Esiste veramente e si trova in Toscana, vicino all’abbazia di San Galgano (quella della spada nella roccia) il celebre mulino, rappresentazione della colazione e della famiglia perfetta.
Divenne famoso nel 1989 quando comparve per la prima volta in uno spot di biscotti della Barilla, poco tempo dopo ne divenne il simbolo ispirandone addirittura il logo. Ospitò tutti gli spot della Barilla degli anni ’90 facendo da sfondo alle scenografie di Armando Testa, con la regia di Giuseppe Tornatore e la musica di Ennio Morricone.
Il casale divenne ben presto meta di turisti e curiosi tanto che il Comune di Chiusdino mise una segnaletica apposita e Barilla, per sancire il legame con quel luogo, sponsorizzò la locale squadra di calcio in Seconda e Terza Categoria, la “Cinghiala”. I proprietari poi realizzarono un resort con agriturismo e piscina ed una parte espositiva dedicata agli antichi strumenti con cui si produceva energia grazie al funzionamento stesso del mulino.
È notizia di qualche giorno che il mulino sarà messo all’asta, venduto dall’Istituto Vendite Giudiziarie di Siena, con un prezzo iniziale di 1 milione e 100mila euro sceso però ad un’offerta minima di 831mila euro.
Si trovano a Roma due delle cinquanta Migliori Botteghe del mondo messe in elenco dal Financial Times: sono Beppe e i suoi formaggi e Roscioli Ristorante Salumeria
Si trovano a Roma due (solo due?) delle cinquanta Migliori Botteghe del Mondo selezionate dal Financial Times. E non che per noi sia una grande novità, visto che si tratta di due indirizzi che qualsiasi buon gourmet conosce: sono Beppe e i suoi formaggi, formaggeria con enoteca e cucina nel Ghetto ebraico di Roma di Beppe Giovale e Roscioli Ristorante Salumeria, attività di famiglia in cui la nuova generazione ha trasformato quella che era una pizzicheria in una raffinata e polifunzionale bottega gourmet con cucina, accompagnata da una cantina con più di 2.800 vini italiani e internazionali.
Dopo l’edizione speciale del 2020 di un unico appuntamento con un fortissimo impegno a sostegno della città di Bergamo duramente colpita dall’emergenza Covid-19, il Circuito ritorna alla sua forma abituale e si svilupperà tra giugno e ottobre in 6 appuntamenti imperdibili.
Il tempo, passato forzatamente chiusi in casa, ha stimolato la fantasia di Silvia Baracchi, Chef e Maitre de Maison de Il Falconiere a Cortona, portandola a trasformare la già rinomata BOTTEGA BARACCHI, Wine Bar & Bistrò in centro a Cortona, in un innovativo CONCEPT STORE multibrand, tutto scoprire e …da gustare!
Forse non siamo quel che giochiamo, ma sicuramente i nostri videogiochi si evolvono anche in base al nostro rapporto con la cucina: come cambia il cibo nel gaming.
Il premio Michelin “Chef Donna” 2021 va a Isa Mazzocchi, che si distingue per una cucina fortemente territoriale e in continuo cambiamento dal ristorante La Palta.
Nell’ultimo anno e in questo periodo più che mai abbiamo molto tempo da dedicare alla cucina per sperimentare in casa numerose ricette che solitamente non abbiamo mai modo di realizzare e che rimangono chiuse nei libri o nei siti di cucina.
Oggi vediamo insieme cosa possiamo preparare con le nostre mani per la merenda, accontentando tutti i gusti della famiglia, dai bambini ai più grandi. Dolci sfiziosi
Quante volte abbiamo voglia di un dolce che sia per noi o per la nostra famiglia.
Spesso però quando apriamo il frigo non abbiamo in casa gli ingredienti necessari per soddisfare la nostra idea. Ma per fortuna ora, grazie ad alcuni servizi di consegna a domicilio, possiamo ad esempio ordinare del latte a domicilio e altri ingredienti mancanti, per realizzare il nostro dolce preferito.
Dopo essere sicuri di avere tutti gli ingredienti perché non prepariamo una sfiziosa ciambella al cocco, alla menta o alla nutella?
Potete procedere montando tre uova con 100 grammi di zucchero; aggiungete 100 ml di latte e 130 ml di sciroppo di menta e mescolate bene. Unite 300 grammi di farina, una bustina di lievito e una di vanillina ed infine 50 grammi di farina di cocco. Versate il composto in uno stampo per ciambelle e infornate a 180 gradi per 30 minuti. Sarà una vera delizia!
Merenda salata Molte persone di ogni età amano la merenda salata e proprio per non sgranocchiare snack pesanti o patatine da un sacchetto, meglio optare per un’idea originale da preparare in casa.
Un’ottima merenda salata potrebbe essere un gustosissimoplumcake salato, ad esempio alle zucchine e mortadella, da servire tiepido o freddo tagliato a fette.
Per realizzarlo è molto semplice. Si inizia grattugiando alla julienne 350 grammi di zucchine e saltandole per breve tempo in padella con un filo d’olio e un pizzico di sale. Nel frattempo, montate 80 gr di burro con la frusta elettrica, aggiungete tre uova, 60 gr di parmigiano, le zucchine e una fetta di mortadella tagliata a dadini.
Infine, incorporate 270 grammi di farina con una bustina di lievito e mezzo bicchiere di latte, amalgamate tutti gli ingredienti, versate l’impasto in uno stampo da plumcake fino a cuocerlo per 55 minuti a 170 gradi.
Merenda sana e leggera Preferite una merenda più sana e leggera? Se amate il dolce potete andare sul sicuro optando per delle fette biscottate integrali o diversi tipi di pane fresco, magari con un filo di marmellata oppure del miele.
Invece per una merenda light salata il consiglio è una fetta di pane integrale magari tostata e croccante passandola in forno qualche minuto, condita con tacchino affettato e pomodorini, rifinito con un filo d’olio extra vergine d’oliva, origano oppure qualche foglia di basilico fresco.
*****
Si tratta di tante ottime idee per fare merenda da soli o in compagnia, dal dolce al salato, dallo snack più sfizioso a quello più sano.
