LA PROFONDA UMANITÀ DI UN UOMO DI CINEMA,
ALL’INSEGUIMENTO DEL GRANDE SOGNO
Una conversazione con Massimiliano Serriello
Il sogno d’imprimere un’impronta tale nel mondo da lasciare ai posteri la sentenza (ardua o meno non spetta a noi stabilirlo) è umano. Non vanaglorioso. Senza scomodare oltre uno dei padri della letteratura italiana, che si attribuiva appena venticinque lettori ma di geografia emozionale ne capiva assai poco rispetto a Giovannino Guareschi capace con assai meno parole nel proprio vocabolario di andare molto più a fondo in merito, Emanuele Cerman – attore, sceneggiatore, regista e, persino, produttore, all’occorrenza – conosce bene il rapporto tra habitat ed esseri umani. La maggior parte della critica ha definito un terreno minato quello in cui si è avventurato sostituendo alla cabina di regìa l’amico Stefano Calvagna sul set del film In nomine Satan.
Nondimeno ha dimostrato di non essere un regista per caso bensì un artista in grado di convertire il segno di ammicco un po’ superficiale del motivo figurativo in profondo motivo introspettivo. Con la metonimia, intesa come parte per il tutto, cara a Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, specie nel film cult La corazzata Potëmkin, intenta a impreziosirne la virtù di alternare passato e presente per conferire alle ragioni d’inquietudine, tradotte in spettacolo, il medesimo corollario di dubbi ed echi esistenziali di Marcel Proust nel celebre libro À la recherche du temps perdu. È un’affinità elettiva che condivide con Calvagna. L’immagine di Robert De Niro nel ruolo di Noodles (nella foto) in C’era una volta in America, attaccata alla parete del suo studio per poi comparire tra gli elementi ambientali del thriller metropolitano Cattivi & cattivi, parla chiaro: a entrambi sta a cuore tanto il bisogno di sviscerare attraverso il carattere precipuo della scrittura per immagini i codici dell’università della strada quanto l’illusione di allargare gli spazi dell’immaginazione per vincere gli spietati diktat del tempo. La morte in primis, o la commare secca come è chiamata nell’Urbe.
Non a caso c’è una targa a Roma che commemora il grande Sergio Leone («Il mio modo di vedere le cose talvolta è ingenuo e un po’ infantile ma sincero come i bambini della scalinata di Viale Glorioso») ed esprime il lascito più significativo per i figli della Città Eterna sedotti dalla fabbrica dei sogni. Alla crudezza oggettiva impiegata anche per personificare, sia con In nomine Satan sia con Cattivi & cattivi, l’emblema del Rischio e della Minaccia, corrisponde un fiero lato romantico alieno al cinismo malcelato di chi invece ingoia amaro ma sputa dolce. La schiettezza contraddistingue il modus operandi nonché lo spirito del nostro Emanuele Cerman insieme al bagaglio di fulgida umanità, riposto nell’attaccamento ai luoghi della Capitale designati a location. In mancanza di quello, l’altro bagaglio, quello, spesso sopravvalutato, dell’esperienza fine a se stessa va a farsi benedire. Molti spettatori lo identificano, senza nemmeno ricordarne nome e cognome, nei panni del borgataro ribattezzato Beato Porco che, nella prima puntata della seconda serie di Romanzo criminale, millanta, sull’onda di una sbronza dura a morire, di aver ucciso il Libanese («Dice era er re de Roma. È cascato ar primo corpo che me pareva ‘na pera cotta, me pareva… Lo sapete che c’è: se quello era er re de Roma, allora portateme ‘a corona perché io so imperatore»).
Ci penserà poi il personaggio del Bufalo a fargli coniugare la vita all’imperfetto a suon di piombo ponendo fine, agli occhi dei fruitori meno attenti, al suo bagno di popolarità. In realtà basta vederlo nel ruolo di Caronte, ritagliatosi su misura come sceneggiatore, per capire come le gag di alleggerimento, nel contesto dove l’incisivo Andrea Autullo nelle vesti del cane sciolto della malavita in Cattivi & cattivi agisce barbaramente ed energicamente, spianino la strada al talento interpretativo. Non si tratta di una macchietta schizzata con gusto canzonatorio, al fine di prendere meno sul serio l’efferatezza degli omicidi ai limiti della sostenibilità emotiva, bensì di uno slancio gigionesco colmo di senso.
