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Johanna Van Gogh-Bonger – la donna che ha reso famoso Van Gogh

Penso che sarebbe terribile dover dire alla fine della mia vita: “In realtà ho vissuto per niente, non ho ottenuto nulla di grande o nobile”.

Queste sono alcune delle prime parole che Johanna van Gogh-Bonger ha scritto nel suo diario, e che oggi possiamo osare smentire, affermando che invece ha sicuramente raggiunto il suo obiettivo di vita nell’avere così tanto da condividere verso la fine della sua vita.

Il suo nome è rimasto nell’ombra per troppo tempo. Jo – come era conosciuta all’epoca e come anche Hans Luijten, ricercatore senior del Van Gogh Museum, si riferisce a lei in questo articolo approfondito pubblicato sul New York Times Magazine – era forte, audace e dedita alla sua missione di vita, ossia ottenere il riconoscimento mondiale per le opere di suo cognato, Vincent van Gogh, e ha fatto un ottimo lavoro.

Ma la nostra eroina non ha solo reso famoso van Gogh e la sua opera, ci ha anche tramandato un’eredità artistica, un concetto che ancora oggi vediamo, ammiriamo e celebriamo quando contempliamo opere d’arte di qualsiasi tipo. Come dice Emilie Gordenker, storica dell’arte olandese-americana e direttrice generale del Van Gogh Museum di Amsterdam. Il suo successo dà forma e contenuto all’immagine che abbiamo ancora oggi di ciò che un artista dovrebbe fare: essere un individuo; soffrire per l’arte, se necessario. Quando studiavo storia dell’arte, mi è stato detto di non pensare a quell’idea dell’artista che muore di fame in una soffitta. Non funziona per la prima età moderna, quando c’era qualcuno come Rembrandt, che era un maestro, lavorava con gli apprendisti e aveva molti clienti facoltosi. In un certo senso, Jo ha contribuito a dare forma a quell’immagine che è ancora con noi.

Ma chi era Johanna van Gogh-Bonger e come ha reso famosi i dipinti di Vincent van Gogh quando il mondo intero sembrava essere contro di loro?

Johanna Gezina Bonger nasce il 4 ottobre 1862 ad Amsterdam, nei Paesi Bassi. È la quinta di sette figli, figlia di un broker assicurativo. A differenza delle sue sorelle maggiori, Johanna porta avanti la sua istruzione e studia inglese, conseguendo una laurea. Subito dopo rimane alcuni mesi a Londra, dove lavora presso la biblioteca del British Museum.

All’età di 17 anni inizia il suo minuzioso diario (quello citato in apertura), che è stato nascosto dalla famiglia fino al 2009, e grazie al quale ora possiamo comprendere il ruolo enorme, se non cruciale, che lei ha avuto nella fama mondiale dei dipinti di Vincent van Gogh. Ma è poi a 22 anni che diventa un’insegnante di inglese e che, cosa più importante per quello che stiamo per approfondire, viene presentata al mercante d’arte olandese Theo van Gogh.

All’inizio non è convinta dalla proposta di matrimonio di Theo, ma in seguito sviluppa una grande affezione per lui, che poi si trasforma in un amore profondo. Si sposano felicemente, hanno un figlio – Vincent Willem van Gogh – e passano un certo tempo a godersi la vita tra intellettuali, artisti e mercanti d’arte nella vivace Parigi. Nonostante l’amore per suo fratello Vincent, però, Theo non riesce ad avere grande successo nel vendere i suoi dipinti, che iniziano ad accumularsi nella casa della novella coppia di sposi.

Inoltre, Jo e tutta la famiglia sono tutti preoccupati per la salute mentale del pittore, che molto spesso si ubriaca, finisce a dormire per strada, diventa violento o si fa del male, come quella famosa volta dell’orecchio. Lui gliene parla anche, scrivendo loro lettere sulla sua paura e inquietudine. Nel frattempo, Johanna resta al fianco di Theo, ascoltando e provando empatia per i due fratelli.

Non molto tempo dopo, non uno ma entrambi i fratelli lasciano tragicamente la vita di Johanna, uno dopo l’altro. Vincent muore per un colpo di pistola all’età di 37 anni, nel 1890, e Theo muore di sifilide poco prima di compiere 34 anni, nel 1891. Inutile dire che Johanna, rimasta sola con suo figlio Vincent in una casa brulicante dei dipinti di suo cognato, soffre terribilmente.

Ma, dopo essersi presa del tempo per guarire il suo cuore spezzato, Johanna ritorna in Olanda portando con sé tutti i dipinti che ora ammiriamoI girasoli, La notte stellata o I mangiatori di patate per citarne alcuni -, ed è ormai pronta per la sua missione. Raccoglie quanti più scambi di lettere dei due fratelli riesce a trovare e li studia, per comprendere meglio ed empatizzare con l’eredità artistica di Vincent. Queste, insieme alle opere d’arte, la commuovo e rafforzano i suoi valori personali sulla giustizia sociale:

Mi sentivo così desolata – che per la prima volta ho capito quello che doveva aver provato, in quei tempi in cui tutti si allontanavano da lui.

Quindi, Johanna van Gogh-Bonger inizia la carriera di una vita, diventando quella che oggigiorno sarebbe considerata l’agente di Vincent van Gogh. Il panorama però non è affatto favorevole, tutti sono contrari allo stile dei suoi dipinti, considerati violenti, oltraggiosi e semplicemente inquietanti per via la loro tecnica a impasto: erano troppo lontani da quello che i critici dell’epoca consideravano un’opera d’arte, dalla loro concezione di perfezione della natura, l’uso delle linee al posto dei colori, nonché l’approccio realistico ai soggetti, per non parlare del fatto che una donna stava cercando di entrare nel mondo e nel mercato dell’arte.

A ogni modo, questa donna straordinaria non ha accettato un “no” come risposta: “Non mi fermerò finché non gli piaceranno”. Essendo intelligente e motivata, Johanna si rende conto che, senza le lettere e le descrizioni dell’artista stesso, i dipinti non sarebbero stati compresi. È stata sua l’idea di metterli insieme, come un unico pacchetto, una mossa che ha convinto il critico d’arte Jan Veth, in prima linea nel circolo noto come New Guide.

Johanna ha una laurea e ha studiato lingue, non parla solo inglese e la sua lingua madre olandese, ma sa anche il francese e il tedesco. Così, grazie anche al suo approccio brillante e rapido nell’apprendimento del mestiere, riesce a vendere 192 dipinti di Van Gogh nel corso della sua vita. Viaggia in tutta Europa con più di 100 mostre, si scrive e intrattiene rapporti con persone di tutti i tipi e arriva ovunque, sempre con il figlio al suo fianco. Dimostra una forza inarrestabile e insiste sempre per fare tutto da sola.

