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Ucraina – l’esercito e la marcia sui tacchi a spillo

Schiere di donne che marciano in tacchi alti: un’immagine sicuramente d’impatto, che ci aspetteremmo di vedere in un videoclip musicale o un’opera d’arte visuale, in cui le provocazioni e gli accostamenti azzardati lasciano spazio alla riflessione… ma che assume una valenza completamente diversa se calata nella realtà, e ancor di più se messa veramente in atto da un governo nelle fila delle sue forze armate.  Nelle scorse ore ne hanno parlato tantissimi media nel mondo: l’Ucraina stava pianificando, in occasione di una parata programmata il prossimo mese, di far marciare le sue soldatesse con ai piedi delle scarpe décolleté nere classiche con un discreto tacco alto, invece che con i regolamentari stivali da combattimento previsti per la divisa. Il Ministero della Difesa del paese ci ha tenuto a farlo sapere con un servizio fotografico diffuso in anteprima, ma negli scorsi giorni la decisione ha subito sollevato critiche e reazioni rabbiose, a livello nazionale e non solo.

Come riferisce la BBC, l’Ucraina si prepara a festeggiare 30 anni di indipendenza dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e per le celebrazioni ha organizzato anche una parata militare, che si svolgerà il prossimo 24 agosto. Così, il Ministero della Difesa ha pubblicato sui suoi profili social una serie di foto ufficiali, che ritraggono file di studentesse di un collegio militare che si esercitano per la prima volta a marciare sui tacchi, i quali, stando a quanto ha specificato lo stesso Ministero ucraino, fanno parte dell’uniforme femminile. Sul sito di informazione della Difesa, ArmiaInform, come si legge su Deutsche Welle, una cadetta, Ivanna Medvid, ha commentato così il particolare allenamento: “È leggermente più difficile rispetto agli stivali dell’esercito, ma ci stiamo provando”. Molti nel paese, però, si sono immediatamente detti scioccati e indignati dal piano, e hanno apertamente criticato le autorità ucraine, sia sui social network che all’interno dello stesso parlamento.

La deputata Iryna Gerashchenko, che milita nell’opposizione, ha giustamente definito la decisione un esempio di “sessimo e misoginia”, e si è chiesta perché il governo abbia pensato che fosse più importante dotare i soldati donna di tacchi alti invece che di giubbotti antiproiettile della loro misura. Un gruppo di parlamentari, tra cui la vicepresidente del parlamento Olena Kondratyuk, ha chiesto al Ministro della Difesa Andriy Taran e al governo di presentare delle scuse. Il commentatore Vitaly Portnikov ha scritto su Facebook che questa storia della parata in calzature con tacchi alti è una “vergogna”, e l’evidente frutto di una mentalità “medievale” ancora presente tra i funzionari ucraini. La veterana Maria Berlinska ha invece ricordato che le parate militari dovrebbero servire a dimostrare l’abilità dei soldati, mentre questa sembra fatta per stuzzicare la fantasia degli alti ufficiali seduti nelle tribune. Inna Sovsun, membro del partito europeista Golos, ha detto “È difficile immaginare un’idea più idiota e dannosa”, sottolineando come i tacchi possano comportare rischi per la salute, e anche che le soldatesse ucraine, come gli uomini, rischiano la vita e quindi “non meritano di essere derise”. Infine, come riporta Il Post, in segno di protesta e provocazione, alcune parlamentari sono andate in aula con scarpe col tacco ai piedi e hanno invitato il Ministro Taran a indossarle anche lui il giorno della parata.

Anche tantissimi utenti sui social hanno criticato la decisione, sottolineando come renda le donne soldato più vulnerabili, come sia frutto di stereotipi di genere nonché un gesto irrispettoso nei confronti delle tante soldatesse morte in guerra. E in effetti, come ha ricordato la vicepresidente Kondratyuk, sono più di 13.500 le donne che hanno combattuto nell’attuale conflitto tra Ucraina e Russia, che vede le truppe governative della prima schierate contro i separatisti sostenuti dalla seconda, nella regione orientale del Donbass. Nelle forze armate ci sono ben 31.000 soldatesse, e tra di loro più di 4.000 sono ufficiali.
A quanto sembra comunque, alla fine sabato il Ministro Taran ha fatto caporetto: ha dichiarato che le cadette saranno dotate di altre scarpe e ha fatto diffondere nuove fotografie in cui le soldatesse indossano gli scarponi.