Il gioco fisionomico della recitazione lo spinge ad aggiungere dettagli su dettagli, ghigni su ghigni, quindi, ma anche a sottrarre in altri casi, per ricavare dalla vocazione a fare l’attore l’acqua della vita. Ha imparato ad amare la professione a trecentosessanta gradi dal compianto maestro Ettore Scola che nell’ambito della commedia all’italiana è riuscito a trascendere i limiti del bozzetto vernacolare conferendo notevole forza significante all’analisi degli stati d’animo, sia pure spesso esibita attraverso il filtro grottesco ed esasperato della sagacia parodistica, contrapposta di quando in quando a un controcampo in filigrana ricco di sfumature e sottigliezze. È consapevole che per realizzare un film, senza santi in Paradiso né l’abitudine ad aprire le porte ritenute giuste in un ambiente intasato di opportunisti e di lacché, occorre un’indomita forza di volontà. Calvagna docet. Anche Ivan Zuccon, nel genere horror, è un esempio di perseveranza dietro l’ardua ma affascinante macchina da presa. Al bel fuoco del dotto realismo fantastico, ad appannaggio di autori più visionari ed ergo più ottimisti, preferisce, in chiave straniante, l’egemonia del cupio dissolvi sull’amor vitae. Salvo smorzare tutto col valore terapeutico dell’umorismo. Gli imperativi commerciali li affronta per quelli che sono. Rimboccandosi le maniche. Conosce il sistema. Le contestazioni velleitarie non le prende in considerazione. Anche se la paura di fare un buco nell’acqua, di costruire progetti sulla sabbia e restare prigioniero dell’illusione ogni tanto lo assale. Basta pensare, in quel caso, al sorriso di Noodles, tornato giovane, nell’epilogo di C’era una volta in America. In quel colpo di gomito c’è l’arguzia di Sergio Leone che, capovolgendo il tempo per rimandare indietro le lancette, sembra dire agli spettatori rei di aver preso per vero il sogno del protagonista onde sconfiggere il senso di colpa connesso ai delitti perpetrati pur senza volerlo contro l’amore e l’amicizia: «Ci avete creduto, eh?! V’ho fregato!».
Le difficoltà non mancheranno mai. Per chiunque ami, al pari di un profilo di Venere, le risposte empatiche – legate a un pedinamento zavattiniano, al movimento di macchina circolare posto in essere da Tarantino nell’incipit di Reservoir Dogs, i flashback del Papà di C’era una volta in America e, soprattutto, la voglia di scrivere senza sosta storie per il grande schermo nuove ed eterne – i problemi pratici vanno risolti. Con tenacia. Le varie attività di Emanuele, anche in campo produttivo, rischierebbero di slabbrare disastrosamente il diktat di Leonardo Sciascia in A ciascuno il suo se la maturazione della coscienza del professionista, ancor prima dell’artista, non aggiungesse il frutto della saggezza per vincere l’angoscia, acuita a tratti dalle crisi occupazionali del settore, senza pescare, come si suol dire, con le bombe, ma piuttosto dando del ‘tu’ ai propri sogni. Ogni tanto si avverano. Hai visto mai?! L’importante è insistere e tenere a mente l’adagio popolare che dice: “Cosa c’è di più duro della dura roccia? E cosa c’è di più molle della molle acqua? Eppure la molle acqua buca la dura roccia. Goccia dopo gioccia, dopo goccia”.
*******
1). D / Sulla base della tua vasta ed eclettica esperienza, ritieni sia più utile una sceneggiatura di gomma o di ferro?
R / La realtà dipende dall’osservatore, quindi dal mio punto di vista credo che sia necessaria una struttura di ferro, con la possibilità di lasciare alcune parti in gomma. La parte di ferro è quella sottoposta al raziocinio e influenzata dall’intuito e dall’ispirazione. La parte in gomma è legata all’istinto. Quindi la prima, quella di ferro, deve piegarsi alla volontà, alla bellezza e alla sapienza umana, l’altra, quella di gomma, è più animalesca e non determina necessariamente un miglioramento, tutt’altro, ma può supplire a una necessità e nel migliore dei casi può portare un beneficio inaspettato. Credo sia un problema italiano quello, talvolta, di non dare il dovuto rispetto a una sceneggiatura e questo perché non esiste una reale industria,quindi chiunque può pensare di modificare, trasformare e cambiare qualcosa a seconda delle esigenze: c’è chi si limita a cambiare le battute e chi taglia scene per aggiungerne altre. Ovviamente tutto dipende dalla produzione e dal contesto. Non a caso la WGI ha proposto un modello di contratto che tuteli gli autori dagli abusi. Una sceneggiatura una volta approvata non dovrebbe essere più toccata, soprattutto senza il benestare dell’autore. Questo è un problema principalmente legato al cinema indie e in parte a quello indipendente, dove tutti per mancanza di riferimenti, si ritengono in grado di poter metter bocca su tutto.