Adesso non ci sono più scuse, mettiamoci il grembiule e stupiamo tutti con una merenda gustosissima da preparare insieme nelle proprie case.
Così coniughiamo come passare il tempo, prima piacevolmente per la preparazione, poi successivamente per la degustazione …. ancor meglio se in compagnia.
*FRANCESCO VALENTE, writer freelance
con specializzazione in relazioni pubbliche, new media, …,
Un marketplace dedicato a Doc e Dop, dove è possibile scegliere il produttore, seguire la produzione e personalizzare l’acquisto
di Maria Teresa Manuelli via Il sole 24 Ore
Se in Italia la “Dop Economy” vale 16,9 miliardi di euro alla produzione, il 19% del fatturato del settore agroalimentare italiano (Rapporto Ismea-Qualivita 2020), tanto da entrare anche nel Vocabolario Treccani, la startup UFarmer si propone di creare un marketplace delle eccellenze italiane rappresentate dalle Dop e Doc. Uno strumento di valorizzazione dei territori, dove i prodotti non si acquistano ma si “adottano”. Tutto a portata di click per sostenere le filiere e le biodiversità agroalimentari di eccellenza trasformando i consumatori in “farmer digitali”.
Parte da Milano, ma si estende su tutto il territorio nazionale, la startup dedicata all’agroalimentare di eccellenza Made in Italy e all’economia di vicinato. «L’idea – illustra Francesco Amodeo, manager di una multinazionale delle telecomunicazioni, co-fondatore e presidente di UFarmer – è nata con lo scopo di offrire ai consumatori la possibilità esclusiva di prendere parte al processo agricolo, adottando un albero di olivo, un appezzamento di vigna per poi riceverne direttamente il proprio prodotto personalizzato a casa. Un’esperienza appassionante, il cui risultato finale può essere condiviso con la famiglia o gli amici più cari, magari con un pizzico di orgoglio e vanità nel mostrare il frutto del proprio raccolto»
Con UFarmer non si acquista un prodotto, ma tramite l’adozione è possibile creare il proprio campo digitale sostenendo il territorio italiano e i produttori virtuosi che investono in termini di qualità e sostenibilità. Si può seguire la crescita delle coltivazioni, partecipare alla produzione, effettuare visite alle proprie “adozioni” e personalizzare le confezioni e le etichette diventando un vero e proprio ‘farmer digitale”
Il giro d’affari della piattaforma nel 2021 è atteso intorno ai 500 mila euro per 500 adozioni stimate, con una crescita che già nel 2022 porti a superare 1,5 milioni di euro.
Non tutte le aziende agricole possono entrare a far parte del panel di produttori proposto dalla startup. Si entra solo se si rispettano specifici criteri di qualità sull’intera filiera produttiva e se si garantisce al consumatore finale un prodotto esclusivo e personalizzabile. Luca Passini, co-founder e ceo di UFarmer, aggiunge come il marketplace UFarmer.it sia «il risultato di un’esperienza ricercata e vissuta direttamente da noi fondatori. Un percorso che ha richiesto tempo e che ha portato alla definizione del primo portale interamente studiato per aggregare produttori di eccellenza italiani e consentire il contatto diretto produttore-consumatore. Così da dare a quest’ultimo la possibilità di prendere parte all’intero processo produttivo diventandone sostenitore e vero adottante».
Esistono già realtà di aziende agricole che hanno sperimentato con successo la loro adottabilità, ma ad oggi, non esisteva una piattaforma che le geolocalizzasse sul territorio italiano e le raggruppasse per tipologia di prodotto. E anche dall’estero sarà più facile individuare quale filiera italiana è possibile adottare e quale prodotto personalizzato si può avere.
Il Ristorante Da Luigi all’Orto di Roma si trova in via di Grotta Perfetta 551.
Il Ristorante offre un locale ampio e accogliente con ottima cucina. Il ristorante dispone di 400 posti ed è a disposizione per cerimonie, come matrimoni, battesimi, compleanni o pranzi/cene aziendali. Il locale dispone di ambiente climatizzato, veranda estiva ampia. La struttura è dotata anche di un ampio parcheggio. Da noi potrete trascorrere tranquille colazioni di lavoro, piacevoli pranzi di nozze o di battesimo. Penseremo a tutto noi, per organizzarvi cerimonie e banchetti memorabili! Su richiesta, possiamo predisporre anche menù personalizzati.
Il Ristorante è disposto su tre ambienti separati: una sala principale, capace di accogliere anche gruppi numerosi; una sala più piccola, adatta per organizzare cene aziendali, feste private, o semplicemente cene tra amici; ed infine un’ampia veranda estiva, tipico ambiente con pergolato, ottimo per pranzi e cene estive.
Il Ristorante Da Luigi all’Orto di Roma la tradizione sarda incontra quella romana: malloreddus pescatora , porceddu sardo, seadas, bucatini cacio e pepe, saltimbocca alla romana. Il ristorante offre una vasta scelta di piatti diversi. Oltre a antipasti, primi, secondi e dessert, è possibile gustare alcuni piatti speciali come il cartoccio di spigola.
Il locale propone anche una pizza cotta al forno a legna, leggera, molto gustosa e con un alto livello di digeribilità. Una buona lavorazione, ingredienti di qualità. Il segreto per una pizza perfetta risiede nell’attendere i tempi per una giusta lievitazione. Oltre alla pizza, è possibile anche ordinare la Pinsa Romana. Il prodotto oltre a livello estetico si distingue per la sua digeribilità dovuta a vari fattori: lievitazioni lunghe (da 24 ore in poi), alta idratazione degli impasti (circa 80%), mix di farine meno calorico di una normale farina per Pizza, utilizzo della farina di soia, utilizzo di pasta madre, nessun utilizzo di grasso animale nell’impasto e basso uso di olio.
La friabilità, la digeribilità e la fragranza della Pinsa contraddistinguono il prodotto da tutti gli altri. Ne deriverà un prodotto croccante fuori e morbido dentro. La morbidezza all’interno viene mantenuta proprio grazie alla farina di riso che ha il compito “fissa” l’acqua presente nell’impasto durante la cottura. Grazie alla sua leggerezza la Pinsa Romana è particolarmente adatta a condimenti alternativi che possono sposarsi alla perfezione con questo impasto.
