del gergo siciliano, calabrese e napoletano in uso a Brooklyn.

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C’era una volta a … Hollywood e a Roma sulle sponde del Tevere

Atteso in Italia per il 18 Settembre il nono film di Quentin Tarantino.

Nel Luglio del 2017, poco prima di completare l’ultima sceneggiatura, comunicò di un suo nono film incentrato sulla sua personale rivisitazione degli omicidi della famiglia Manson. Per la produzione provò subito a trattare con Harvey Weinstein, poi rinunciò verso Ottobre a seguito degli scandali del produttore. Verso Novembre 2017 terminò una lunga asta per la produzione del film, proprio quando fu comunicata la partecipazione di Leonardo Di Caprio come attore principale e si precisò che le vicende della Manson Family fossero secondarie alla trama. 
La Sony Pictures Entertainment si aggiudicò la produzione, stanziando 95 milioni di dollari, fornendo un compenso del 25% sugli incassi lordi, e uno straordinario controllo creativo al regista, oltre ai totali diritti d’autore concessi dopo un periodo da definire tra 10 e 20 anni. Dopo svariati incassi milionari degli anni passati era normale un’asta del genere.

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Il rapporto tra cinema e territorio… da Campora ad Albanella

UN TERRITORIO TUTTO DA SCOPRIRE CHE CONIUGA “MOTION” ED “EMOTION”

Il Cilento è davvero un territorio tutto da scoprire. La topofilia (dal greco topos ‘luogo’ e philia ‘amore’) assume una funzione creativa in grado di utilizzare al meglio l’intensa ed emblematica scrittura per immagini della Settima Arte. Il valore drammatico ed evocativo della tecnica cinematografica non è riuscito però mai a cogliere, sino ad adesso, l’intrinseca, peculiare natura di quell’area montuosa della Campania, al di là del fiume Sele. Il remake del blockbuster transalpino Bienvenue chez les Ch’tis di Dany Boom ha certamente incuriosito gli spettatori accorsi in sala.

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A colloquio con Lydia Genchi sulla distribuzione dei film art-house

LA PASSIONE DELLA NOMAD FILM DISTRIBUTION:
UNA TUTELA A FAVORE DEL CINEMA D’ARTE

Conversazione con Massimiliano Serriello

La passione per il Cinema di Lydia Genchi (nella foto) passa attraverso l’assoluta buona fede, aliena, sia in prassi ché in spirito, alle roboanti attestazioni di stima di chi antepone l’inane attitudine all’iperbole all’interesse per le cauzioni di commerciabilità delle opere d’indubbio pregio culturale.

Sin dai tempi dell’università, quando si laureò con una tesi in scenografia, Lydia aveva le idee chiare. La gavetta nel teatro, per tradurre in pratica quanto aveva appreso sul versante della capacità d’ambientazione impreziosita dai fattori visivi, o sui set, nelle vesti di assistente attenta ad amalgamare gli arredi di un film al precipuo timbro della scrittura per immagini, le ha permesso di entrare in confidenza con l’ambìta fabbrica dei sogni. La vita è fatta però pure di cose pratiche e la famiglia, ravvisabile nel senso di responsabilità nei confronti dei propri figli, è divenuta un pungolo per superare ogni intoppo relativo al bisogno di unire gli aspetti concreti con lo slancio tipico degli anni verdi. Seguire la via dell’idealismo equivale a percorrere un tragitto irto di spine se non si prende atto che dare un colpo al cerchio del nesso tra competenza ed elementi dinamici e un altro alla botte dell’armonia rappresenta l’unico antidoto alle velleità degli esperti del dopolavoro. Gutta cavat lapidem, quindi? Certamente sì. Anche perché la fondazione dell’alacre e audace No.Mad Entertainment è cominciata col piede giusto. Distribuendo nelle sale autoctone chicche della levatura di Tournée. Un conto è vederlo alla sezione Un Certain Regard al 43º Festival di Cannes, ad appannaggio di critici troppo autoreferenziali per capire che il salto di qualità consiste in un’inversione di tendenza in grado di mandare a farsi friggere qualsivoglia forma di slavata alterigia, e un altro è assicurargli l’approdo nel mercato primario di sbocco. Solo così, lontano dalla sterile pretenziosità dei circuiti alternativi, è possibile sul serio stimolare lo spettatore, specie quello dai gusti semplici, in termini intellettuali ed emotivi. Il gioco fisionomico del duttile Mathieu Amalric (nella foto), ancor più bravo in cabina di regìa nel cogliere i voluti ed emblematici scompensi connessi alle attese che contrassegnano la voluttà di rifarsi dell’ex produttore tornato in Francia dagli States insieme alla malridotta compagnia di New Burlesque, acquista maggior spicco allorché attiene all’incanto della scoperta.

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