Io sono cresciuto per sei anni nella compagnia di Ettore Scola e ho visto come si lavorava sui testi e come si rispettavano gli autori. Prima di approvare il cambiamento di una battuta potevano passare ore di discussione con l’autore, se non giorni. Sia per il teatro che per il cinema si lavorava a tavolino alla presenza del o degli autori, del regista e del cast, questo per giorni e giorni. Un lavoro di perfezionamento assoluto. Ecco, questo per me è ancora l’esempio massimo di professionalità sul lavoro, dove ho compreso la reale importanza della scrittura, che rappresenta le fondamenta di qualsiasi costruzione filmica e di qualsiasi messa in scena. In tutta la mia vita professionale ho visto spesso cercare di cambiare qualcosa di quanto scritto ad attori e attrici, a registi e in alcuni casi a produttori. Quello che è certo è che ogni cambiamento effettuato è risultato funzionale in non più del 20% dei casi, per il rimanente 80% si è trattato di errori, di brutture, di penalizzazioni, di superficialità che indeboliscono il film e ovviamente vengono pagate principalmente solo da chi le ha subite e cioè da chi firma la sceneggiatura. Questo non significa che sia vietato proporre, tutt’altro, ma agire alle spalle dell’autore è sempre rischioso per il risultato finale. Ci sono ovviamente delle situazioni dove la struttura in “gomma” diventa importante per la sua elasticità e questo è il caso dei problemi di adattamento che possono sorgere sul set e quindi nella trasposizione delle situazioni o degli eventi scritti; oppure necessarie per dare più credibilità all’interpretazione di un attore o di un’attrice, che possono sembrare più credibili mettendosi in bocca le parole a modo loro quando è consentito o quando non hanno gli strumenti per dare “verità” a parole o costruzioni di frasi lontane dal loro gergo usuale. Quello del mettere in bocca le parole a un attore è l’esegesi della potenzialità della parte in “gomma”, ma anche questo procedimento andrebbe sorvegliato dall’autore: l’unico in grado di comprendere se quanto proposto e trasformato non vada in collisione o in contraddizione con il testo, il sotto testo, gli eventi o in rapporto al personaggio stesso. Per questo il lavoro a tavolino è fondamentale, ma in un certo cinema o non esiste o s’imita a una lettura veloce con metà cast presente. Non è un caso che alcuni autori scrivano personaggi immaginando determinati attori o già sapendo la composizione di alcuni ruoli del cast. Questo accade spesso per prevenire invece che per curare. Poi ovviamente esistono i colpi d’ispirazione improvvisa nati sul momento, che portano brillanti soluzioni e inaspettate alternative, ma sono rarità. Posso dire che un autore se non scrive per sé stesso e se non è protetto dalla WGA (come negli USA) o da un produttore serio e culturalmente preparato, deve adattarsi cercando di non farsi calpestare troppo. Allo stesso modo un autore non dovrebbe affezionarsi troppo a quanto ha scritto come anche alla sua immaginazione: dalla carta allo schermo cambia tutto e alcuni autori sono insopportabili ritenendosi degli Shakespeare non compresi, ma in realtà sono solo professionisti completamente privi di flessibilità. Se non c’è un budget milionario e una produzione attenta a tutelare una sceneggiatura, è solo un’illusione pensare che quanto scritto resterà fedele alla paternità dell’autore, ma penalizzarlo troppo determinerà sicuramente una riduzione del potenziale filmico. Il cinema è un lavoro di collaborazione e tutti portano qualcosa al film, ma senza la base di una scrittura solida non ci sono santi, il film resterà bidimensionale e quasi certamente un’occasione persa, qualsiasi sia l’argomento trattato, qualsiasi sia il budget, qualsiasi siano gli interpreti, qualsiasi siano le acrobazie registiche, le atmosfere fotografiche o le abilità di montaggio: tutto si tramuterebbe in velleità, cercando inutilmente di rattoppare le falle dovute ai problemi di scrittura. Ovviamente ci sono eccezioni fortunate, dove l’improvvisazione sulla base di una scaletta può dare buoni risultati, come possono esserci interessanti opere sperimentali, ma parliamo di eccezioni. Personalmente cerco di adattarmi al contesto, partendo comunque da una difesa della struttura e restando flessibile sulle eventuali richieste dovute al lavoro su commissione, che ovviamente varia da soggetto a soggetto. Sono sempre aperto alle proposte, le sposo se le trovo interessanti, ma le contesto se mi sembrano inutili o pericolose per la spina dorsale della storia o se indeboliscono i sub plot e se risultano incongruenti con l’agire dei personaggi.
Non credo sia una banalità il parallelismo della sceneggiatura con l’equazione matematica, ma anche l’eccesso di zelo matematico penalizza l’estro artistico per affidarsi solo alle rigide logiche di mercato e finendo per far ripetere a tutti la stessa storia per ogni genere. Non che un autore oggi possa inventarsi qualcosa che non sia stato già pensato e scritto, ma almeno bisogna tentare di rielaborare quanto raccontato cercando di offrire una nuova prospettiva e dando una personalità a quello che si propone. Le idee sono nell’aria e tutti possono sintonizzarsi e afferrarle, ma diventano del primo che le realizza. Questa cosa l’ho capita presto e ho imparato a sopportarla. Dal punto di vista tecnico non trovo corretto che alcuni sceneggiatori diano indicazioni di regia se non sono loro i registi del film o se non gli viene esplicitamente richiesto, ma credo sia utile fornire descrizioni, che talvolta e in maniera delicata, tra le righe, suggeriscano i movimenti di macchina per far comprendere meglio l’emotività di una determinata scena immaginata dall’autore, in vista della sua realizzazione tecnica. Questo perché, come dicevo in apertura, ognuno recepisce a modo suo la realtà e quindi anche la comprensione in lettura varia da soggetto a soggetto e allora è necessario cercare di farsi comprendere al meglio, sottolineando quello che si ritiene debba essere chiaro e inopinabile. In medio stat virtus… E allora, con le dovute differenze, che si dia la giusta importanza sia al “ferro” che alla “gomma”.
2). D / Come sei riuscito a fare di necessità virtù quando il progetto del documentario si è trasformato in un noir ed è venuto fuori Cattivi & cattivi?