Dopo anni passati a far conoscere e riconoscere il talento di Vincent van Gogh, il 1905 è il suo grande anno: decide di organizzare quella che sarebbe diventata la più grande mostra di van Gogh mai realizzata – con 484 dipinti allo Stedelijk Museum, ad Amsterdam. La sua gioia deve aver dato luce all’evento stesso, dato che numerosi personaggi illustri arrivano da ogni parte del continente europeo per ammirare l’arte che ha conquistato tutto il suo cuore e la sua anima.

La sua determinazione e, diciamo pure, l’ossessione di una vita rispetto a far sì che il mondo riconoscesse l’arte di Vincent van Gogh, fa sì che questa donna, sebbene sempre più debole e malata, riesca a continuare la traduzione delle lettere dell’artista in inglese, perché la sua arte conquistasse ammiratori anche negli Stati Uniti. Sfortunatamente, però, Johanna muore all’età di 62 anni, prima che potesse raggiungere il suo ultimo obiettivo.

Johanna è la persona che ha portato La notte stellata nelle nostre vite, ma è stata anche madre, moglie e nonna, insegnante e traduttrice, membro del Partito socialdemocratico olandese dei lavoratori e co-fondatrice di un’organizzazione dedita ai diritti dei lavoratori e delle donne.

Sebbene, come spesso l’ha descritta Hans Luijten, fosse una persona piena di dubbi e insicurezze, la sua vicenda mostra la sua volontà di lottare fermamente per i suoi ideali e le sue convinzioni. Quel che possiamo trarre dalla sua storia di vita è che, quando il mondo sembra andare contro di noi e noi stessi non siamo sicuri delle nostre aspirazioni perché potrebbero risultare sgradite o non venire accolte, l’esempio di donne coraggiose e determinate come Johanna possono darci la forza per andare avanti. Celebriamo e ammiriamo tutte le donne come lei, anche quelle di cui forse non conosceremo mai i nomi, ma sulle cui spalle ci appoggiamo.

Chloé Zhao- la prima donna asiatica a vincere l’Oscar come miglior regista

Nel corso di quella che rappresenta di certo la cerimonia degli Oscar più insolita fino a oggi, segnata dalla crisi post-pandemia, realizzata in modo scarno, con poco glamor, meno star e un set che ricordava i primi gala organizzati dall’Academy di Hollywood negli anni ‘30, abbiamo goduto di qualcosa di insolito e decisamente nuovo: una vera rivoluzione in termini di diversità e integrazione razziale, molto in linea con lo spirito del movimento Black Lives Matter.

Tra le altre cose, infatti, dopo aver superato i Golden Globe e i BAFTA, ieri sera Chloé Zhao è diventata la seconda donna nella storia degli Oscar a ricevere il premio per la migliore regia, oltre a essere la prima donna di un’etnia diversa, nello specifico la prima donna asiatica, a raggiungere il traguardo. Il suo terzo film, Nomadland, acclamato road movie con Frances McDormand – che per questa interpretazione ha peraltro vinto l’Oscar come migliore attrice – aveva già assicurato a Zhao un posto nei libri di storia del cinema, come riporta The Guardian, quando era stata nominata per competere in ben quattro categorie (oltre alla miglior regia, anche migliore sceneggiatura non originale, miglior montaggio e miglior film) di questa 93esima edizione degli Academy Awards.

Nata a Pechino nel 1982, la regista, produttrice e sceneggiatrice cinese-americana, Chloé Zhao si è formata tra il Regno Unito – dove ha studiato scienze politiche al Mount Holyoke College – e gli Stati Uniti, dove si è trasferita stabilmente per studiare cinema all’università. Dopo aver debuttato con Songs My Brothers Taught Me nel 2015, presentato in anteprima al Sundance Film Festival dello stesso anno, e aver realizzato The Rider, uscito nel 2017, quest’anno con Nomadland Zhao ha ottenuto il riconoscimento internazionale, e sappiamo già che alla fine del 2021 dirigerà Eternals, un film di supereroi Marvel con Angelina Jolie e Richard Madden.

Fino a oggi, nei quasi 100 anni di storia degli Oscar, solo sette donne erano state nominate per la categoria di miglior regista (Kathryn Bigelow, Lina Wertmüller, Jane Campion, Sofia Coppola e Greta Gerwig) e unicamente Bigelow e Zhao hanno ottenuto il premio, aprendo le porte a molte donne che potevano solo sognare di essere riconosciute per il loro lavoro. Certamente però, il trionfo di Zhao va oltre: questo riconoscimento alla regista asiatica da parte della mecca del cinema arriva in un momento particolarmente fragile per la comunità cinese negli Stati Uniti e in tutto il mondo. La sua vittoria pionieristica agli Academy Awards di quest’anno avrebbe potuto essere un momento di orgoglio per la Cina, una nazione che negli ultimi mesi è stata oggetto di continue critiche e di incitamento all’odio da parte dell’ex-presidente statunitense Donald Trump, retorica – legata alla ricerca di un nemico responsabile per la crisi pandemica e quindi presente anche in altri paesi – che, come abbiamo già riferito, ha avuto un notevole impatto in termini di aumento dei pregiudizi, della xenofobia e del razzismo contro il popolo cinese e, per estensione, contro altri popoli dell’Asia, sia dentro che fuori i nostri confini, e con particolare virulenza negli Stati Uniti.

Tuttavia, poche ore dopo l’annuncio della sua vittoria, la notizia non è stata riportata sul sito web dell’agenzia di stampa statale Xinhua o sull’emittente statale CCTV, e i post sui social media che celebravano il risultato sono stati censurati, come riferisce la CNN. Il silenzio ufficiale delle autorità cinesi contrasta con quello di marzo, quando Zhao ha vinto il premio come miglior regista ai Golden Globe, e i media statali della Repubblica Popolare si sono precipitati a congratularsi con lei, definendola appunto “l’orgoglio della Cina”.

A ogni modo, alla sua vittoria si aggiunge anche quella dell’interprete sudcoreana Youn Yuh-Jung, che ieri sera a 73 anni è stata insignita dell’Oscar 2021 alla migliore attrice non protagonista per la sua interpretazione nel film Minari, battendo star della statura di Glenn Close (per Elegia Americana), Olivia Colman (The Father – Nulla è come sembra) e Amanda Seyfried (Mank), e soddisfacendo i pronostici che la davano come favorita nella categoria, dopo aver vinto il BAFTFA e lo Screen Actors Guild Award (SAG Awards), come informa The Guardian.

