- bugie (Piemonte, Liguria);
- cenci o crogetti (Valdarno);
- chiacchiere (Umbria, basso Lazio, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia, ma anche a Milano, in Lunigiana, in Emilia settentrionale e in alcune zone della Sardegna);
- cioffe (Abruzzo, Molise);
- cresciole (Pesaro);
- cróstoli o gróstoli (Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia, alcune zone della Liguria);
- cunchielli (in alcune aree del Molise); fiocchetti (Montefeltro, Romagna);
- frappe (Lazio, Aquilano, Umbria, alcune zone delle Marche e dell’Emilia);
- frappole-sfrappole-sfrappe (alcune zone della Toscana, Marche, Bologna e Bassa Romagna);
- galàni (zona tra Venezia, Padova e, in parte, Verona);
- galarane o saltasù (Bergamo, Sondrio);
- gale (Vercelli, Novara);
- gasse (Montefeltro);
- guanti (Alife, zona del Matese);
- intrigoni (Reggio Emilia);
- lattughe (Mantova, Brescia);
- maraviglias (Sardegna)
- merveilles (Valle d’Aosta);
- sprelle (provincia di Piacenza);
- stracci (alcune zone della Toscana);
- melatelli (se con miele, Maremma toscana);
- risòle (Cuneo e sud del Piemonte);
- rosoni (Modena, Romagna);
- stracci, lasagne, pampuglie, manzole, garrulitas (in sardo).
I nomi sono infinite ed anche le varianti locali sono infinite, ma il principio alla base della ricetta è pressoché lo stesso: un impasto di farina, zucchero, uova cui viene aggiunta una componente alcolica (acquavite, grappa, vin santo, marsala), fatta poi una sfoglia sottile e tagliata a strisce smerlettate, viene fritto e spolverato di zucchero.
La prima traccia risale ai tempi degli antichi romani, dove il Crustularius, il pasticciere che preparava il crustulum, friggeva questa crosta croccante che veniva poi passata nel miele. Il crustulum è, a sua volta, un’evoluzione della lagana, discendente del lasanon dei Greci. Si preparava impastando farina di farro o frumento con acqua, tagliata a strisce, al forno o fritta, e condita con sale. Veniva poi consumata con ceci e porri, così come scrive Orazio nelle Satire: inde domum me ad porris et ciceri refero laganique catinum.
Per quanto sia un dolce tipico, tradizionale e popolare, ci sono pochissimi ricettari che ne trattano in modo preciso. Nei grostoli di Bartolomeo Scappi (Opera, 1570), al posto delle uova, per colorare l’impasto, troviamo lo zafferano. Dal Basso Medioevo sappiamo che non sono più addolciti col miele ma con lo zucchero, ma riuscire a trovare le dosi e le proporzioni precise è ancora difficile. Le varianti regionali, provinciali e pure comunali delle “croste” sono decine, ognuna con differenze legate, allo spessore della pasta, alla forma ma soprattutto alle dentellature del bordo.
In Veneto ci sono sia i crostoli che i galani, più sottili e allungati e chiamati così dallo spagnolo gala, cioè fiocco sfarzoso e grazioso da indossare in occasioni mondane e frivole, al collo. In Toscana c’è il cencio (già attestato nel XIII sec.), quindi la frappa o sfrappa (1427, dal francese antico: frangia, lembo frastagliato di vestiti, ma anche da frappare “ingannare, ciarlare, millantare”), le chiacchiere (propriamente: chiacchiere delle monache), le bugie, gli intrigoni, a rifarsi al significato figurato di “inganno”, bugia”.
Qualunque sia il nome, e le varianti, restano sempre strisce di pasta, più o meno spessa, rese croccanti dall’olio bollente che fanno del Carnevale il dolce d’eccellenza.