Abbiamo passato anni a dire che la colomba è la sorella sfigata del panettone. No signori: non è così. Madama colomba ha una storia di tutto rispetto, a partire dal volatile da cui prende il nome, molto presente nell’antichità e nelle comuni radici culturali indoeuropee. Andiamo quindi a tracciare una storia della colomba di Pasqua che si propone di spiegare la simbologia, le leggende e la verità storica a nostra disposizione.
La colomba nella mitologia
Partiamo da un dato incontrovertibile: i volatili di diverso tipo sono da sempre ritenuti in qualche modo messaggeri e divinità da varie culture del mondo. Il mondo greco prima e quello romano poi attribuivano ai volatili delle funzioni ctonie e psicopompe: significa che avevano la possibilità di comunicare con l’aldilà e di accompagnare i morti nell’Oltretomba.
L’etimologia di “colomba” risale probabilmente dal greco antico, kolimbas-a, che sarebbe una sorta di uccello acquatico; da qui, deriverebbe anche la parola comignolo, perché sogliono nidificare proprio sulle cime dei camini.
Concentriamoci ora sull’origine del mito, per forza di cose attraverso la tradizione mediorientale. Per gli antichi Assiri la colomba ha l’incarico di portare messaggi, ma per trovare più apparizioni di questo volatile è necessario pensare in particolare alle al racconto ebraico. La colomba è infatti presente sin dalle prime pagine della Bibbia: è una colomba a portare a Noè un rametto d’ulivo, a simboleggiare la fine del Diluvio Universale. Altro personaggio della Bibbia legato alla colomba è senza dubbio il profeta Giona, il cui nome nell’antico ebraico significa proprio “colomba”.
La colomba per gli Ebrei è la raffigurazione dello Spirito Santo, inteso come pensiero e non come persona fisica (come invece accade per il Cristianesimo). Appare continuamente come portatrice di messaggi di vario tipo nelle raffigurazioni sacre, compresi arazzi e codici miniati. San Paolino di Nola, nel V secolo, commissionò una Trinità sormontata da una colomba.
A questo punto è facile capire che il succitato pennuto sia portatore di notizie, perlopiù benevole; altrettanto semplice è il suo collegamento con la Pasqua, festa di Resurrezione.
Una colomba, tre leggende
Ora mettiamo da parte il campo simbolico ed addentriamoci più nella leggenda del pennuto lievitato. Come avevamo anticipato parlando di differenze tra panettone e colomba, la nostra beneamata possiede – tal quale al fratello natalizio – una serie di leggende a dire il vero… tutte molto simili tra di loro.
Tre, nello specifico, che concordano su un punto: siamo nell’epoca dei Longobardi, quindi nell’attuale Lombardia.
La prima leggenda ci dice che durante l’assedio di Pavia il re longobardo Alboino (siamo circa a metà del VI secolo d.C. ) si vide offrire un pane dolce a forma di colomba, come richiesta di tregua e pace.
Ancora, siamo tra i regnanti longobardi. La Regina Teodolinda – intorno all’anno 612 – diede un banchetto in onore del padre irlandese Colombano. Al suddetto banchetto c’erano molte pietanze contenenti carne, che il padre non poteva mangiare per le restrizioni del suo credo; allora, con un gesto, trasformò le carni in bianche colombe. La regnante rimase così colpita da donare il territorio di Bobbio a Colombano e i suoi confratelli, in modo da permettere loro la fondazione dell’Abbazia di San Colombano. Ad oggi il santo viene sempre rappresentato con una colomba bianca sulla spalla.
La terza versione si riferisce alla Battaglia di Legnano, (1176), con la vittoria dei Comuni lombardi contro l’invasore Federico Barbarossa. Si narra che furono viste delle colombe bianche posarsi sopra le insegne dei lombardi; il condottiero che le vide diede ordine di preparare pani a forma di colomba per infondere coraggio ai suoi cavalieri.
Sembra abbastanza chiaro che la diffusione di pani pasquali – probabilmente coevi o addirittura discendenti del panettone – era una cosa abbastanza comune. In particolare nel Nord Italia, ma non mancavano versioni di dolci pasquali diffuse in tutta la penisola.
La verità storica della colomba
Così come è stato per il panettone, la fuoriuscita dai confini lombardi la si deve alla produzione su larga scala di questo bene, che avvenne per opera dell’azienda Motta; in particolare, dobbiamo l’invenzione vera e propria della colomba “industriale” ad un pubblicitario noto, Dino Villani. Difficile definire chi fosse Dino Villani: pubblicitario, artista, pittore, incisore, critico d’arte. Fu tra i primi ad utilizzare tecniche integrate di comunicazione, con risultati palesemente efficaci e che perdurano ancora oggi.
Era già riuscito nell’opera di diffondere il panettone a livello nazionale, proponendo di premiare i vincitori del Giro d’Italia con un lievitato da ben dodici chili. L’evento sportivo era seguitissimo, imperdibile per tutti gli italiani: anno dopo anno, dal 1934, sortì l’effetto desiderato. L’azienda di Angelo Mottaprese il dominio della scena nazionale del panettone.
Per quanto riguarda la colomba, Dino Villani fece una semplice ma efficace pensata: riutilizzare i macchinari e molti tra gli ingredienti già utilizzati per i panettoni natalizi per produrre fino alla fine della Pasqua.
Di fatto l’eclettico Villano aveva applicato quello che oggi è un concetto del marketing comune nell’industria alimentare: la line extension, ovvero l’ampliamento della linea di prodotto volto a coprire più fasce di mercato possibili, estendendo letteralmente il ventaglio dell’offerta a fronte di una domanda variabile, anche in base alla stagione.
Alla Motta subentrò, in un secondo momento (a partire dal 1944), la Vergani, azienda produttrice di colombe ancora oggi salda sul mercato dei lievitati da supermercato, nella fascia medio-alta.
Il Rito del caffè espresso italiano tradizionale e la Cultura del caffè napoletano candidati dal Mipaaf come patrimonio culturale immateriale dell’umanità Unesco.