R / La scrittura di Cattivi & cattivi è stata una vera prova del fuoco. Avevo lavorato per un paio di settimane sulla realizzazione di docu-fiction incentrato sulla vera storia di un ex rapinatore che avevamo precedentemente intervistato per ore negli uffici di produzione e la vita di un poliziotto da strada. Una sorta di confronto a distanza tra “guardia e ladro”, che diventava frontale attraverso una struttura circolare che metteva i due personaggi uno davanti all’altro quando entrambi si ritrovano in un bar durante una rapina condotta da una batteria di rapinatori di origini slave meridionali. La rapina era l’elemento di fiction più rilevante e doveva essere qualcosa di scioccante, in perfetto stacco con la parte documentaristica, incentrata inevitabilmente sulla nostalgia dei tempi passati, dove ancora vigevano codici d’onore rispetto alla barbara e gratuita violenza che impregna i fatti di cronaca nera dei nostri tempi. Sarebbe stata un’opera davvero interessante, perché quanto abbiamo ascoltato intervistando l’ex rapinatore,avrebbe permesso di scrivere una serie televisiva. Stavo già lavorando alla ricerca di fatti storico-politici da inserire nel contesto narrativo per dare connotazione ad ogni evento raccontato e ormai la pre produzione era già in stato avanzato, quando improvvisamente, a poco più di una settimana dalle riprese, cambia tutto. Quando mi hanno chiamato per avvisarmi del problema quasi non ci credevo e pensavo fosse uno scherzo. Tra l’altro io ero già con la valigia in mano perché due giorni dopo sarei partito con mia moglie per la settimana bianca. L’ex rapinatore si era ritirato. Non si poteva più trattare nessun argomento che lo riguardasse. Il motivo non lo sapremo mai. Abbiamo pensato avesse subito delle minacce ma non abbiamo approfondito, era la sua vita e la sua scelta meritava rispetto. Certo ci ha messo in bei casini, ma Stefano Calvagna come al solito non si è arreso, aveva mosso già tutto: la produzione era al lavoro, la troupe pronta a girare, alcune location erano già state fermate e i mezzi erano stati prenotati. Mancavano solo gli attori e ovviamente la sceneggiatura. Ho avuto una settimana per creare una storia che rimanesse fedele all’idea iniziale solo per la struttura circolare legata alla rapina nel bar, scena che in scrittura era più lunga di quanto abbiamo visto poi nel film. Mi sono messo subito al lavoro con un ritmo frenetico e quasi senza sosta.
Non credo sia stato un caso arrivare in settimana bianca con la febbre, così invece di sciare sono stato in albergo a scrivere fino al quinto giorno di vacanza. La fortuna è stata che non ho mai avuto intoppi creativi, tutto si incastrava perfettamente e ho avuto anche la sensazione di divertirmi, cosa che mi ha spinto a voler sperimentare la compenetrazione tra generi, che poi si è rivelata un punto di forza del film e ha permesso, con l’ingresso in scena di Caronte, la possibilità di inserire improvvisazioni riuscite nelle situazioni grottesche e surreali, come la scena della canzone cantata dalla banda di Savio per idea dello stesso Calvagna, che poi mi ha proposto di cantare anche nella scena dove Caronte si trucca strafatto. Quando ho scritto il personaggio di Caronte ho capito che il rischio era altissimo, ma ero convinto che avrebbe divertito gli spettatori e offerto nuove possibilità allo scandire, altrimenti scontato, degli eventi. Stefano si è fidato, tutto è andato bene e ci siamo molto divertiti.
3). D / Al grande pubblico, specie quello meno attento, sei noto soprattutto per un piccolo ruolo in una serie televisiva di enorme successo. Diventare famoso attraverso la recitazione significa divenire un po’ vanesi?
R / Per ottenere quel ruolo fui tra i primi a farsi da solo un provino e a metterlo in rete. Lo feci perché non riuscivo in nessun modo a fare avere il mio materiale al regista. Ricordo che tentai di inviargli il link via mail e scrissi il suo nome in tutte le forme possibili abbinandolo a ogni motore di ricerca per cercare di indovinare il suo indirizzo e-mail. Alla fine mi disse bene, il link gli arrivò e riuscì a vederlo. Ormai il cast era fatto per la prima stagione, ma si ricordò di me nella seconda stagione e mi offrì quel ruolo, che mi diede una certa notorietà anche perché fu associato a un tormentone estivo sul mistero di chi avesse ucciso il protagonista della prima serie. È stato certamente il minuto che mi ha dato più visibilità nella mia carriera. Credo la vanità sia qualcosa con la quale quasi tutti gli attori e le attrici devono fare i conti, soprattutto in età giovanile. Quando si capisce che la vanità è una cosa stupida, finalmente ci si libera di quell’inutile fardello dell’ego. Quando si è giovani spesso si è convinti di poter arrivare ovunque, di essere giusti per ogni ruolo; poi crescendo, scontrandosi con la realtà, assaporando il sapore della sconfitta alternato al piacere dei piccoli successi e soprattutto vedendo quanti colleghi bravi e più bravi ci girano intorno con le stesse problematiche o ammirando quelli più stimabili tra i più fortunati, ci si rende conto dei propri limiti, si capisce dove dover impegnarsi di più per migliorarsi o capire dove arrendersi restando resilienti e allora ecco la magia: si cresce interiormente. Penso che chi raggiunga il successo dopo anni di gavetta, difficilmente badi o si faccia ingannare dagli aspetti superficiali della vita e del mestiere, e non è mai un caso che i veri grandi sono sempre umili. Lo sono, non fingono di esserlo. Come ogni attore vivo sempre nel dubbio e nella speranza, ma ho smesso da più di un decennio di vivere con ansia e con tormento il mestiere dell’attore. Essendomi dedicato tanto al cinema indie e a quello indipendente, credo di aver faticato tanto e di aver raccolto poco.
