COMPETENZA ED ENTUSIASMO AL SERVIZIO DEL “VIAGGIO DELL’EROE”: UN ESTRO CHE NON SI PERDE NEL SILENZIO
Una conversazione con Massimiliano Serriello
Il carattere d’ingegno creativo necessario ad alimentare l’arduo lavoro degli attori sui personaggi, attraverso l’egemonia dello spirito sulla materia al fine di esibire i moti dell’anima custoditi nell’inconscio, non si perde nel silenzio. Il gioco fisionomico della performance recitativa, che nel mondo del cinema costituisce un motivo di fianco rispetto alla dinamica tra immagine e immaginazione posta in essere dietro la macchina da presa per mezzo dei valori espressionisti congiunti alla stesura filmica, non è solo un fattore di richiamo dell’universo teatrale. In virtù dell’indubbio ascendente esercitato sui fruitori grazie al contatto diretto contemplato nell’attuazione della prova interpretativa. Per Giovanni Maria Buzzatti (nella foto) l’impegnativo ma doveroso processo di apprendimento, reviviscenza, incarnazione e forza comunicativa va oltre i precetti del pur illustre Metodo Stanislavskij, veicolato in regole neurotoniche ed esercizi sistematici dal coriaceo Lee Strasberg, esponente cardine del Group Theatre, chiude il cerchio attingendo al dotto libro “Il viaggio dell’eroe“ di Christopher Vogler.

È stata l’aggraziata ed energica Manuela Tempesta (nella foto), fautrice altresì del Tao (道, Dào; testualmente la Via), il concetto orientale che va ad amalgamare le emblematiche polarità connesse all’ordine della natura (maschile/femminile, tenebra/luminosità, freddo/calore), a coinvolgere altresì Giovanni Maria Buzzatti nello studio delle strutture ricorrenti contemplate da Vogler. Regista, sceneggiatrice, documentarista sensibile ed eclettica, Manuela è divenuta una sorta di poetessa dell’animo femminile, costretto – come insegna pure l’Antico Testamento – a passare per la cruna dell’ago ed entrare nel Regno dei Cieli. L’urgenza di denunciare gli abusi commessi ai danni dello spirito muliebre, sia sul grande schermo, specie con “Pane & Burlesque“, svelando i disaccordi nascosti nella necessità di esibirsi nutrita nel guscio della provincia, sia sul palcoscenico del teatro, è divenuta un’autentica affinità elettiva. 
Giovanni Maria Buzzatti ha saputo cogliere repentinamente la profonda sensibilità, frammista all’assoluta tenacia, di Manuela; per poi dedicare la massima attenzione ai suoi numi tutelari. Senza mai prenderli sottogamba. Nemmeno per un attimo. Evitando di smarrirsi in una congerie di rivoli, fini a sé stessi, è riuscito a individuare nel bisogno di miti, che trascende lo scoglio del Tempo, un formidabile pungolo per guidare i propri allievi nel periodo preparatorio della conoscenza, sulla scorta dell’idonea intuizione artistica, nella capacità di trarre linfa dalla sfera delle sensazioni personali, allo scopo di anteporre all’infruttifera esteriorità la piena comprensione della psiche del personaggio, nonché dai ricordi onde conferire al dramma rappresentato l’aroma di sincerità dell’esistenza. Per Manuela, al pari del Percorso legato al Tao, quello predisposto da Vogler, sulla base degli stimoli forniti da L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell, costituisce uno stimolo eccezionale per andare in profondità. Soprattutto come scrittrice d’inebrianti ed eruditi plot gremiti di ombre sinistre, punti decisivi di caduta, o di non ritorno, d’inopinati alleati, scoperti tanto nell’innocenza dell’infanzia quanto nell’assennatezza della senescenza. Non a caso la correlazione tra habitat ed esseri umani, capace d’impreziosire con gli stilemi della geografia emozionale anche l’intenso cortometraggio I sogni sospesi, insieme a dei cortocircuiti lirici che non dispiacerebbero affatto al guru statunitense Terrence Malick, rientra nei parametri nodali con cui Madeleine de Scudery tracciò – per adornare il testo “Clélie, historia romaine“ – la celebre Carte du Pays de Tendre. Con il Lago dell’Indifferenza frammisto ai paesi di Indiscrezione, Perfidia, Cattiveria e Orgoglio che si affacciano nel mare dell’Inimicizia. Mentre la retta via conduce ai paesi di Compiacimento, Sottomissione, Coccole, Assiduità, Prontezza, Sensibilità, Tenerezza, Obbedienza, Amicizia Costante, fino all’approdo a Tendre sur Reconnaissance.