In definitiva, quindi, nonostante si sia dimostrata lontana da livello di performance cui ci ha abituati l’Academy, questa edizione della cerimonia è stata memorabile per la rappresentanza delle donne, per il riconoscimento della diversità etnica nel cinema – un altro dei grandi vincitori della serata infatti è stato Daniel Kaluuya, insignito del premio come miglior attore non protagonista per il ruolo del Black Panther Fred Hampton in Judas and the Black Messiah, che ha fatto di lui il primo attore nero britannico a vincere un Oscare per i film indipendenti in particolare, che finalmente hanno trovato il loro spazio e ottenuto il riconoscimento dall’industria cinematografica americana. Speriamo che questo sia un preludio di ciò che deve ancora venire, e non semplicemente qualcosa di temporaneo, scaturito dalla mancanza di anteprime in questo ultimo anno da parte dei grandi produttori.

Friends la “reunion” tanto attesa

 

Ci eravamo già emozionati a febbraio 2020 quando, in occasione del 25° anniversario della serie, la Warner Bros. aveva annunciato che i protagonisti di Friends si sarebbero riuniti di nuovo. Ma lo show revival è costato lacrime e sudore. Questo gruppo di amici stabilitosi a New York – che sono poi diventati una famiglia per scelta e ci hanno lasciato in eredità alcuni dei momenti più comici e accattivanti della storia della televisione – è ancora con noi e, nonostante gli anni, le sue avventure non passano di moda né sembrano smettere di saperci confortare.

Finalmente però, come ha informato la BBC giusto qualche ora fa, dopo il ritardo nelle riprese – che erano previste per agosto dello scorso anno – il reunion show è stato girato la settimana scorsa,presso gli studi Warner di Burbank (Los Angeles), e andrà presto in onda su HBO Max, esattamente 17 anni dopo la messa in onda dell’ultimo episodio della serie, da sempre fra le più amate dal pubblico. La data specifica è ancora da stabilire.

Anche TMZ ha riferito la notizia, riportando che l’atteso episodio speciale è stato registrato con un pubblico per la maggior parte composto da “comparse del sindacato attori”, rispettando tutti i protocolli di sicurezza Covid, dato che che la pandemia avrebbe impedito la presenza dei soliti fan sul set. Nondimeno, non sono mancate piccole anticipazioni sul programma, che in questi giorni sono circolate sui social, pubblicate sia da parte dei presenti alle riprese che dagli stessi attori.

Come aveva commentato mesi fa Kevin Reilly, responsabile dei contenuti di HBO Max, in un’intervista per l’Hollywood Reporter, il ritorno televisivo di questa famiglia elettiva consentirà alle piattaforme di recuperare ai vecchi fan della serie e di guadagnarne di nuovi. E in effetti, nonostante gli anni, le repliche di tutte le stagioni precedenti continuano a funzionare a meraviglia nei cataloghi di piattaforme come Netflix, Amazon Prime Video o HBO.

Ovviamente però, dopo quasi due decenni di attesa per il ritorno di Jennifer Aniston, Courteney Cox, Lisa Kudrow, Matt Leblanc, Matthew Perry e David Schwimmer, non possiamo che augurarci con entusiasmo che la riunione del nostro cast preferito non deluda.

Anne Hathaway racconta il suo isolamento nel docufilm Locked Down

articolo di Alessandra De Tommasi via vanityfair.it
 

Il premio Oscar Anne Hathaway torna in scena con un progetto a metà tra la commedia e l’heist movie. Si chiama Locked Down ed è un progetto nato e girato interamente in tempo di pandemia. In arrivo dal 16 aprile in anteprima digitale, vanta nel cast Chiwetel Ejiofor e Ben Stiller.

A colloquio con Michele Soavi sul rapporto tra tecnica ed empatia

L’INGEGNO DI UN AUTORE POSTMODERNO CHE AMA IL CINEMA DI GENERE E SOSTIENE IL PICCOLO SCHERMO

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Dinanzi alla smaccata incongruenza dei colleghi che prima stigmatizzavano i prodotti televisivi, ritenendoli sterili oggetti di consumo sprovvisti di qualsivoglia cortocircuito poetico, e adesso attendono in fila il loro turno, per poter accedere alla cuccagna delle piattaforme, Michele Soavi (nella foto) fa tranquillamente spallucce. 
Mettere l’estro in cantiere, sia esso identificabile con il mercato primario di sbocco costituito dalla liturgia dell’ormai negletta sala cinematografica in febbrile attesa di riscatto o col piccolo schermo, bersagliato dai critici schiavi dell’impressionismo soggettivo e dell’infeconda alterigia, trascende le trite discipline di fazione.

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Addio a Giovanni Gastel, con i suoi scatti ha esaltato la moda made in italy

 
Il fotografo Giovanni Gastel, che con i suoi scatti ha esaltato la moda made in Italy, grazie a campagne pubblicitarie per i marchi più prestigiosi che hanno fatto il giro del mondo, è morto il 13 marzo a Milano per le complicazioni da Covid. Aveva 65 anni. Era stato ricoverato all’ospedale in Fiera a causa dell’aggravarsi dello stato di salute dopo essere stato colpito dal virus.

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Nellie Bly – si finse pazza per raccontare la verità

 

C’è un legame forte tra la delicata storia della follia e quella – altrettanto delicata – delle donne. A lungo i matti, i folli sono stati considerati dei reietti, spogliati completamente della loro umanità e respinti ai margini, rinchiusi in quei manicomi in cui nessuno poteva vederli. Altrettanto a lungo le donne sono state considerate inferiori, socialmente poco utili (all’infuori della procreazione), rinchiuse in quelle case spacciate per il loro luogo naturale. E non appena una donna cercava di uscire da quel luogo naturale, avanzando il diritto di essere autonoma e di poter avere un valore sociale ecco che quella donna diventava subito pazza, strega, isterica. Se guardiamo bene la storia della follia è una storia prevalentemente femminile, perché folle è spesso ciò che non può essere compreso, che si presenta come illogico, che non può essere controllato e che per questo spaventa.

Sappiamo bene che tanto il tema della salute mentale quanto quello delle donne è stato interessato, soprattutto a partire dagli anni ’50, da un lento e importante processo di emancipazione. Ma questo processo non si sarebbe mai potuto verificare senza l’intervento diretto di alcuni personaggi che hanno lottato per creare condizioni favorevoli al cambiamento. E quando parliamo di storia della follia e storia delle donne non possiamo non pensare a lei: Nellie Bly. 