Dopo il riconoscimento Unesco per la pizza anche il caffè è in lista per diventare uno dei patrimoni culturali immateriali. Il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (Mipaaf) ha inserito sono stati inseriti nell’Inventario dei Prodotti agroalimentari italiani (INPAI) il rito del caffè espresso italiano tradizionale e la Cultura del caffè napoletano. La documentazione è stata inviata alla Commissione Nazionale dell’Unesco che dovrà decidere sull’avvio del procedimento.
“Giornata dell’Accademia Italiana della Cucina
a Rhèmes-Notre-Dame in Valle d’Aosta”
Incontro del 6 marzo 2021 al Ristorante dell’Hotel ‘Granta Parey’, sede scelta dal Simposiarca Paolo Sammaritani della Delegazione di Aosta”
di Gian Paolo Meneghini *
“Quando la montagna ospita l’uomo” allora Louis Oreiller, l’uomo che parla alla montagna, ne diventa il vero protagonista: ospite di quel regno roccioso dipinto dal cielo blu, lo ha custodito, accarezzato e protetto non perché era suo, ma bensì perché lui gli apparteneva. Così lo presentava l’antropologa alpina nonché scrittrice Irena Borgna, nel suo libro “Il pastore di stambecchi”.
Il Gruppo italiano annuncia l’apertura di un esclusivo ristorante su due livelli, con lounge panoramica, all’interno del Distretto finanziario internazionale di Dubai.
Unregular pizza è il nome dell’idea di un giovane romano trasferitosi a New York, che consiste in un semplice scambio tra una pizza fatta a mano con un altro prodotto artigianale.
Gabriele Lamonaca, è il trentenne romano che in queste settimana è finito anche sotto i riflettori delle grandi testate americane per la sua idea della “unregular pizza”. Una vera e propria forma di baratto, offrire cibo in cambio di altro cibo. “Da un po’ di tempo avevo questo sogno di aprire la mia pizzeria a New York e un anno fa le restrizioni del Covid, per me come per tutti, hanno bloccato il percorso – ha spiegato Gabriele – Non volevo rinunciare però a portare avanti la mia idea e mi sono chiesto come potevo lavorare al prodotto, facendolo provare ad amici e conoscenti, provati anche loro dalla pandemia. Perché non offrire dunque la mia pizza, in cambio di altro cibo?”.
Vi prego non chiamiamole quote rosa, queste donne chef sono talmente cazzute che potrebbero, e forse dovrebbero, governare il mondo. Gestiscono ristoranti, collezionano stelle Michelin come fossero figurine Panini, fondano associazioni benefiche e si occupano anche delle proprie famiglie.
La cucina è donna, ma fin troppo a lungo è stata dominata dagli uomini, ricordiamolo sempre: il talento non ha genere.
Tutto molto bello ma…
Però rifletteteci: ancora oggi nell’immaginario collettivo la donna in cucina è colei che alleva, nutre e coccola la famiglia, mentre l’uomo ci appare nella sua divisa intonsa, pronto a dirigere una brigata venerante, come il nuovo sex symbol dei nostri tempi.
Le cose stanno ormai cambiando, grazie al cielo! A suon di eccellenze l’universo femminile si è fatto strada anche in questo campo, dimostrando, ovviamente, di esserne più che all’altezza.
Voglio cominciare con una premessa: segue una lista di donne che cucinano per professione portando a casa grandi risultati e che, non solo secondo me, lasceranno il segno nella storia.
Ma oltre a loro ce ne sono tante altre, mi duole davvero non averle inserite tutte, ma vi avrei obbligati a leggere questo articolo fino alla vecchiaia.
SheF Valeria Piccini: dalla Maremma con amore
SheF – She+F – non è un nomignolo, ma un vero e proprio marchio registrato che, se la pandemia non avesse stravolto il mondo e i piani di tutti, sarebbe diventato un progetto concreto per supportare le aspiranti chef.
Valeria Piccini è stata fortunata perché la sua carriera ha coinciso con la famiglia, anche se non è sempre stato facile, ma è ben cosciente di quanto sia complicato per una donna far conciliare la vita privata e un lavoro che richiede tante ore di servizio.
Non bisogna mollare
Per questo vorrebbe incoraggiare le donne a conquistarsi il proprio posto nel mondo culinario, senza farsi abbattere da barriere e stereotipi, ormai passati e senza senso.
Se lo dice lei, che è riuscita a trasformare la trattoria di un paesino da 200 abitanti in un ristorante bistellato, possiamo fidarci. Da Caino ha ottenuto un successo sorprendente, la prima stella è arrivata nel 1991 e la seconda nel ’99, grazie a una cucina che attinge dalla tradizione e la rinnova, con particolare attenzione alla qualità degli ingredienti, che vanno sfruttati fino all’ultimo grammo, per evitarne ogni spreco.
Uno dei piatti di Da Caino
Vicky Lau – le prime due stelle Michelin in rosa di tutta l’Asia
In Asia non era mai accaduto prima che una donna vincesse ben due stelle Michelin, quest’anno però la chef Vicky Lau ha piacevolmente stupito col suo risultato senza precedenti.
La Hong Kong & Macau Guide le ha assegnato il riconoscimento per il lavoro svolto nel suo ristorante di Hong Kong, la TATE Dining Room, dove propone una cucina innovativa, d’impronta franco-cinese.
La cucina è creatività e impegno
I suoi piatti raccontano una storia, come suggerisce il menù di otto portate che ha chiamato proprio “Edible Stories”.
Ciò che più stupisce della sua carriera è che prima di diventare una dea dei fornelli si occupava di grafica pubblicitaria in America. Poi, di punto in bianco, spinta dalla voglia di dare ancora più sfogo alla sua creatività, si è iscritta prima a un corso base di tre mesi presso Le Cordon Bleu a Bangkok per poi conquistarsi il Gran Diplôme di nove mesi al corso Le Cordon Bleu Dusit. Una vera fuoriclasse.
Hélène Darroze: chef donne famose? Vabbè ciao!
Hélène appartiene alla quarta generazione di una stirpe di ristoratori francesi, ha mosso i suoi primi passi al fianco di Alain Ducasse, nel suo Le Luis XV a Montecarlo e oggi è una delle chef più importanti del mondo.