C’è un detto che dice: “chi semina raccoglie”, ma da tempo ho iniziato a chiedermi se la scelta del terreno sia stata quella giusta. La carriera di un attore può cambiare dall’oggi al domani, e molto dipende dal ruolo giusto nel film o nella serie giusta. Un attore può essere bravo quanto vuole, ma se non gli capita l’occasione che lo consacri:il regista che sappia farlo emergere e soprattutto un film che faccia parlare di sé con un eco almeno nazionale (e non per forza mainstream), saranno tutte esperienze più o meno importanti per accrescere il proprio bagaglio che però non lo smuoveranno di un millimetro da quel limbo dove quasi tutti ristagnano. Certamente, se non si tratta di successo, il cinema indie e quello indipendente permettono almeno di potersi esprimere artisticamente e di poter interpretare personaggi e affrontare caratterizzazioni (con tutti i rischi del caso), che altrimenti molto difficilmente si avrebbe la fortuna di poter incarnare e questo ripaga degli sforzi profusi e migliora tecnicamente. Gli unici a restare sempre perplessi sono il direttore o la direttrice della banca, loro per la tua carriera preferiscano sempre tante pose, anche se si tratta di ruoli banali in brutte fiction, ma sai loro hanno compreso la differenza fondamentale tra gli attori famosi e quelli non famosi.
4). D / Ma, in buona sostanza, ritieni più importante il gioco fisionomico della recitazione o il carattere d’ingegno creativo di un regista come si deve?
R / Credo siano necessarie entrambe e che molto dipenda dalla storia e dal genere. Io personalmente quando vedo un film amo sentire la personalità del regista (senza accorgermi della sua mano), soprattutto quando si amalgama per sensibilità al lavoro attoriale. Un bravo regista ha già montato il film nella sua mente e non deve ricorrere a soluzioni alternative in post produzione per cercare di coprire errori sia tecnici che interpretativi o peggio incongruenze narrative. Credo un bravo regista non possa preoccuparsi solo del lato tecnico sul set come non dovrebbe pensare solo a lavorare con gli attori. Nulla va escluso e abbandonato a sé stesso. Poi serve il tempo. Il tempo è sacro e serve anche provare. Se un giorno dovessi avere la fortuna di girare un secondo film, spero accada in condizioni di sufficiente professionalità per tempo e budget. Non vorrei essere costretto a fare tutto di corsa cercando solo di mettere pezze ad ogni problema quotidiano nell’unico obiettivo di portare a termine le riprese per proporre l’ennesimo film fatto col cuore ma con troppi difetti che porta con sé gli strascichi dell’insoddisfazione di tutte le persone sottopagate o non pagate proprio, che hanno contribuito a realizzarlo. Avere tempo mi permetterebbe di provare prima delle riprese con gli attori, in modo da poter poi concentrare meglio il tempo sul set per la cura e il perfezionamento delle riprese già studiate a tavolino. Senza soldi è tutto più complicato, si perde di professionalità e si finisce con l’approfittarsi dei sogni, del tempo e del lavoro delle altre persone. Ogni tanto provo a pensare a ipotesi di forme collaborative che vedano tutti alla pari, ma il cinema non è una fabbrica di bulloni, non sai quanti ne venderai.
È una fabbrica di sogni e non sempre quando ci si sveglia ci ricordiamo dei nostri sogni. Certo tra il fare e il non fare c’è di mezzo la frustrazione e l’auto impedimento, quindi bisogna trovare un compromesso: una sfumatura grigia tra il bianco e il mero, al fine di non sprecare possibilità, ricordandosi il dovere di dare qualcosa agli altri, che non devono mai essere mero strumento dell’ego per raggiungere le proprie ambizioni. La riconoscenza è tutto, ed è parte di quella sfera che come l’umiltà è prerogativa dei grandi e per essere grandi a tutto tondo, l’altruismo non va mai tralasciato.
5). D / Da regista con In nomine Satan sei riuscito a corrispondere all’immaginazione delle masse. Cosa ha significato per te stare dietro la macchina da presa in quel caso?