Elizabeth Jane Cochran (il suo vero nome) nasce a Cochran’s Mill, Pennsylvania, nel 1864, ed è la tredicesima di quindici figli. Il padre, un giudice benestante, muore quando Elizabeth ha solo sei anni e la madre, per non restare sola a gestire quindici figli, decide di risposarsi poco dopo. Il secondo marito però si rivela presto per quello che è: un uomo alcolizzato e violento, che alzava spesso le mani in casa. Proprio a lui è legata la prima esperienza giudiziaria di Elizabeth che, appena adolescente, si trova a testimoniare durante il processo di divorzio della madre e a scoprire dentro se stessa un senso viscerale di fastidio nei confronti delle ingiustizie e delle discriminazioni, in primis di quelle ai danni delle donne e dei poveri.

A 16 anni si trasferisce a Pittsburgh, sperando di trovare lavoro come maestra. Sta sfogliando le pagine del Pittsburgh Dispatch, alla ricerca di un annuncio di lavoro, quando le capita sottomano un articolo intitolato What Girls Are Good For (A cosa servono le ragazze), dai toni particolarmente sessisti. Indignata dalla lettura Elizabeth prende carta e penna e scrive al direttore del giornale, confutando punto per punto il contenuto discriminatorio dell’articolo con uno stile di scrittura così chiaro e al tempo stesso inconfondibile, che quel direttore non può fare altro che chiamarla e offrirle un lavoro. È lui a proporle di scrivere sotto pseudonimo e di chiamarsi Nellie Bly, dal titolo di una celebre canzone di Stephen Foster.  Elizabeth diventa così la prima donna giornalista della storia e in breve tempo si distingue per la scelta di un tipo particolare di giornalismo: quello investigativo. Si intrufola ovunque, soprattutto nelle fabbriche, per denunciare la condizione dei poveri e delle donne. Il suo obiettivo è uno soltanto: raccontare la verità e dare voce a chi non viene ascoltato.  

In un periodo in cui alle donne non vengono praticamente riconosciuti diritti l’immagine di una ragazzina un po’ scarmigliata e piena di motivazione, che se ne va in giro a denunciare abusi e discriminazioni, dà particolarmente fastidio e George Madden, allora direttore del Pittsburgh Dispatch, è costretto a ridimensionare il lavoro di Nellie, relegandola alle pagine femminili del giornale. Ma la posta in gioco per lei è ormai più alta di un semplice guadagno: riguarda ciò che vuole essere davvero e il ruolo sociale che ha deciso di ricoprire. Così lascia il lavoro sicuro di Pittsburgh e decide di trasferirsi a New York. Ha 23 anni ed è il 1887 quando bussa alla porta di Joseph Pulitzer. Vuole lavorare per il suo quotidiano, il New York World, vuole scrivere grandi inchieste e ha una proposta ben precisa da fargli.

Di fronte a Manhattan si trova infatti un’isola, dalla forma stretta e allungata, chiamata Roosevelt Island (ai tempi Blackwell Island); una zona residenziale, tra le cui case svetta il Women’s Lunatic Asylum, un sanatorio femminile dove vengono internate, a scopo teorico di cura, donne affette da patologie mentali. Attorno a quel luogo c’è un alone di mistero, perché nessuno ci può entrare, a meno che non sia considerato malato. Nellie propone a Pulitzer un articolo sul Women’s Lunatic Asylum: vuole capire cosa succede lì dentro.

Per farlo ha una solita possibilità: fingersi pazza. Pulitzer accetta.
Il giorno stesso Nellie torna a casa, si fa un ultimo bagno, si esercita davanti allo specchio, prova alcune espressioni da “matta”. Si veste e si dirige a passo svelto verso una casa per donne indigenti e chiede un alloggio. Glielo concedono, ma da subito la responsabile e le altre donne si accorgono che in lei qualcosa non va: ripete spesso le stesse parole, sembra non ricordarsi nulla, ride a caso. Con una visita superficiale un medico stabilisce che è insane (matta) e viene direttamente spedita al Women’s Lunatic Asylum. Improvvisamente Nellie si ritrova in un contesto di abusi, disumanità, crimini e soprusi nei confronti di donne che vengono bollate come matte, ma che matte non lo sono affatto (non tutte, almeno – premesso che ci si dovrebbe intendere sul significato della parola); sono povere. Scopre che il Women’s Lunatic Asylum è un luogo in cui vengono relegate le donne che non possono mantenersi da sole, quelle che sono state ripudiate dai mariti o, ancora, quelle che hanno avuto dei figli al di fuori dal matrimonio. E che queste donne vengono spogliate, quotidianamente sedate tramite oppiacei molto forti, costrette a vivere al freddo e in condizioni igieniche terrificanti, picchiate e spesso uccise.

Considerata matta anche Nellie viene sottoposta alle stesse torture.Ogni sera le viene somministrata una terapia oppiacea che ingurgita e poi vomita, mettendosi due dita in gola, per cercare di mantenere la lucidità. Registra tutto quello che succede, scrive ogni cosa, assiste alla metamorfosi di donne che cercano di resistere con tutte le loro forze a quella violenza, ma che trovano nella follia (quella vera) la loro unica via di fuga.

Prendete una donna sana fisicamente e mentalmente, rinchiudetela, tenetela inchiodata a una panca per tutto il giorno, impeditele di comunicare, di muoversi, di ricevere notizie, fatele mangiare cose ignobili. In due mesi sprofonda nella follia.

Rischia anche lei di essere uccisa, perché quella lucidità che conserva la rende un soggetto pericoloso agli occhi dei medici e delle infermiere. Le hanno da poco iniettato un veleno letale quando un avvocato mandato da Pulitzer bussa alle porte del sanatorio chiedendo che lei venga subito liberata. I medici la rianimano in extremis.

Nellie esce dal Women’s Lunatic Asylum promettendo alle compagne che avrebbe lottato con tutte le sue forze per loro. Quando sta per prendere il traghetto per tornare a Manhattan chiede all’uomo che l’aveva liberata: “Quanti giorni sono stata qui dentro?” E lui le risponde: “dieci, signorina. Dieci giorni”. Da questa esperienza nasce la super inchiesta Ten Days in a Mad-House (oggi diventata libro) che desta scalpore e accende i riflettori su quel luogo dell’orrore. Viene aperta un’inchiesta sul Women’s Lunatic Asylum e grazie alla testimonianza di Nellie vengono presi provvedimenti molto seri: i finanziamenti al sanatorio vengono aumentati per migliorare le condizioni delle pazienti, e vengono stabiliti nuovi criteri per valutare la salute mentale delle donne.