Giovanni Maria Buzzatti, invece, stimola l’azione interiore degli adepti disposti a fornire il loro contributo alla partitura spirituale dell’opera, con l’atlante dei comportamenti. Anziché con quello delle emozioni nate dalla virtù del territorio di riverberare il connubio di modus operandi e forma mentis. L’humus ideale, in tal senso, risiede, piuttosto, nei contrasti tra eventi negativi ed eventi positivi, tra il rifiuto e il richiamo dell’avventura, tra il mondo ordinario e l’avvicinamento alla tappa prefissata. Da lì lo spartito dei compiti fisici degli attori e delle attrici che lui guida, per non cadere nell’algida abitudine meccanica, è arricchito dal concetto di resurrezione. Equiparabile, a discapito delle banalità scintillanti dell’enfasi di maniera, all’idea di climax. Applicato alla fase topica in cui ogni interprete reagisce esteriormente in funzione agli stimoli interiori forniti dagli esempi lampanti ed epidermici di vita vissuta. Non si tratta di avere un asso nella manica, destinato a pagare dazio agli inutili segni d’ammicco di chi usa le scorciatoie per sviluppare il processo della ricerca del personaggio. Bensì di una concentrazione raggiunta di comune accordo, toccando punti nevralgici nelle reminiscenze personali d’ogni individuo coinvolto per ricreare senza che siano presenti oggetti immaginari in grado di lasciare il segno. Basti pensare alla pièce teatrale Shake Fools allestita a quattro mani con l’ormai inseparabile Manuela. Il personaggio di Otello, incarnato dal poliedrico Giovanni Maria Buzzatti, dà in escandescenza nei confronti di un ipotetico commissario di polizia e degli appuntati intenti a raccoglierne la deposizione. Lo stimolante richiamo, oltre ché ai sempiterni versi del Grande Bardo, al Pier Paolo Pasolini di “Accattone“, testimonia l’audacia di connettere l’alta densità lessicale dei capolavori letterari e il parlato spontaneo. Con i borbottii, i segnali discorsivi, il ricorso alla rabbia del vernacolo romanesco privo della consolazione dell’onnipresente disincanto e dell’aguzzo sarcasmo. Sin dal manifesto, con la farfalla che rimanda a “Il silenzio degli innocenti“ del compianto Jonathan Demme, l’innesto degli echi e dei controechi, da “Un tram che si chiama desiderio“ a “Qualcuno volò sul nido del cuculo“, dai fatti di cronaca nera alle punture di spillo riservate alle atroci storture in seno alla società, palesa una marcia in più rispetto all’accidia delle idee solitamente prese in prestito dai colleghi assai meno ispirati. Un’abitudine imperante nei settori della cultura e dell’intrattenimento dove la bestia nera resta il disinteresse del pubblico. Ancor prima della noia di piombo. Che sancisce la condanna all’oblio di qualsivoglia prodotto fondato sulla comunicazione.