Quest’anno ha ricevuto una seconda stella Michelin per il suo ristorante di Parigi Marsan ed è stata premiata con tre stelle Michelin nella guida Gran Bretagna e Irlanda per Hélène Darroze at The Connaught, il ristorante londinese che si trova all’interno del Connaught Hotel.
Un’icona della cucina moderna
Hélène è una mamma single che ha anche contribuito alla fondazione dell’associazione Le Bonne Etoile, in aiuto dei bambini più svantaggiati e per la quale ha ricevuto l’onorificenza di cavaliere dell’Ordine nazionale della Legion d’onore.
Il mondo la riconosce, ormai, come un’icona femminile dell’alta cucina: è a lei che ha pensato la Pixarquando nel 2007 ha creato il personaggio di Colette per Ratatuille ed è sempre a lei che si è ispirata la Mattel quando nel marzo 2018 ha realizzato Barbie Chef, in occasione dell’International Women’s Day .
Alice Waters: si comincia sempre dall’ingrediente
Nel suo ristorante di Berkeley Chez Panisse ha definitivamente stravolto la cucina americana, che fino al suo arrivo era fatta di fast food e cibi preconfezionati. Da lei un pasto si prepara partendo dall’ingrediente, è al mercato la mattina che si decide cosa mettere sul menù che, ovviamente, cambia ogni giorno.
I progetti che segneranno la Nazione
Nel 1996 ha dato vita al progetto Edible Schoolyard, creando un orto a disposizione della cucina della scuola e coltivato proprio dagli alunni. Ha anche aiutato Michelle Obama a realizzare un laboratorio di agricoltura biologica nel giardino della Casa Bianca.
Non è, quindi, assolutamente un caso che sia vicepresidente di Slow Food International, associazione di cui incarna alla perfezione i valori da quando cominciò a muovere i primi passi nella cucina, dopo un viaggio in Francia dal quale tornò in America cambiata per sempre.
Claire Vallée e la rivincita delle bionde… vegane
La cucina francese e la carne sono un tutt’uno, quindi la scelta da parte della Guida Michelin Francia 2021di premiare un ristorante vegano è stata sorprendentemente lungimirante.
L’Ona – che sta per Origine Non Animale – di Claire Vallée non è di certo il primo ristorante a eliminare la carne né, tantomeno, il primo ad aggiudicarsi un riconoscimento simile, ma ogni piccolo passo verso l’innovazione è una grande conquista per la cucina. Non si può trascurare quanto l’alimentazione senza carne e senza derivati sia oggi parte integrante delle nostre vite.
Dessert de carottes confites à la passion, meringue géranium, éclats de chocolat noir, crème au yuzu, tuile de citron. | Ph. Cecile Labonne
So’ soddisfazioni
Ma sapete qual è la cosa che dà più soddisfazione? Claire Vallée ha aperto il suo ristorante nel 2016 solo grazie al crowdfunding e al supporto di una banca verde. Gli altri istituti bancari non credevano possibile che un ristorante simile potesse ottenere successo. La chef si è guadagnata la sua rivincita, dimostrando al mondo che passione e perseveranza possono tutto –Tiè!-.
Antonia Klugmann e la sua stanza tutta per sé
Mi dovete spiegare perché se è Gordon Ramsay a fare il giudice il fatto che sia uno str*** lo renda figo, mentre quando si tratta di Antonia Klugmann diventa un’arpia da riempire di insulti. La cosa non mi torna!
Quando era ancora chef al Venissa, nell’isola di Mazzorbo, un certo giornalista che s’inorgoglisce nell’autodefinirsi “acceso misogino” di lei ha scritto: “…al Venissa si serve in tavola l’ideologia del gender: per me indigesta, ma de gustibus .”
Non entrerei nel merito di quell’articolo che comunque potete leggerequi; piuttosto mi concentrerei sul fatto che Antonia Klugmann, insieme a tante altre sue colleghe, ha ricevuto spesso il classico trattamento che si riserva alle donne che dimostrano autorità nel mondo del lavoro.
È successo anche quando ha sostituito Cracco a MasterChef, dove ha dimostrato un carattere bello tosto, che l’ha condotta, però, a trasformarsi nel bersaglio di tanti leoni da tastiera frustrati, che le hanno detto veramente le peggio cose.
Ma che ce frega, noi abbiamo la cucina!
Il suo è un ristorante di confine: L’argine a Vencò si trova in provincia di Gorizia, poco distante dal fiume che ne ha ispirato il nome, a solo un chilometro dalla Slovenia. Ma è anche il confine ideale fra ciò che l’ha formata e quello che la ispira quotidianamente.
Quando parla di donne in cucina, Antonia Klugmann lo fa citando Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, dove l’autrice s’interrogava sullo scarso numero di scrittrici nel suo tempo. Il problema è profondamente culturale: la donna è ancora subissata da una serie di compiti che le sono stati attribuiti a livello sociale e che spesso le impediscono di pensare e progettare.
Serve uno spazio dove poter dare libero sfogo alla creatività e per chef Klugmann è proprio la cucina. Non ha mai dato ai suoi colleghi dei maschilisti, anzi, nell’intervista rilasciata a La Cucina Italiana nel numero di cui è stata direttore per un mese proprio l’anno scorso, ha detto: “La prima volta che sono entrata in cucina non mi sono vista femmina o maschio, ho visto me stessa”.
Asma Khan e la sua brigata in rosa
Siete mai stati a Londra? La cucina indiana è sicuramente fra le più diffuse e amate dagli inglesi. I piatti di Asma Khan ne esplorano tutte le declinazioni, raccontando la storia della sua famiglia e delle sue origini.
Dopo il trasferimento a Londra insieme al marito, Asma si ritrovò a vivere a lungo in uno stato di desolata solitudine, che riuscì a colmare solo tornando in India a farsi insegnare la cucina di casa.
Di rientro a Londra cominciò ad accogliere le persone nella propria cucina, con dei Supper Club, che diventarono letteralmente virali. Qualche anno dopo aprì Darejeeling Express, il suo ristorante a Covent Garden.