Nel frattempo la sua fama fa il giro del paese e Nellie diventa un modello di riferimento per tutte le ragazze che, come lei, amavano scrivere e odiavano le ingiustizie e che finalmente possono vedere nel giornalismo uno sbocco lavorativo concreto.

L’anno successivo, ormai assidua collaboratrice del New York World, non è più solo lei a proporre idee, ma è anche Pulitzer ad assegnarle direttamente dei temi da trattare. È così che nasce la sua seconda grande impresa: battere il record realizzato da Jules Verne, che aveva compiuto il giro del mondo in 80 giorni. Nellie parte nel novembre nel 1889 da Hoboken, da sola, e rientra a New York il 25 gennaio del 1890. Ci ha messo in tutto 72 giorni a girare il mondo: il record è battuto e porta alla stesura del reportage Nellie Bly’s Book: Around the World in Seventy-two Days, che la rende una star indiscussa del giornalismo dell’epoca.

Conosce Robert Seaman, se ne innamora e dopo qualche anno lo sposa. Prova ad abbandonare il giornalismo, per dedicarsi a una vita più tranquilla, ma la sua è una vera vocazione e con le mani in mano non ci sa stare. Così, quando scoppia la guerra diventa la prima cronista dona inviata al fronte, e si trasferisce in Europa.

Pochi anni dopo, però, a soli 52 anni si ammala di polmonite e muore, nella sua amata New York. Ritenuta una delle donne più influenti della storia degli Stati Uniti, nel 1998 Nellie è stata inserita nella National Women’s Hall of Fame, per ricordarci che, molto di quello che abbiamo e che possiamo fare oggi lo dobbiamo a lei.

 

 

 

Tim Burton dirigerà una nuova serie con protagonista Mercoledì Addams

 

Alcuni giorni fa, The Hollywood Reporter ci ha fatto sapere che Netflix sta preparando uno spin-off di La Famiglia Addams, nello specifico una serie di otto episodi incentrati su una delle icone della nostra infanzia: Mercoledì. Wednesday – questo il titolo della nuova narrazione seriale – sarà diretto nientemeno che da Tim Burton, nonché prodotto dal regista assieme agli showrunner Al Gough e Miles Millar (Smallville, Into the Badlands), e si concentrerà sui suoi anni da studentessa alla Nevermore Academy, dove tenterà di imparare a padroneggiare i suoi poteri psichici.

Creato nel 1938 dal disegnatore Charles Addams – caricaturista della rivista The New Yorker con la passione per il dark humor – il fumetto originale di La famiglia Addams è stato adattato per il cinema e la televisione in numerose occasioni nel corso degli anni. Prima c’è stata una serie televisiva della ABC negli anni ‘60, con John Astin e Carolyn Jones come protagonisti. Poi negli anni ‘70 è seguita una seconda serie, stavolta animata; quindi, la storia della sinistra famiglia è stata ripresa e resa popolare in tutto il mondo negli anni ‘90, con i due lungometraggi interpretati da Anjelica Huston, Raul Julia e Christina Ricci (nel ruolo di Mercoledì): l’indimenticabile La famiglia Addams (1991) e il sequel La famiglia Addams 2 (1993). Poco tempo dopo, si è tornati a produrre una serie televisiva animata, e alla fine degli anni ‘90, Tim Curry e Daryl Hannah, rispettivamente nei ruoli dei coniugi Gomez e Morticia, hanno dato vita a un matrimonio da star in un altro noto lungometraggio – La famiglia Addams si riunisce – e in una serie televisiva – La nuova famiglia Addams che molti di noi ricordano ancora. Più recentemente, Nathan Lane e Bebe Neuwirth hanno portato la sinistra famiglia anche a Broadway.

Rispetto a quest’ultimo adattamento, Wednesday sarà una produzione MGM/UA Television e costituirà, come dice Netflix, “il debutto di Tim Burton come regista in televisione”, sebbene 30 anni fa, quando era praticamente sconosciuto, abbia realizzato un adattamento televisivo di Aladdin – intitolato Aladdin and His Wonderful Lamp – per la serie Faerie Tale Theatre (1982), e subito dopo, nel 1986, si sia messo dietro la macchina da presa per dirigere un famoso episodio dell’antologia televisiva Alfred Hitchcock Presents.

Teddy Biaselli, uno dei registi della nuova serie originale, durante la presentazione del progetto ha dichiarato che è stata una sorpresa per la rete poter contare sul regista cult, il quale ha raggiunto l’apice della sua fama negli anni ‘90, e le cui ultime creazioni hanno avuto meno impatto rispetto ai suoi classici Beetlejuice – Spiritello porcello (1988), Edward mani di forbice (1990), Nightmare Before Christmas (1993), Batman – Il ritorno (1992), Mars Attacks (1996) o Il pianeta delle scimmie (2001). Per lo spin-off di The Addams Family, i produttori hanno deciso di concentrarsi sul personaggio della ragazza, considerandola “il lupo solitario definitivo”. Come ha spiegato Biaselli a Deadline Hollywood:

Abbiamo ricevuto la chiamata che il regista visionario e fan di lunga data della famiglia Addams, Tim Burton, che desiderava fare il suo debutto alla regia televisiva con questa serie. Tim ha un discreto passato nel raccontare storie di potere su rinnegati sociali come, Edward mani di forbice, Lydia Deetz e Batman. E ora porterà la sua visione unica a Mercoledì e ai suoi inquietanti compagni di classe alla Nevermore Academy.

Ed è assolutamente vero. Mercoledì, così come prima di lei Lydia Deetz di Beetlejuice o Edward mani di forbice, sono personaggi emarginati ma al contempo vincenti e padroni del proprio potere personale. Ricordo ancora con piacere di aver trovato, nella mia infanzia, un modello in quel personaggio iconico che è Mercoledì: intelligente, ironica, severa e divertente, non convenzionale e politicamente scorretta, capace di maneggiare abilmente arco, frecce, corrente elettrica e coltelli, e di uccidere letteralmente suo fratello come parte della sua macabra routine di gioco. Una ragazzina che dorme fingendo di essere morta, si veste di nero e si vanta di essere diversa, proponendo così un’alternativa ai due stereotipi dominanti, la ragazzina “smorfiosa” vestita di rosa e la “maschiaccia” che gareggia con i ragazzi ed è ossessionata dallo sport. Mercoledì è un personaggio multidimensionale, una ragazzina intellettuale e ribelle, che ha le sue opinioni ed è determinata a essere sé stessa, indipendentemente dal parere altrui.

