Tra le tante iniziative in ricordo di Tullio De Mauro che stanno avendo luogo a un anno e poco più dalla sua scomparsa, non mi pare di averne vista nessuna dedicata a una delle imprese a cui teneva di più. Parlo della sua testarda speranza che l’amministrazione italiana potesse finalmente imparare, se non a parlare, almeno a scrivere in modo civile e affabile.
L’8 Settembre 1943, salvezza dell’Italia
Nei panni di Mussolini
Come sostenuto da alcuni protagonisti di questo brano di storia, vale a dire Federzoni, Grandi, Bottai, Mussolini già da Aprile 1943 presagiva che non c’era più niente da fare per lui e per il suo governo, ma, contrario per principio ad ogni pessimismo e conscio di essere il capo che portava con sè tutti gli uomini di una Nazione (il favore per il Duce era quasi un plebiscito) era concentrato a trovare una via d’uscita.
Di certo è che l’epilogo del Fascismo non lo trovò impreparato, se si fanno salvi alcuni particolari, come la scelta del suo sostituto dopo il Gran Consiglio del 24 luglio ed il modo con il quale venne estromesso. De Begnac, nei suoi “Taccuini”, riporta le risposte dategli dal Duce dopo Stalingrado ed El Alamein, battaglie che furono le porte di un abisso politico e sociale: «alle nostre guerre sono stato trascinato, con me lo è stato il Paese, contro volontà», che fa pensare al fatto che il Duce abbia a lungo esitato prima di entrare in guerra. Il 19, dopo lo sbarco degli Angloamericani in Sicilia, Mussolini ha un breve incontro con Hitler, al quale ventila l’intenzione di concludere con i vincitori una pace separata e, in sostanza, di ritirarsi piano piano dalla alleanza con il Fuehrer. Ma questi altrettanto pianamente, secondo Fest, in modo furioso, secondo altri, lo dissuade, colpito che l’uomo che considerava il più ammirevole – “di grande statura” – volesse chiudere un patto senza voler andare in fondo, e dopo il colloquio presso Feltre avrebbe riferito ad i suoi collaboratori che il Duce gli era parso malato, triste, quasi non lo ascoltava, addolorato per l’attacco aereo angloamericano a Roma, «come se avvertisse imminente – evidenzia Joachim Fest – la propria caduta.»
Da qualche accenno nel corso delle ore e dei giorni angosciosi che precedettero la riunione del Gran Consiglio, avuto con i suoi più fidati collaboratori, il Duce si era sentito raccomandare da Federzoni di adottare una politica di protezione per lui ed aveva ricevuto dal Grandi per lettera qualche presunta argomentazione che il Gran Consiglio gli avrebbe chiesto di spiegare. Mussolini risponde che avrebbe fatto ogni cosa per il bene del popolo e dell’Italia. Difatti è a continuo contatto con i suoi collaboratori, in colloquio frequente con gli alti gradi militari, meno Badoglio, che non stima, e non gli passa nessuna idea di fuga o dimissione per il capo. Attende il Gran Consiglio, conscio di averlo creato lui stesso come organo libero, con silenziosa dignità prevedendo in pectore un rimedio possibile, che, secondo il suo pensiero, potrebbe essere stato anche quello di un semplice cambio di rotta, ma prevede anche la sostituzione.
Probabilmente il Duce intuisce che Grandi avrebbe voluto prendere il suo posto senza palese inimicizia, ma, già dall’ascendere di Mussolini, questi capisce che vorrebbe essere lui al comando. Non si può negare la probabilità che con Grandi vi fossero, in comune proposito, altri del Gran Consiglio, preparati a sostituire Mussolini con l’occasione della riunione di luglio.
Un anno dopo, dopo essersi visto rifiutare da Hoepli le personali sue considerazioni intorno a qual terribile anno 1943, raccolte in un manoscritto consistente, il Duce le porta al Corriere della Sera, mai dimentico d’essere stato un fior di giornalista, e si accorda con il Direttore per poterle pubblicare capitolo dopo capitolo. Prevede infatti un peggioramento della sua situazione. «Voi – dice Mussolini – pubblicherete questo scritto, si tratta di una storia non romanzata degli avvenimenti che vanno da ottobre 1942 al settembre 1943.» Amicucci, il Direttore, gli consiglia di pubblicarli senza firma, per superare la falsità di un ostacolo interpretativo dei suoi oppositori e realizzare così la volontà d’informare gli italiani tutti, ed il Duce accetta. Il primo capitolo della “Storia di un anno” si sarebbe intitolato: “Da El Alamein al Mareth”. Il racconto della campagna d’Africa è preciso e sintetico, accettato dalla gente con vivo interesse tanto da richiedere più ristampe, ma è lo spirito con il quale esso è stato redatto che salta agli occhi dei suoi fedeli: c’è un sottofondo più che amaro, sommesso, triste: la conclusione della sconfitta di El Alamein sottintende, nel modo con il quale è esposta, quasi una giustificazione, come se il Duce avesse dovuto rispondere ad un consesso di esaminatori, come se avesse già da tempo capito che in un modo o in un altro, l’Italia ed egli stesso erano perduti.