Sorellanza ai fornelli
Asma è la chef dell’uguaglianza: la sua cucina è composta esclusivamente da donne che hanno alle spalle storie difficili, lei le accoglie, offrendo loro un mestiere e tutto il supporto di cui hanno bisogno.
Giungendo da una terra che non fa emergere la donna e che l’ha obbligata tutta la vita a misurarsi con la colpa di essere una secondogenita femmina, Asma ha fatto il possibile per affermarsi. Il suo fascino indiscusso è stato ritratto in una delle più belle puntate della serie Netflix Chef’s Tables, vi consiglio di guardarla!
Jessica Préalpato: la migliore pastry chef del mondo
Fare la rivoluzione è così tipicamente francese, ma rivoluzionare la cucina di Alain Ducasse è da veri impavidi. Jessica Préalpato arriva dalla tradizionale formazione pasticcera a suon di burro e croissant. Nel 2015 inizia a lavorare al Plaza Athénée, ristorante parigino nel quale il mito indiscusso dell’alta cucina Alain Ducasse ha scelto di non servire carne – pur continuando a servire pesce.
Si parla di naturalité: una cucina sensibile alle nuove necessità alimentari legate alla sostenibilità e alla salute.
Liberté, Naturalité, Desseralité
Qui nasce anche il concetto di desseralité – dessert + naturalité – coniato dalla Préalpato: via gli zuccheri, le creme e le decorazioni che fanno tanto ancien régime e dentro tutta la dolcezza della frutta all’apice della sua maturità, erbe e vegetali.
E se i primi esperimenti non hanno incontrato i gusti del Maestro, alla fine la pastry chef più famosa del mondo l’ha a dir poco conquistato. Nel 2019 Ducasse Editions ha pubblicato il suo libro intitolato, appunto, Desseralité, che raccoglie le ricette di chef Préalpato e gli abbinamenti più innovativi.
A meno di un giorno dalla finale di Masterchef, che vede come protagonisti Monir, Aquila, Antonio e Irene, ci stiamo ancora capacitando del perché sia stato eliminato Maxwell, uno dei concorrenti più amati di questa decima edizione. Riprendo l’articolo di Dissapore scritto da SONIA RICCI su un inedito Maxwell a spasso per Roma.
Abbiamo ragione di pensare che ci sia (ancora?) una buona fetta di persone che segue i dettami della Quaresima, cioè il periodo immediatamente dopo Carnevale, che prevede una serie di rinunce alimentari, fino ad arrivare alla Pasqua. In Campania la Quaresima non è soltanto privazioni e ricette povere: un popolo ossessionato dal cibo, come lo è quello napoletano, non poteva esimersi dal creare una filosofia alimentare della Quaresima, con tutti i piatti tipici annessi e connessi.
Prima – molto tempo fa, insomma – la Quaresima era qualcosa che si slegava quasi totalmente dalla componente religiosa, per abbracciare quella aristotelica del tempo, quando questo era tutta la fusione del calendario sia civile che religioso. Cerchiamo quindi di ricostruire questo periodo particolare dell’anno, che letteralmente scandiva i tempi degli uomini del passato.
Come nasce la Quaresima?
Convenzionalmente, la Quaresima racchiude i quaranta giorniche intercorrono dal mercoledì delle ceneri (il giorno dopo il Martedì Grasso) ed il giorno di Pasqua. Durante questi giorni, banalmente, ci si priva di alimenti golosi, “ripercorrendo” i giorni che separarono il Cristo dalla crocifissione prima e resurrezione poi.
C’è molto più da dire, ovviamente: cercherò di farlo in maniera lineare e soprattutto breve.
Parlando di Quaresima, è necessario però fare una distinzione tra calendario naturale e calendario alimentare. Secoli fa, quando c’era poca possibilità di conservare alimenti per lungo tempo (se non con tecniche di salatura e poco altro), i ceti più ricchi dimostravano il loro status symbol mangiando cibi freschi fuori stagione; invece, i ceti più bassi erano “costretti” a mangiare cibi conservati, sfidando la stagionalità dei cibi.
Nel 500 d.C. circa si aggiunse a questa cornice l’elemento religioso, di natura cristiana. I giorni “di magro” raggiunsero anche la non modica quantità di circa 160 giorni all’anno in cui la carne (e in origine, anche pesce, formaggio e derivati animali) era bandita. Questo simboleggiava, sicuramente, una grande importanza data alla carne. Da non sottovalutare poi le invasioni barbariche: queste popolazioni, molto adepte alla carne, avevano costumi che mal si adattavano a quelli dei discendenti dell’impero romano.
Inizialmente, furono soltanto i monaci e gli asceti a praticare questo tipo di rinuncia. Si praticava durante le piccole e grandi Quaresime (c’erano dei periodi interi, mentre ora ce n’è solo uno), nei prefestivi, i mercoledì e i venerdì. Ora la cosa si è parecchio semplificata, dedicando solo i venerdì ed al massimo i mercoledì delle settimane prima della Pasqua. Le prime tracce di Quaresima le abbiamo soltanto nel XIII secolo, ne La bataille de Caresme et de Charnage (La battaglia della Quaresima e del Carnevale), fabliau francese medievale appartenente al genere della satira.
Dopo aver fatto questo riassunto rapido a beneficio di tutti, vi lasciamo ai piatti tipici della Quaresima in Campania.
Frittata di scammaro
Probabilmente il piatto più iconico della Quaresima napoletana, la frittata di scammaro è stata a lungo abbandonata e poi ripresa dalla gastronomia popolare, al punto da diventarne un’autentica icona. Perché scammaro? Da ciò che dice il dottor Tommaso Esposito, gastronomo napoletano, “scammaro” deriva da ex camera, cioè “fuori dalla camera”; i monaci mangiavano di magro nel refettorio comune con un vitto leggero. Quando ci si ammalava, si restava in camera. Mangiare leggero, scammariare; mangiare grasso, cammariare.
Dopo la nota storica, passiamo alla ricetta. Cos’è in buona sostanza la frittata di scammaro? Si tratta di una frittata di spaghetti, semi cotti in acqua bollente, successivamente ripassata in padella con olio, frutta secca (come noci, pinoli, ma anche uvetta), erbe spontanee per insaporire e pesce conservato (il tonno era quello più gettonato, ma non mancano versioni o quello che c’era a disposizione).