Ecco perché attendiamo con impazienza la premiere di questo nuovo adattamento, per vedere come Mercoledì si adatterà ai nuovi tempi, e se, ancora una volta, i ragazzi e le ragazze delle nuove generazioni troveranno in lei un personaggio in cui specchiarsi.

 

The Greta’s Magic Flight over Rome

GRETA  VOLA SUI TETTI DI ROMA E SULLE NOTE DI “MAGIC

a cura di Lisa Bernardini *

Greta (al secolo, Greta Elizabeth Mariani) è  una  giovane studentessa romana. E’ una  singer-songwriter bilingue, nata a Roma nel 2001 ma con  radici americane.  È suo il testo del brano Magic, in concorso per il Premio David di Donatello 2021 come “Miglior canzone originale” ed inserito  nel nuovo lavoro cinematografico di Francesco Apolloni (una co-produzione  Minerva Pictures e RAI Cinema).

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A Draghi: ………Apri i teatri !

APPELLO DEL C.E.N.D.I. C. PER LA RIAPERTURA DEI TEATRI
– Intervista a Maria Letizia Compatangelo 

di EDOARDO MARIA FRANZA 

Il Cendic, Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea, associazione che conta più di 200 autori teatrali, si è fatta portavoce degli artisti Italiani, indirizzando al neo presidente del Consiglio una lettera-appello che pone l’accento sulla necessità di riaprire in sicurezza.
Sottoscritta da oltre venti associazioni, tra le quali ANAC, ANART, UNCLA, la lettera del Cendic chiede al Presidente Draghi di non dimenticarsi degli artisti Italiani, delle compagnie teatrali e di tutto il settore culturale, motore dell’Italia (tra il 2010 e 2018 ha prodotto il 6.1 % del PIL). C’è bisogno di investimenti su teatro, cinema e audiovisivo, danza e musica: non vogliamo solo ristori, vogliamo lavorare e produrre, scrivono i firmatari dell’appello, che si dicono pronti a ripartire in sicurezza.
La lettera termina con la richiesta di riformare il FUS, punto questo già affrontato dallo stesso Cendic durante il primo tavolo permanente per lo spettacolo.

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A colloquio con Stefano Mainetti sulla musica applicata alle immagini

L’ARTE DELLA COMPOSIZIONE MUSICALE NELLA FABBRICA DEI SOGNI

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Docente di Composizione per la Musica Applicata alle Immagini, Stefano Mainetti (nella foto) serba fulgida memoria degli stimoli ricevuti dal compianto Maestro Ennio Morricone sull’audacia di sperimentare. Cercando nuove sintonie, con l’alacre messa a punto di sonorità multiformi ed epidermiche, anziché battere sempre sullo stesso tasto. L’ACMF – Associazione Compositori Musica per Film, di cui è uno dei fondatori, oltre a custodire l’arduo diritto al merito e l’opportuno carattere d’ingegno creativo in un periodo nel quale molti esponenti del mondo dello spettacolo fanno fatica ad andare avanti senza godere dei benefici previdenziali connessi all’inquadramento delle varie categorie, incentiva proprio la forza significante della polivalenza di risorse.

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Fashion Film Festival – trionfa Garrone con Le Mythe Dior

Anche quest’anno al Fashion Film Festival è stata presentata una ricca selezione di film, con quasi 200 opere pervenute da 60 Paesi in tutto il mondo. Linguaggi diversi ed eterogenei per narrazioni che hanno spaziato dal documentario alla fiction, dalla denuncia sociale alla sperimentazione artistica. Su tutti ha trionfato Le Mythe Dior di Matteo Garrone.

La centralità del racconto è l’importanza della femminilità e della natura che, come spiega Maria Grazia Chiuri a Vogue, sono la vera anima di questa collezione iniziata durante il lockdown “già sapevamo di non poter fare un reale show e mi è stato immediatamente chiaro che il mio referente doveva essere legato al sogno, al fantastico, e quindi uno dei miei film, e dei miei registi preferiti, in questo senso è Matteo Garrone con Il racconto dei racconti, il cui immaginario così sognante, si lega perfettamente alla storia di Dior.

Il corto inizia soffermandosi sull’operosità delle sarte intente a realizzare capi in miniatura destinati a clienti speciali. Protagoniste, infatti, sono le creature dei boschi, ninfe, elfi e fauni; ad un certo punto la loro quotidianità viene interrotta dall’arrivo di un baule che riproduce le sembianze della storica sede parigina. Con curiosità tutta le creature si avvicinano al baule ammirandone gli abiti e prendendoli per sé.

Un cortometraggio che trasforma la moda in sogno, magia e favola, una narrazione bucolica e che racchiude visioni oniriche ed una sperimentazione surrealista che Garrone sa esprimere in modo eccelso.

A causa dell’emergenza sanitaria è impellente la necessità di trovare nuove vie per rappresentare la moda, e questo che fino a poco fa sembrava un limite insormontabile con il blocco delle sfilate e dei servizi fotografici, si rivela, oggi, un’opportunità da cogliere per abbandonare vecchi schemi stereotipati e ridisegnare il panorama globale del mondo della moda. Così afferma anche Constanza Etro, direttrice ed ideatrice del festival Le difficoltà del periodo che stiamo vivendo ci hanno portato a dover organizzare l’edizione 2021 di Fashion Film Festival Milano con un format interamente digitale, per quanto sembri singolare, è stata per noi un’irripetibile occasione di rimetterci in gioco e di sperimentarci con la resilienza. Il risultato? Abbiamo reso democratico un Festival di grande prestigio ma che, come la moda, che è il territorio culturale di riferimento, talvolta è rimasto vittima di un certo elitarismo”.

 
 
 
 

Love Actually – l’amore è davvero dappertutto

 

I feel it in my fingers
I feel it in my toes
CHRISTMAS is all around me…

Chi ha colto la citazione, già ridacchia, ci scommetto. Per chi non ha ancora afferrato, vado subito al sodo. Ognuno ha i suoi must natalizi: per la sottoscritta, se c’è un film che andrebbe rivisto ogni anno in occasione delle Feste, quello è Love Actually.

Ricordo ancora quando uscì nelle sale, nel lontano 2003. Alla fine dei 135 minuti mi faceva male la faccia per aver troppo riso. Il che è tutto dire, visto che Love Actually appartiene a un genere di rarissima riuscita – oltre che di ancor più rara produzione -, ossia quello dei film corali: e i film corali, si sa, spesso non riescono a sostenere il ritmo fino alla fine – vedi ad esempio Cloud Atlas delle sorelle Wachowski. Bé, non Love Actually.