Non serve abbaiare alla luna per invertire la tendenza. Occorre, casomai, rimboccarsi le maniche. Chiudersi nel proprio bozzolo, col morale sotto i tacchi, a causa delle criticità riscontrabili nelle dinamiche sempre più stagnanti dei consumi culturali, è inutile. Come anche ingoiare amaro e sputare dolce. Giovanni Maria Buzzatti è alieno all’umanità raccogliticcia dei sognatori che vanno a caccia di grilli e costruiscono inutili castelli di carta. Conosce le best practices e le bed pratices comportate dall’onore, nonché dall’onere, d’incontrare i gusti della popolazione spronandola con la magnifica opportunità fornita da un inesauribile patrimonio di apprendimenti ed erudizioni. Ed è, quindi, consapevole che non vi si può rinunciare per corrispondere all’emotività del pubblico dai gusti semplici. Né è ipotizzabile, conformemente all’emanazione dell’estro umanitario, continuare a fingere che il livello di comprensione del settore di competenza c’entri poco con le strategie di marketing. La mercificazione del tempo libero, nell’ambito degli spettacoli dal vivo, riconducibili pure al mercato dell’intrattenimento, va tenuta nella giusta considerazione. Al pari dell’arte segreta dell’attore e dell’incisiva irradiazione formativa che traduce in divertimento, alieno all’impasse del temuto tedio, il nesso con i traumi prodotti dalla collettività moderna.

Il fulgido senso dell’azione che Giovanni Maria Buzzatti individua, lontano dai motivi figurativi tramutati in motivi introspettivi dallo sfarzo scenografico, nell’invenzione degli intrecci evoca dal profondo il divampare delle passioni. Che possono e devono colpire alla mente, al cuore e allo stomaco gli spettatori decisi ad allargare determinate prospettive. Acquisendo coscienza di ciò che li circonda tramite il debito filtro intellettuale ed educativo. Perché nel sovvertimento degli affetti, fuori dai binari della mera retorica, che sa di stantio ed ergo di vecchio, nella conquista della bontà, a dispetto dei demoni privati che s’insinuano a ogni piè sospinto nella rete d’inedite ed eterne infamie, negli impulsi psicologici, all’origine dei cori osceni da stadio, risiede la vigoria della consuetudine. E quindi di una tradizione che non deve cedere di un passo al trattamento superficiale richiesto da un rapporto tra destinatari ed emittenti poco avvezzi ai dispendi di fosforo. Spremendosi le meningi, imparando a pungolarsi, è possibile ricavare dalla vena smisuratamente crudele che serpeggia nella cifra dell’odio, dell’intolleranza, della violenza lo sprone dell’amore, dell’impegno, dell’avvedutezza. Un antidoto contro l’accetta adoperata dagli artisti avventizi. Avvezzi, a colpi d’ascia, ad allontanare alla bell’e meglio il bene dal male. Neanche fossero gli angeli sterminatori cari a Luis Buñuel. L’estrema varietà di archetipi utilizzati per mostrare l’imprevedibile ferocia dell’Otello di Giovanni Maria Buzzatti (nella foto con Mavina Graziani alias Desdemona), che ne paralizza la volontà pungolata dalla cifra dell’amore, e l’atavica efferatezza del Macbeth riletto in tuta mimetica, all’insegna di un lucido discernimento estraneo ai raccordi sull’asse di ripresa concepiti dalla fabbrica dei sogni, snudano incubi impossibili da nascondere sotto il tappeto.

Dargli una chiara sensazione di visibilità, per Giovanni, in qualità di coach trainer con il metodo delle azioni fisiche, nelle fiction televisive, da “I Cesaroni“ a “Distretto di polizia“, al cinema, ma soprattutto in teatro, la sua grande, inesausta passione, trasportando la platea in un’atmosfera davvero rivelante, in cui si mescolano alle palpabili pieghe umoristiche, stabilite dall’idiosincrasia per ogni forma di sgradita discrepanza, dei contrappunti mesti, ed ergo elegiaci, vuol rendere merito, sia pure in filigrana, all’inobliabile didascalia introduttiva di David Wark Griffith nel pionieristico capolavoro del cinema mondiale Nascita di una Nazione: «Noi non desideriamo offendere con improprietà od oscenità. Esigiamo, però, come nostro diritto, la libertà di poter mostrare il lato oscuro del Male per poter mettere in luce il lato luminoso della Virtù. La stessa libertà concessa alla parola scritta». E anche al teatro. Con buona pace di chi si affretta a cantarne l’inane De Profundis.