Pasta e legumi
La popolazione napoletana è sempre stata avvezza al consumo dei legumi, soprattutto come fonte proteica sostitutiva alla ben più costosa carne (della quale, comunque, spesso avevano soltanto i tagli più poveri: les entrailles, il famoso quinto quarto napoletano, fatto di muso, piede, intestino tenue, stomaco, mammella). Quindi, il loro utilizzo non può che intensificarsi durante il periodo della Quaresima. In particolare, il primo giorno di Quaresima a Napoli (il cosiddetto mercoledì delle ceneri), è tipico mangiare pasta e ceci, anche chiamati tuon’ e lampi. Tra i formati di pasta secca utilizzati, solitamente si scelgono tubettoni lisci e rigati, oppure pasta mista composta da tutti i vari frammenti di altri formati; chi utilizza pasta fresca, solitamente “tira” le cosiddette lagane, dando vita proprio a lagane e ceci, piatto tipico anche del Cilento.
Baccalà e stoccafisso
Le differenze tra baccalà e stoccafisso dovreste ormai conoscerle a menadito; in Campania abbiamo una fortissima tradizione riguardo a entrambi, con ricette gustosissime che spaziano dal piatto povero all’opulenza gastronomica. Quest’ultima, soprattutto, si manifesta in maniera prepotente durante il periodo di Quaresima. La Campania ha molte zone dedite alla cucina di baccalà e stoccafisso: si va dall’entroterra irpino fino alle zone prossime al mare. Il merluzzo nordico conservato è stato da sempre merce di scambio tra i poli commerciali della regione, utilizzato per avere in cambio verdure, carni, formaggi e permettendo una diffusione di questo alimento e di svariate ricette.
Il baccalà alla napoletana è una ricetta comune del periodo di Quaresima, anche chiamato in alternativa baccalà arrecanato: consiste in baccalà con sugo di pomodoro arricchito con olio, aglio, origano ed olive nere, spesso insaporito da abbondante sale. A questo piatto, bene si abbina il pane cafone da criscito, spugnoso, adatto per la scarpetta.
Un piatto un po’ più povero ma ugualmente gustoso è lo stoccafisso conciato: il pesce viene bollito, poi arricchito da olio extravergine d’oliva a crudo, succo di limone ed olive verdi.
Alici e colatura di alici
Le alici sono pesciolini poverissimi e facilmente reperibili dai pescatori; per questi motivi, da sempre fanno parte della dieta di magro. In Campania spesso vengono indorate e fritte, cioè passate in una pastella composta da farina, uovo, pepe e formaggio e successivamente fritte in abbondante olio. Consistono in un secondo piatto molto comune, spesso accompagnate da pane ed insalata. Ancora, un altro piatto tipico che non prevede la presenza di grassi animali sono le alici in tortiera, ricetta che prevede l’utilizzo di alici freschissime, prezzemolo, aglio, limone, sale ed olio extravergine d’oliva.
Storia affascinante è quella della colatura di alici, un prodotto famoso in tutto il mondo, ma in origine diffuso come condimento saporito e povero. Si dice che la colatura di alicisia una diretta discendente del garum romano, cioè di quegli intingoli che contenevano non-meglio-precisate interiora. Come fosse fatto il garum, possiamo solo immaginarlo: spesso l’archeologia gastronomica sfocia nella fantascienza, avendo a disposizione così pochi reperti. Sappiamo però com’è fatta la colatura e soprattutto quale sia il suo posto: infatti, viene prodotta a Cetara, piccolo borgo marinaro della Costa D’Amalfi, che da poco ha ricevuto il riconoscimento per la colatura d’alici di Cetara DOP. Alle alici appena pescate nel golfo di Salerno vengono tolte le teste ed eviscerate; tradizionalmente, le alici vengono poi poste e pressate nel terzigno di legno, una sorta di botte sulla quale vengono posti sale e dischi di legno, che fanno pressione sulle alici. Il liquido che affiora viene raccolto in vasi trasparenti, messi poi al sole, in modo tale da far evaporare l’acqua in eccesso, lasciando unicamente il concentrato. Bisogna ben dosare la colatura di alici: è umami allo stato puro, bastano poche gocce per insaporire un’abbondante dose di spaghetti. Basta aggiungere, a piacere, una piccola dose di frutta secca per avere un piatto sì magro, ma carico di sapore.
Uova in purgatorio
Il culto delle uova, a Napoli, è qualcosa di trascendentale: su un uovo si reggerebbe il destino di Napoli, il famoso uovo di Virgilio Mago, l’uovo cosmico posato nelle viscere dell’isolotto di Megaride, sotto Castel dell’Ovo appunto. Sebbene prima non fossero permesse, chi sceglie di ridurre il consumo di carne in questo periodo fa sicuramente uso delle uova.
Le famosissime uova in Purgatorio (ova ‘mpriatorio) prevedono l’immersione delle stesse in un sugo semplice di pomodoro; vengono così chiamate perché – a detta di alcuni – le uova assomiglierebbero ai volti dei defunti, avviluppati dalle fiamme del Purgatorio. Ciò che di vero sappiamo è che questa ricetta, dopo essere passata nel dimenticatoio, sta riscuotendo nuovo successo sulle tavole tradizionali delle trattorie partenopee.
Quaresimali napoletani
Non poteva certo mancare il lato dolce della Quaresima, qui rappresentato appunto dai biscotti chiamati quaresimali napoletani.
Del tutto simili ad una sorta di cantuccino toscano – quindi a base di farina, zucchero, mandorle tostate, i quaresimali napoletani si differenziano da questi sostanzialmente per l’aggiunta di diverse spezie come la vaniglia, i chiodi di garofano, noce moscata, cedro e talvolta la cannella.
Come chiamiamo il dolce tipico del Carnevale? Chiacchiere, bugie, frappe o crostoli?
Tanti nomi che però vanno ad indicare lo stesso dolce, una croccante striscia di pasta fritta che unisce tutta l’Italia attraverso origini, storia e appunto i nomi.