R / In nomine Satan è stata un’avventura improvvisa e complicata, ma molto formativa. Io dovevo solo essere un attore del cast, ma Stefano non stava benissimo per questioni di salute e a una decina di giorni delle riprese mi ha chiesto se volevo prendere la regia. Anche in quell’occasione il rischio era di mandare tutti a casa. Così dopo averci pensato un giorno ho deciso di accettare. Avevo diretto diversi cortometraggi, due stagioni di un programma televisivo, un paio di pièce teatrali e desideravo affrontare la regia di un lungo, mi sentivo pronto. Non era la situazione e il film che mi sarei aspettato di girare come opera prima, ma nella vita non sempre si può scegliere e le occasioni vanno colte al volo. La prima cosa che ho chiesto è stata quella di poter mettere le mani sulla sceneggiatura, primo perché era scritta per la televisione (il film era inizialmente nato per questa destinazione) e poi perché analizzava i fatti come erano già stati decine di volte raccontati dai vari documentari e dalle ricostruzioni televisive e giornalistiche, senza aggiungere nulla, senza provocare un dubbio, senza spingere a nessuna riflessione.
Ho avuto pochissimo tempo per tagliare e aggiungere scene, per modificare i dialoghi e per di più dovevo occuparmi di altre problematiche organizzative, di aggiungere alcuni attori e di conoscere quelli già scelti. Ho dovuto anche trovare i soldi mancanti. Dal primo giorno di riprese e per tutti gli altri ricordo che sono dovuto passare al bancomat per tamponare qui e lì dove ci fosse esigenza. Alla fine sono entrato anche nelle vesti di produttore e mi sono pure montato il film. Una palestra incredibile. Certo ero più giovane, oggi a quelle condizioni, non credo che accetterei la scommessa, ma sono contento di averlo fatto e di essere riuscito a dare un’impronta personale al film. Il mio obiettivo era quello di ridare attenzione ad un caso giudiziario rimasto coperto da alcuni misteri e da domande che non hanno ancora trovato risposta. Per arrivare a questo ho deciso di affrontare l’argomento evidenziando il dualismo insito nella maggior parte dei personaggi, non che alcuni non avessero aspetti duali, ma su alcuni ho potuto calcare la mano. La mia scelta è stata quella di prendere spunto dal fatto di cronaca per poi dirigermi in un viaggio nell’ombra dove ho messo tutti davanti alla propria, sul quel limite sottile tra il confine della materia e quello dello spirito. Inserire quindi influenze di più generi era inevitabile e dovuto.
6). D / Sei riuscito a dare il meglio con solo 9 giorni di disposizione per le riprese. L’emergenza acuisce la capacità di adattamento ed ergo l’ingegno anche da parte dell’intera troupe?
R / Se il film è stato portato a termine è per merito di tutti. Ricordo che ci fu una crisi generale al secondo o al terzo giorno di riprese. C’erano problemi di location, distanze siderali, mancanza di soldi e ogni giorni eravamo costretti a sforare di un’ora o due. Feci una riunione con tutti sul set, parlai con il cuore in mano, convinsi tutti a fidarsi di me, gli dissi che ogni problema che avremmo incontrato sarebbe diventata un’occasione per trovare una soluzione migliore da risolvere con la creatività. Gli dissi che non avrei mai avuto dubbi e che avrei curato solo tre scene al massimo delle nostre possibilità, girandole come le avevo in testa e senza compromessi e che per il resto avrei usato il mestiere: decidendo sempre una o due inquadrature per ogni scena, così non avremmo avuto eccessivi problemi di ritardo e saremmo riusciti a portare a casa il lavoro, superando ogni difficoltà senza fermarci mai. Glielo dimostrai il giorno seguente, quando dovendo girare le scene in ospedale, scoprimmo di non avere più la location dell’ospedale a disposizione. Gli uffici di produzione erano in una palestra gigantesca e sotterranea dalle parti di Capannelle, dissi loro che avremmo girato tutto ciò che riguardava l’ospedale lì dentro, anche le scene oniriche negli scantinati e funzionò tutto. Ero sempre deciso e non ho mai permesso al dubbio di fermarmi: vedevo una cosa, anche assurda e la rendevo un’opportunità. Avevo la creatività settata al massimo e soprattutto la presenza di un fantastico reparto di fotografia.
Con Dario di Mella ci siamo capiti subito, prendevo decisioni sulle riprese in pochi istanti e lui decodificava perfettamente ogni mia intuizione trasformando ogni spazio fotograficamente in base alle esigenze visive che gli proponevo. Sono stati tutti velocissimi e fantastici, loro come tutti gli altri reparti. Ho avuto addirittura due assistenti giovani eccezionali: Roberto Urbani e Giulio Mastromauro, entrambi oggi diventati bravi registi e poi non posso scordare Giulia Carla de Carlo, che in quei giorni ha dovuto sopportarmi più di tutti, forse l’unica alla quale ho mostrato i miei dubbi e i miei nervosismi prima e dopo le riprese. Da qualche parte dovevo sfogarmi per mantenere e mostrare costantemente sul set sia il controllo, sia una necessaria calma zen per affrontare ogni problema. Dovrei nominare tutti perché a tutti sono grato, ma per questioni di spazio chiuderò ricordando tre persone che non ci sono più. La prima è una donna, con la quale era nata una sintonia artistica che sono sicuro sarebbe proseguita nel tempo attraverso altre esperienze lavorative: parlo di Francesca Viscardi, attrice e coach di alcuni attori nel film. Sono felice di averla resa orgogliosa quando ha ricevuto una nomination come miglior attrice non protagonista a NY, la città dove in passato aveva vissuto studiando e poi insegnando il metodo Stanislavskij/Strasberg, per poi tornare e aprire un importante laboratorio per attori a Roma.