I pregi della commedia, scritta e diretta da Richard Curtis – sceneggiatore di Quattro matrimoni e un funerale, I love Radio Rock e dei primi due film di Bridget Jones – sono moltissimi: primo fra tutti quello di fondere il meglio del piccante e graffiante sense of humor britannico con l’ironia trash demenziale statunitense. Eppure, non è solo questo che innamora: il film costruisce un modello nuovo di romanticismo agrodolce per niente scontato, in cui episodi ai limiti dell’incredibile si incrociano con storie di vita quotidiana, vicine a quelle degli spettatori, per colpire dritto cuore – e al fegato, la cistifellea e a tutti gli organi interni. Risultato? A ogni visione, oltre che a ridere a crepapelle, ti ritrovi a piangere a getto come un rubinetto aperto, e sempre per un particolare diverso.
Se ancora non lo avete mai visto, proverò a incuriosirvi fornendovi degli ottimi motivi per rifarvi durante queste vacanze.

Innanzitutto, per il personaggio di Billy Mack, l’adorabile e depravata leggenda del rock interpretata magistralmente da Bill Nighy – la performance infatti gli è valsa molte nomination. È lui che incide l’orrenda cover natalizia citata nell’incipit dell’articolo: praticamente Love is all around di The Troggs para para, ma con la parola “Christmas” al posto di “love”. Mack è un mito caduto in disgrazia, e inizialmente sembra solo un vecchio debosciato che non sa comportarsi in modo civile. Fin da subito infatti dichiara apertamente il suo disprezzo per l’operazione commerciale a cui si sta prestando: quella non è vera musica, è spazzatura fatta per fare soldi. Chiamato a promuovere il singolo, lo ripete a tutti, giornalisti, speaker radiofonici, conduttori televisivi…e ogni volta che apre bocca tu, imbarazzato per la sua onestà dissacrante e senza freni, ti ritrovi con le mani nei capelli come il suo manager storico, Joe. Eppure c’è del metodo nella sua follia. Infatti, alla notizia che la sua orribile cover sta scalando le classifiche, Mack sfida pubblicamente i Blue, la boy band inglese, per il raggiungimento del primo posto; mano mano il rocker si rivela in tutta la sua furbizia ed esperienza: lui è un vecchio volpone, e anche se non è più di moda sa ancora come piacere al suo pubblico, come una specie di uno sciamano della goliardia. È così spinto, spontaneo, politicamente scorretto da conquistare tutti gli spettatori – quelli fittizzi come noi, quelli reali.La sua linea narrativa controbilancia i momenti sdolcinati con gag triviali molto catartiche, e senza di lui – non c’è dubbio – il film non funzionerebbe.

Poi, per il cast stellare: perché, tra interpreti principali e cammei, Love Actually è pieno zeppo di star. Gli immancabili Hugh Grant e Colin Firth – non so voi, ma per me ormai sono come due zii acquisiti, se non li vedo una volta l’anno mi mancano; e comunque, Brexit o no, se domani, come nel film, facessero Primo Ministro Grant io mi trasferirei a Londra seduta stante e lo stesso Tony Blair, cui il personaggio è vagamente ispirato, ha voluto citare il discorso alla nazione che Grant fa a un certo punto. Poi Emma Thompson e il caro, geniale Alan Rickman – per chi non ne riconosca i nomi, hanno interpretato rispettivamente Sibilla Cooman e Severus Piton nella saga cinematografica di Harry Potterdue giganti della recitazione in due ruoli insoliti per le loro carriere. E ancora, Rowan Atkinson, ovvero Mr Bean; e Liam Neeson, Keira Nightley, Laura Linney, Claudia Schiffer, l’enfant prodige Thomas Brodue-Sangster, Martin Freeman, Christopher Marshall, Billy Bob Thornton… Praticamente passi la metà del film a esclamare eccitato: “Oh mamma c’è pure lui… Hai visto chi è?  Lo hai riconosciuto? Ma questo è Coso, dai, quello bravissimo che ha fatto quel film…”.

Poi, per le musiche: tra rifacimenti, hit del momento e brani originali, la colonna sonora di Craig Armstrong è la playlist perfetta per le vostre vacanze di Natale. Romantica, nostalgica, ma fresca al punto giusto – a mio parere, i 15 anni trascorsi non si sentono affatto. Inoltre, i testi delle canzoni non sono mai casuali: quella di Armstrong è una vera e propria operazione di sceneggiatura musicale, in cui la canzone arriva a dar voce ai pensieri del personaggio o a evidenziare l’atmosfera di una scena.

Quindi, per le storie d’amore, che in realtà sono il vero tesoro della pellicola. Love Actually si compone di 12 minitrame – all’inizio erano addirittura 14, ma due sono state tagliate in corso d’opera – che trattano non solo il sentimento romantico, ma anche familiare e amicale. Sono davvero tante e tutte diverse, ognuna dolce e amara insieme. Le più tragiche e strappacuore infatti, come quella di Liam Neeson che ha perso la moglie, o quella di Emma Thompson che scopre di essere stata tradita, hanno risvolti brillanti; viceversa, le più divertenti e leggere, come quella Chris Marshall che va negli USA convinto di poter finalmente rimorchiare, o quella di Martin Freeman che, in un set cinematografico, si innamora di una donna con la quale fa da controfigura per le scene di sesso delle star, rivelano un punto di vista più profondo. Non ci sono protagonisti, ma è la giustapposizione degli episodi, tutte legati gli uni agli altri in un’unico grande intreccio complessivo, a generare senso. Ciò che ho scritto prima in realtà non vale solo per il mitico Billy Mack: nessuna storia funzionerebbe senza le altre, e soprattutto non emergerebbe l’atmosfera di comunione collettiva del film, fondamentale per instillare lo spirito natalizio. Love Actually è un film “di squadra”, in cui il vero traino sono le relazioni umane.