Sin dall’antica Roma, il nome che veniva usato, e quindi il più antico, è crostolo; oggi però ogni regione rivendica con fermezza la propria variante del nome sostenendo che sia quella esatta. Per questo un elenco con i nomi dei crostoli comuni nelle regioni d’Italia potrebbe tornare utile. Una piccola lezione di geosinomia!
bugie (Piemonte, Liguria);
cenci o crogetti (Valdarno);
chiacchiere (Umbria, basso Lazio, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia, ma anche a Milano, in Lunigiana, in Emilia settentrionale e in alcune zone della Sardegna);
cioffe (Abruzzo, Molise);
cresciole (Pesaro);
cróstoli o gróstoli (Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia, alcune zone della Liguria);
cunchielli (in alcune aree del Molise); fiocchetti (Montefeltro, Romagna);
frappe (Lazio, Aquilano, Umbria, alcune zone delle Marche e dell’Emilia);
frappole-sfrappole-sfrappe (alcune zone della Toscana, Marche, Bologna e Bassa Romagna);
galàni (zona tra Venezia, Padova e, in parte, Verona);
galarane o saltasù (Bergamo, Sondrio);
gale (Vercelli, Novara);
gasse (Montefeltro);
guanti (Alife, zona del Matese);
intrigoni (Reggio Emilia);
lattughe (Mantova, Brescia);
maraviglias (Sardegna)
merveilles (Valle d’Aosta);
sprelle (provincia di Piacenza);
stracci (alcune zone della Toscana);
melatelli (se con miele, Maremma toscana);
risòle (Cuneo e sud del Piemonte);
rosoni (Modena, Romagna);
stracci, lasagne, pampuglie, manzole, garrulitas (in sardo).
I nomi sono infinite ed anche le varianti locali sono infinite, ma il principio alla base della ricetta è pressoché lo stesso: un impasto di farina, zucchero, uova cui viene aggiunta una componente alcolica (acquavite, grappa, vin santo, marsala), fatta poi una sfoglia sottile e tagliata a strisce smerlettate, viene fritto e spolverato di zucchero.
La prima traccia risale ai tempi degli antichi romani, dove il Crustularius, il pasticciere che preparava il crustulum, friggeva questa crosta croccante che veniva poi passata nel miele. Il crustulum è, a sua volta, un’evoluzione della lagana, discendente del lasanon dei Greci. Si preparava impastando farina di farro o frumento con acqua, tagliata a strisce, al forno o fritta, e condita con sale. Veniva poi consumata con ceci e porri, così come scrive Orazio nelle Satire: inde domum me ad porris et ciceri refero laganique catinum.
Per quanto sia un dolce tipico, tradizionale e popolare, ci sono pochissimi ricettari che ne trattano in modo preciso. Nei grostoli di Bartolomeo Scappi (Opera, 1570), al posto delle uova, per colorare l’impasto, troviamo lo zafferano. Dal Basso Medioevo sappiamo che non sono più addolciti col miele ma con lo zucchero, ma riuscire a trovare le dosi e le proporzioni precise è ancora difficile. Le varianti regionali, provinciali e pure comunali delle “croste” sono decine, ognuna con differenze legate, allo spessore della pasta, alla forma ma soprattutto alle dentellature del bordo.
In Veneto ci sono sia i crostoli che i galani, più sottili e allungati e chiamati così dallo spagnolo gala, cioè fiocco sfarzoso e grazioso da indossare in occasioni mondane e frivole, al collo. In Toscana c’è il cencio (già attestato nel XIII sec.), quindi la frappa o sfrappa (1427, dal francese antico: frangia, lembo frastagliato di vestiti, ma anche da frappare “ingannare, ciarlare, millantare”), le chiacchiere (propriamente: chiacchiere delle monache), le bugie, gli intrigoni, a rifarsi al significato figurato di “inganno”, bugia”.
Qualunque sia il nome, e le varianti, restano sempre strisce di pasta, più o meno spessa, rese croccanti dall’olio bollente che fanno del Carnevale il dolce d’eccellenza.
Personificazione stessa del Carnevale, cibo di strada secolare, comfort food spugnoso e zuccherato nelle rigide giornate invernali, traghettatrice fritta dai lievitati natalizi a quelli pasquali, la frittella veneziana non è classificabile come un banale “dolce tipico” ma assurge a modo di essere e di vivere la città, classificatore di personalità e rivelatore di caratteri, ben oltre i gusti gastronomici e le preferenze individuali. A tracciarne la storia, l’errore più grande che si possa commettere è quello di liquidarla semplicemente come appartenente alla grande categoria dei “cibi fritti”, che dai Romani in poi attraversano secoli e tradizioni regionali declinati in decine di varianti.
Per arrivare alla sfera dolce lievitata e piena, arricchita da pinoli e uvetta di oggi, infatti, la strada inizia sì in epoca romana, ma trova subito una sua identità unica. Ecco quindi la storia della fritola veneziana, per affrontare in modo scientifico il Carnevale.
Conosciuto più per la sua “delenda Cartago” e il suo ruolo politico che per le sue competenze in ambito gastronomico, Marco Porcio Catone è probabilmente il primo a redigere una ricetta di frittelle. Lo fa nel suo “Liber de Agricoltura”, dove parla di “Globulos sic facto” (“I globi si fanno così”): seppur diversa da quella odierna, contiene in sé i prodromi di quella che verrà. “Per fare i globi – spiega Catone – mescola insieme cacio e alica in quantità uguali; poi fa i globi della grossezza che vuoi: Tuffali nel grasso bollente in una padella di rame. Cuocili uno o due per volta e rigirali spesso con due palette; quando sono cotti, toglili, spalmali di miele, spolverali di [semi di] papavero e servili così.”.
A condurre progressivamente i globi verso una versione più simile a quella odierna gioca un ruolo fondamentale il mondo arabo: nella seconda metà dell’XI secolo vive infatti a Baghdadun personaggio interessante, Jazla, cristiano convertito all’Islam. Tra i diversi trattati di cui è autore, uno – mastodontico – intitolato più o meno “Cammino della spiegazione di tutto ciò che l’uomo utilizza” contiene due ricette, la Zelabia e la Zelabia alia (“un’altra zelabia”).