Poi Luigi Passarelli, mio storico amico e collaboratore con il quale mi sono confrontato sia nella rielaborazione della scrittura e soprattutto al montaggio e infine Andrea Lancieri, caro amico e compagno di banco ai tempi del liceo, entrato in produzione a film finito insieme a me, Stefano Calvagna e Mattia Mor, per aiutarmi a sostenere il film durante la distribuzione e i festival. Non ti parlerò a lungo della distribuzione, perché è stata una nota veramente dolente: ti dico solo che mi sono trovato tutte le sale da solo con l’aiuto di Roberta Graziosi e Maria Tona, dopo che il distributore ufficiale, il giorno della conferenza stampa, a meno di una settimana dell’uscita, subito prima che il film fosse proiettato ai critici e ai giornalisti, mi disse: “Emanuele mi dispiace ma c’è un problema: non abbiamo neanche una sala”. Penso tu possa immaginare il mio stato d’animo in quel momento… ed erano mesi che gli chiedevo se andasse tutto bene, se avesse bisogno di una mano, che avrei collaborato volentieri per aiutarlo nella distribuzione, ma lui pareva anche offendersi quando offrivo la mia disponibilità. Ecco, questo è il cinema indie, e ho capito che per evitare o risolvere molti problemi, bisogna affidarsi all’intuito, perché non sbaglia mai.
7). D / Che ricordo hai del set di Concorrenza sleale? Si può definire il compianto Ettore Scola (nella foto) un tuo maestro?
R / Conoscere e aver potuto lavorare con Ettore Scola, sia in teatro che al cinema, è stato un onore oltre che una fortuna incredibile. Lui era il direttore artistico della compagnia “il piccoletto di Roma” e quindi supervisionava tutti gli spettacoli della compagnia. Per sei anni ho avuto l’opportunità di formarmi in quel contesto. Quando arrivava eravamo tutti sugli attenti. Potevamo provare per una o due settimane, poi arrivava lui e giudicava. Alcune volte ci ha smontato del tutto, chiedendo cambiamenti importanti, ma quasi sempre era soddisfatto del lavoro del cast svolto con la regia e l’autore. Era un perfezionista elegante e ironico, talvolta cinico. Un gran signore e perfetto padrone di casa in ogni situazione. Sul set di “Concorrenza sleale” si divertiva molto. Sono stato felice di avere avuto l’opportunità di vivere quel set straordinario a Cinecittà. Mai più visto un set del genere. Ricordo che la sala costumi era un intero teatro di posa: volevo provare tutti gli abiti. Era stata ricreata un’intera via di Roma negli ’40 dove ci passava un tram creato apposta. Era tutto incredibile, sembrava il paese dei balocchi della favola di Pinocchio. Lì compresi perché il cinema viene definito: “la fabbrica dei sogni”.
8). D / La tua intesa professionale con Ivan Zuccon (nella foto) è forte ed evidente. Cosa ti attira nel genere horror?
R / Con Ivan c’è una fratellanza artistica, abbiamo cominciato da giovanissimi insieme e spero che andremo avanti fino alla vecchiaia. Io ho amato molto l’horror da adolescente, poi da spettatore ho smesso di seguirlo già da una decina di anni. Sono rimasto affezionato a pochi titoli e ho sempre preferito l’horror psicologico e a sfondo politico, poi ho sempre apprezzato l’horror con influenze di più generi: quello di Carpenter e Cronenberg per farti capire, ma di tutti i film horror, il mio preferito è il meno horror di tutti: “The Shining” di Kubrik, il film che ho visto più volte nella mia vita, tratto dal romanzo dell’autore al quale sono sempre rimasto fedele: Stephen King. Secondo me il genere horror ha perso molto del suo potenziale principale: la denuncia. Soprattutto le produzioni degli ultimi due decenni sono troppo spesso meramente commerciali e ripetitive, destinate a un pubblico giovanissimo, facilmente impressionabile o a quella nicchia di pubblico che è fissato solo con l’horror più estremo e che snobba tutti gli altri generi cinematografici. Con Ivan provo sempre a dirgli di limitare il sangue in scena, chissà che un giorno mi dia retta… Ecco, anche se non sono più uno spettatore fedele del genere, lavorare come attore sui quei set è tanto faticoso quanto divertente e in alcuni casi molto stimolante (interpretare certi personaggi in TV o nel cinema mainstream te li scordi).
Il pericolo maggiore del genere horror non è solo quello di essere considerato inguardabile dalla maggior parte degli spettatori, mi riferisco a quei film splatter o gore che nelle loro forme più estreme tendono volontariamente alla depravazione visiva, esaltando aberranti forme di gratuita violenza per accontentare solo un mercato specializzato e assetato di sangue; ma più ingenerale, il principale problema del genere horror è quello di non saper più proporre storie interessanti, finendo talvolta per perdere completamente di credibilità, o proponendo nuove ondate alla già dilagante marea di film mediocri destinati solo ad un pubblico inconsapevole che bada più alla quantità che alla qualità. Ora sono moto incuriosito dal nuovo film di Avati, montato tra l’altro dallo stesso Zuccon.