Siamo lieti di sapere che le numerose critiche abbiano convinto le autorità ucraine perlomeno a tornare sui loro passi. Una parata militare sui tacchi è un’idea discutibile, sicuramente sessista – perché mette al primo posto l’estetica, per altro di concezione femminile tradizionale – nonché senza dubbio dannosa, perché compromette la comodità, la sicurezza e la salute delle soldatesse. Non si comprende poi perché un’uniforme militare dovrebbe ancora essere dotata di scarpe del genere: speriamo che anche su questa questione il Ministero della Difesa ucraino voglia riconsiderare le sue scelte.

 

 

 

Pomezia per lo sviluppo etico sociale e dell’ambiente integrato e sostenibile

Nuove aree protette nel territorio, abbattimento e recupero dell’eco-mostro
e lo sconto TARI per attività commerciali a causa della pandemia

Pomezia “la giovane” fondata nel 1938 (il 25 aprile, progettata come la gemella Aprilia dal gruppo d’architetti capeggiati da Concezio Petrucci) vuole, senza tema di dubbio, pareggiare Siena. La storica città Toscana dove nel Palazzo Pubblico, datati tra il 1338 e il 1339 si ammirano gli affreschi L’allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo. Sono un ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti, pittore italiano, un maestro della scuola senese del Trecento.

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L’Atleta Olimpico

CIVIS ROMANUS SUM

C’era una volta l’Atleta
Fino a quando l’Agone Olimpico era luogo di tragica contesa tra personaggi eroici, a noi niente affatto contemporanei, la cosa in argomento, sarebbe sembrata fuori dal mondo, un mondo iperuranio  per destinazione, che potremmo definire oggi dì,  come appartenente a una realtà a dir poco di livello Leggendario.
Il Maratoneta, ad ogni modo, figura mitica del tempo che fu, era a tale proposito, nel mondo greco-romano, considerato il prototipo dello spirito umano, colto nell’immane atto di superarsi, approssimandosi quanto più possibile al limite di natura, sin dove solo al divino era possibile sostare. Magari anche solo un attimo.

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Torta di mele razzista – l’ultima trovata della cancel culture

Adesso tocca anche a lei, alla torta di mele che a detta di alcuni sarebbe il prodotto del “capitalismo di guerra”, che ha “schiavizzato e commesso atti di genocidio”… Grandi reati ha commesso questo povero dolce…

Il politicamente corretto e la cancel culture possono travolgere anche innocue pietanze o dolci, come dimostra il recente furore ideologico scaricatosi contro la povera torta di mele. Quest’ultima, grande classico della tradizione dolciaria anglosassone, soprattutto di quella a stelle e strisce, è stata infatti accusata di “razzismo” dal giornale inglese Guardian, promotore di tante battaglie “civili e progressiste”. A puntare il dito contro il dolce citato è stato, nel dettaglio, un commento pubblicato su quella testata lo scorso primo maggio, rilanciato più e più volte fino a oggi sul web da commentatori ironici e critici. A firmare quel pezzo era stato allora Raj Patel, esperto di cucina e documentarista definitosi in passato come “dominato da forti simpatie anarchiche“.

Nel suo pezzo-invettiva, Patel, di origini indiane nonché titolare sia della cittadinanza britannica sia di quella Usa, ha esordito sostenendo che il tipico dessert statunitense non è nient’altro che “l’espressione del trionfo del colonialismo e della schiavitù” e che le origini della pietanza sono profondamente “intrise di sangue“; gli ingredienti necessari a preparare una torta di mele, sempre a detta dell’autore, sarebbero inoltre il prodotto di secoli di “furti” di terra, di ricchezza e di lavoro. Egli ha così snocciolato i “peccati originali” di diversi ingredienti della torta, inscindibilmente connessi alle tragedie del suprematismo e del colonialismo.