«Io penso – dice alla Camera fascista il 2 dicembre 1942 e poi il 3 gennaio 1943 – che la storia è già stata abbastanza benigna con noi, ci ha permesso di vivere delle grandi ore… La guerra è la sintesi in cui tutto converge e tutto si raccoglie, in cui tutto è in gioco.» Queste considerazioni, seppure nel corpo del discorso volessero essere un encomio ed un incoraggiamento all’eroismo italiano, erano però una sensibile ammissione che qualcosa era stato più forte e che si preparava una conclusione non prevista indolore, se non tragica, per lui. Forte della conoscenza della mentalità di Hitler egli chiamava a raccolta la forza bellica dei connazionali ma, nel contempo, sentiva l’urgenza di dover evitare una possibile catastrofe, avvisata dalla brusca caduta di Pantelleria, che portava all’invasione angloamericana. Il bollettino di una ripresa, ad Augusta, non lo rese tranquillo, anzi, pregò il Gen. Ambrosio di smorzare in esso i toni del successo, che vedeva momentaneo.
Infatti le notizie seguenti, l’improvvisa resa del Gen. Messe, furono drammatiche e il Duce pensò anche che «la scarsissima resistenza allo sbarco avesse qualcosa di misterioso.» Che voleva dire? Era la risposta al suo presentimento o l’individuazione di qualche oscuro traditore? E continua: «sabato 24 luglio, afoso e pesante, Roma è impallidita, ed ha sentito che qualcosa di grave era nell’aria.» E questo qualcosa erano i diciannove del Gran Consiglio che mettono il Duce in minoranza.
Mussolini si chiede ora cosa farà il Re, come gli si rivolgerà, quale esito avrà la sua reazione al termine del Gran Consiglio, del quale conosce più o meno gli argomenti che dibatterà, informato da Grandi. Vede che tutti gli uomini del Regime lo accusano; Scorza, ambiguo e oscuro, lascia cadere la frase “uscirne con dignità”, facendogli ritenere che sapeva già cosa sarebbe avvenuto, anche oltre lui stesso, dimostrazione che già, ufficiosamente, prima del Consiglio, lo avevano tagliato fuori.
Scorza lo accompagnò a Villa Torlonia in una Roma deserta, nel silenzio di tutti. Rachele gli si fa incontro, e Mussolini compatisce la sua eroica compagna, trascorre con lei la notte, poi il giorno seguente torna a Palazzo Venezia, ma crede l’esito più lieve di quanto non sia. In borghese, tranquillo e dignitoso, a villa Savoia, il Re lo fa arrestare, suscitando – come riporta Bruno Gatta – la reazione sprezzante e ferma della Regina contro il Consorte, al quale dice che non ha agito da Sovrano, ed assicurando Mussolini della sua protezione.
Ma è evidente che il Re ha agito sotto la spinta delle personalità del Gran Consiglio, e si accorda al pensiero di essi di far di tutto per concludere la guerra staccandosi dalla Germania, come era intenzione di Mussolini, al primo colloquio con Hitler. Il Capo del Fascismo a questo punto è davvero sorpreso, non si aspetta la decisione reale e non sa come prendere l’assicurazione del Sovrano della sua amicizia: il Re lo ha sostituito con Badoglio, che nessuno apprezza, che tutti tengono alla larga, anche da Hitler, che lo giudica “una canaglia”.
Grandi non è convinto per la scelta del Re del sostituto incapace, e per aver con lui preso la via della fuga ignominiosa da Roma per Brindisi, lasciando al figlio Umberto l’onere pesante di dover guidare una Nazione oramai militarmente in pezzi. Mussolini sa che fuori dall’ufficialità politica gli italiani credono ancora in essa, anche se El Alamein ha sconvolto civili e militari, e si tiene, amareggiato ed incerto, in silenziosa preparazione di una sperata via d’uscita. Sa che le condizioni infime di resa incondizionata discusse dal Gen. Castellano ed accettate dalla piccineria di Badoglio hanno del tutto sclerotizzato gli animi degli italiani, che continua ad amare da buona guida, da compatriota. È purtroppo sicuro dell’inimicizia, ora, dei tedeschi verso il Paese, e sicuro del contegno odioso dei vincitori, che distruggono ed uccidono in una terra ormai in ginocchio (mitragliata di giostre, stupri, distruzioni, giudizi sommari, saccheggi – per fortuna, sventato all’ultimo momento quello del “Pulcin della Minerva”).
L’interesse malcelato per le sorti di Mussolini da parte di Hitler, che lo vuole in Germania con i familiari e qualche ufficiale fuoriuscito, provoca nel Duce, comprensibilmente disorientato, una sorta di ripresa d’interesse per la situazione italiana: così come ha promesso, ma condotto dalla volontà di mitigare l’esito possibile e tremendo di una Germania aggressiva, che in meno di una giornata avrebbe potuto invadere e per così dire radere al suolo l’Italia, costituisce un baluardo contro l’invasione immediata dell’esercito tedesco dal Nord, e crea la Repubblica di Salò con un pugno di fedelissimi che lo seguiranno fino alla morte. L’amore per l’Italia è stato per Mussolini l’amore più forte di ogni cosa, ma la costituzione di Salò non è semplicemente una decisione dettata dal sentimento, piuttosto da una chiara veduta, un netto ragionamento che questo passo possa essere l’unico a fermare un disastro.
Marilù Giannone