Per quanto mi riguarda, se un giorno dovessi girare un horror da regista, farei un passo indietro: mi farei ispirare da situazioni al limite tra realtà e paranormale, tra analisi introspettiva e fenomeni preternaturali, cercando di proiettare il mio sguardo sul futuro attraverso l’analisi dei disagi del presente, con un fine ultimo di denuncia. Tornerei all’horror politico e anticipatore dei disagi sociali: mi vengono in mente titoli come Scanners, Videodrome, Essi vivono, Zombie, oppure all’inquietudine onirica spesso manifestata nei film di David Lynch.
9). D / Due settimane fa, al Nuovo Cinema Aquila, dopo la visione di Cattivi & cattivi, è stato chiamato in causa il solito, legittimo tormentone: non solo prodotti ma distribuiti. Perché è così dura la vita dei film indipendenti nella filiera?
R / La distribuzione è il monolite di odissea nello spazio. Qualcosa che chiunque faccia cinema è costretto ad affrontare. Se la si affronta dal basso è un ostacolo invalicabile, che può essere solo aggirato per illusione e comunque sempre condizionato dalla censura. Senza una distribuzione adeguata un film è morto prima di nascere, non guadagna, e quindi privando i produttori (indipendenti) di questa possibilità fondamentale di sopravvivenza, si uccide il cinema sperimentale, indipendente e indie. Quando un film va in sala a un produttore resta meno del 40% dell’incasso lordo. Questa condizione desolante porta a conseguenze dannose in ambito produttivo alimentando la macchina infernale dello sfruttamento. Chi coraggiosamente produce un film da solo e non mainstream, nella maggior parte dei casi trova pochi fondi (personali o aiuti di piccoli privati), ma produrre senza seguire o non potendo seguire l’iter canonico e non scontato legato ai contributi statali ed europei, al contemporaneo intervento di film commission e fondi regionali, all’implemento dovuto ai vari: tax credit, product placement e via discorrendo, sapendo di non poter guadagnare dopo, cerca di guadagnare prima e soprattutto di non rimetterci.
Chi ne paga le conseguenze? Gli artisti prima di tutto. Quelli sempre sfruttati, l’ultima ruota del carro, quelli senza i quali però non si potrebbero raccontare storie, senza i quali non ci sarebbero i film, le serie e gli spettacoli in teatro. Un assurdo che meriterebbe una rivoluzione, ma chi comanda ha capito un grande e triste segreto: gli artisti sono prevalentemente individualisti e disuniti. Sono perfetti schiavi, che si liberano solo raggiunto il successo. Da noi non c’è industria, non esistono le seconde visioni, non ci sono tassazioni sui film americani che permettano di aiutare la distribuzione dei nostri film invisibili ma interessanti. Un paio di anni fa, in Europa, i nostri rappresentanti politici hanno avuto la disgraziata idea di votare contro l’eccezione culturale e se ancora non siamo stati affogati dagli USA con i loro film peggiori è solo grazie alla Francia, che del cinema ha fatto un’industria e non poteva permettere un’invasione di mercato che sarebbe stata una definitiva e incontrastabile colonizzazione americana del nostro continente.
10). D / Come giudichi la figura del produttore in contesti come questi?
R / Purtroppo per il mio carattere introverso non sono quasi mai riuscito a propormi ai produttori. A quelli importanti non sono mai riuscito ad arrivare e quando non mi rispondono alle mail spesso rinuncio a ricontattarli. Sbaglio perché dovrei insistere e cercare di ottenere un appuntamento, ma preferirei avvenisse tramite agenzia. Insomma, ho lavorato e avuto esperienze come attore, regista, autore, montatore, produttore, ma non sono ancora capace a fare il pr di me stesso o forse non ho capito come propormi. Inutile raccontarti poi il disagio di quando ti ritrovi a parlare di cinema con pseudo produttori arroganti e ignoranti, che si avvicinano alla materia per miseri interessi personali che esulano totalmente dall’amore o l’interesse per il cinema. Ovviamente spero il futuro mi sorrida e mi permetta incontri con giovani produttori entusiasti o con persone serie ed esperte del mestiere, che ancora non si arrendono.
Recentemente è uscito un articolo su un quotidiano nazionale di una nota produzione che si lamentava di non ricevere storie inedite, ma solo proposte di sequel, remake o di sceneggiature tratte da romanzi. Ho preso il telefono con un attacco di insolito coraggio e ho chiamato per avere una mail diretta dove proporre tre mie sceneggiature inedite. Da quando ho inviato la mail sono passati giorni. A oggi non ho neanche ricevuto una riga con scritto: “grazie abbiamo ricevuto il suo materiale”. Ci sono dei problemi evidenti dovuti alla mancanza di un’industria e se non si hanno le spalle coperte e bisogna fare tutto da soli, è veramente dura. Resistere e curare tanti altri interessi. Ecco la ricetta per sopravvivere al sistema.
MASSIMILIANO SERRIELLO