Partendo dalla mela, Patel ha infatti ricostruito le origini della comparsa di tale frutto nel continente americano, associando la diffusione delle coltivazioni di mele all’espansione dei colonizzatori europei ai danni delle terre e delle proprietà dei nativi amerindi. Il radicamento dei meli in America, accusa il giornalista, sarebbe infatti avvenuto, nel XVI secolo, al prezzo di “un vasto genocidio di popolazioni indigene”. In particolare, rimarca Patel, “i colonizzatori inglesi utilizzavano i meli come indicatori di civiltà, vale a dire di proprietà”, piantandone grandi quantità nelle aree appena strappate ai legittimi proprietari nativi proprio per simboleggiare il trionfo della civiltà europea sul tribalismo amerindio. Tale abitudine dei colonizzatori inglesi sarebbe stata recepita e rinvigorita secoli dopo da pionieri Usa come Johnny Appleseed, accusato da Patel di avere “portato questi segni di proprietà colonizzata alle frontiere dell’espansione statunitense, dove i suoi alberi simboleggiavano il fatto che le comunità indigene erano state estirpate”.

La natura razzista della torta di mele deriva, oltre che dai frutti citati, anche da un secondo ingrediente: lo zucchero. Secondo il documentarista indiano, quest’ultimo, presente sulla crosta del dolce incriminato, sarebbe irrimediabilmente legato alla tratta degli schiavi settecentesca; lo zucchero sarebbe appunto giunto negli Usa principalmente grazie al lavoro di schiavi africani impiegati nelle piantagioni dei possedimenti caraibici francesi.

Infine, Patel, nel pezzo apparso sul Guardian, scarica la sua ira antirazzista persino verso la “tovaglia a quadretti” su cui solitamente viene lasciata raffreddare la torta di mele appena sfornata. Alla base della natura “suprematista” di tale tovaglia sarebbe, afferma l’autore, il fatto che la stessia è “di cotone“, ossia un materiale tragicamente collegato all’immagine di assolate piantagioni del sud degli Usa piene di schiavi intenti a lavorare per i loro padroni bianchi. Agli occhi di Patel, la torta di mele, per i suoi ingredienti e la sua preparazione, è di conseguenza un obbrobrioso prodotto del “capitalismo di guerra“, che ha “schiavizzato e commesso atti di genocidio contro milioni di indigeni nel Nord America e milioni di africani”.

Patel ha concluso il suo commento sulla torta di mele presentandolo come strumentale a sensibilizzare la gente intorno al concetto di “giustizia alimentare” e a rendere i consumatori maggiormente coscienti del passato tenebroso celato persino dietro innocui dolciumi: “Giustizia alimentare è un termine comprensibile solo perché le comunità oppresse e sfruttate si sono organizzate per vendicarsi contro le depredazioni operate dal capitalismo statunitense”.

Per i “Valori dell’Accoglienza” e della “Pari Dignità Sociale”

L’INTEGRAZIONE DELLE DIFFERENZE, IL RISPETTO DELLE PERSONE
ED IL CONTRASTO VERSO
LE DISCRIMINAZIONI
NON SONO UTOPIE MA OBIETTIVI DA PERSEGUIRE 

una netta presa di posizione da parte di Alice Mignani Vinci*

Pensare che i diritti civili dei soggetti fragili e delle minoranze siano “affar loro” – e non nostro o di tutta la società – è un grande errore; è uno dei passaggi sbagliati che dominano sovente il pensiero collettivo, con abile manipolazione dei media e delle informazioni che ci arrivano.
Noi e Loro. Pensare che la discriminazione verso le persone omosessuali, o verso uomini e donne trans, o il razzismo, siano problemi che non ci riguardano, è fallace convinzione.

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Karōshi – il lavoro che in Giappone uccide