Infine, per il messaggio contenuto nella cornice narrativa e nel titolo. Il film infatti ha un prologo e un epilogo particolari, in cui una voce fuori campo commenta un montaggio di riprese vere, “rubate” cioè da una telecamera nascosta in aeroporto, capaci di sciogliere il più duro dei cuori. Il film inizia infatti con queste parole:  

Ogni volta che sono depresso per come vanno le cose al mondo, penso all’area degli arrivi dell’aeroporto di Heathrow. È opinione generale che ormai viviamo in un mondo fatto di odio e avidità, ma io non sono d’accordo. Per me l’amore è dappertutto. Spesso non è particolarmente nobile o degno di nota, ma comunque c’è: padri e figli, madri e figlie, mariti e mogli, fidanzati, fidanzate, amici. Quando sono state colpite le Torri Gemelle, per quanto ne so nessuna delle persone che stavano per morire ha telefonato per parlare di odio o vendetta, erano tutti messaggi d’amore. Io ho la strana sensazione che – se lo cerchi – l’amore davvero è dappertutto.

Love Actually Is Everywhere, L’Amore Davvero è Dappertutto: anche nei rapporti più indefinibili, anche nelle storie concluse con amarezza. Questo messaggio era nel 2003 ed è oggi un faro da seguire. Dobbiamo allenarci a vedere l’Amore anche nei momenti più duri, nei luoghi più ostili. Perché, come dice la hit, l’amore è intorno a noi, anzi: siamo noi ad averlo negli occhi mentre lo cerchiamo. E uno sguardo amorevole è capace di miracoli impensabili.

 

Willy Monteiro – un cortometraggio
per ricordare l’eroe ucciso a Roma

IL CORAGGIO DI UN GIOVANE, DA SOLO
CONTRO LA FEROCIA DEL “BRANCO” 

La Side Academy di Verona lavora ad un progetto diretto da Sarah Arduini, vincitrice dell’Oscar.
Il CEO e fondatore, Stefano Siganakis preannunncia:   “I protagonisti saranno degli alieni, è il nostro modo di riflettere su razzismo e bullismo”. Se ne parlerà all’Open Day del 19 dicembre.

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La regina degli scacchi – la nuova miniserie targata Netflix

articolo via https://freedamedia.it

The Queen’s Gambit, La Mistica Degli Scacchi Al Femminile

Con uno dei titoli più sfortunati della stagione, ma che allude a una delle aperture più studiate e affascinanti negli scacchi professionistici, The Queen’s Gambit è la storia di formazione di Beth Harmon, la giocatrice-prodigio che si è distinta in questo sport strategico a metà degli anni ‘60. Femminile, feroce e con un’estetica impeccabile, la miniserie, basata sul romanzo La regina degli scacchi di Walter Tevis (1983), ci presenta la mistica degli scacchi come non l’abbiamo mai vista prima.

Con molti i parallelismi con la storia del Gran Maestro e ultimo Campione del Mondo statunitense, Bobby Fischer, ovvero andando contro ogni previsione e dopo aver scoperto in tenera età un interesse e un genio innato per gli scacchi, la matematica e intuitiva Beth (interpretata da Anya Taylor-Joy) mira a dominare il mondo in quel microcosmo che è la scacchiera. Per dirla con le parole della protagonista, la scacchiera “è un mondo in 64 caselle. Un posto dove sentirsi al sicuro. Prevedibile, controllabile”.

E in effetti, come già sottolineava il famoso best seller di Katherine Neville, The Eight (incentrato sulla ricerca zelante di dei leggendari scacchi magici appartenuti a Carlo Magno), nel corso della storia è sempre esistito un innegabile desiderio di padroneggiare la scacchiera, sia letteralmente che metaforicamente. In questo caso, nello sforzo di organizzare il suo caotico mondo interiore, Beth impara a disporre i suoi pezzi seguendo il suo intuito, e sviluppando uno stile di gioco unico. Come il New York Times descrisse nel suo necrologio il genio tormentato cui si ispira questo personaggio, Fischer è stato il più potente giocatore americano della storia e anche il più enigmatico:

Fischer vinse con tale talento e stile da diventare un rappresentante indiscusso della grandezza nel mondo degli sport competitivi, proprio come lo sono stati Babe Ruth o Michael Jordan.

Ed è forse proprio dal tentativo di svelare quel mistero, e affrontare la genialità e il supplizio che spesso accompagnano i grandi prodigi, che emerge il personaggio di Beth Harmon. Tuttavia, per questa giovane donna, nonostante l’ossessione e l’ambizione che il gioco le suscita, gli scacchi “non sono solo competitivi”, sono qualcosa di bello, una dimora dove trova rifugio intellettuale e che dà senso alla sua esistenza, dopo essere rimasta orfana ed essere stata spogliata, quand’era ancora molto piccola, dei suoi pochi averi e ricordi.

Dopo l’abbandono paterno e la morte della madre biologica, essendo solo una bambina, Harmon impara a conoscere e perfeziona le sue abilità giocando a scacchi con il bidello nel seminterrato dell’orfanotrofio, e intanto svilippa (sempre in segreto) una pericolosa dipendenza dai tranquillanti, che paradossalmente sembrano non solo aiutarla a evadere, ma potenziare la sua capacità strategica. Questa vita in bilico, passata saltando da una famiglia disfunzionale all’altra, condurrà la protagonista ad abusare di droga e alcol, qualcosa di inaudito per un’adolescente, ma che però spiega perfettamente come le dipendenze si trasformino sempre nello stucco con cui pretendiamo di riempire quelle crepe che sono le ferite dell’anima.

Divisa tra delicatezza e ferocia, caratterizzata da un’intelligenza acuta e non priva di eccentricità, Harmon percorrerà la sua strada verso il successo internazionale, partecipando a gare e ottenendo riconoscimenti. Senza sacrificare la propria femminilità, riuscirà progressivamente a distinguersi in un mondo prevalentemente maschile, in cui per antonomasia, negli anni ‘60, avrebbe potuto subire un doppio pregiudizio, una doppia discriminazione: come donna fuori dai canoni in un’epoca in cui i ruoli femminili erano ancora perlopiù limitati a quelli di moglie e madre; e come giocatrice femminile in un ambiente dominato quasi esclusivamente da uomini – com’era e in parte è ancora quello delle competizioni scacchistiche.

Infatti, sebbene dal Medioevo al XVIII secolo le partite di scacchi tra uomini e donne di ceto alto figurino come un tema ricorrente nell’arte e della letteratura, nel XIX secolo il mondo degli scacchi è passato a essere dominato dagli uomini. E così è stato fino al XX secolo, quando alcune giocatrici come la britannica di origini russe Vera Menchik sono riuscite timidamente a rompere l’egemonia maschile e a partecipare alle competizioni con loro.

Garry Kasparov, considerato uno dei migliori giocatori al mondo, assicura che questa miniserie a suo parere è la fiction più realistica che sia mai stata realizzata sugli scacchi, che peraltro è uno sport molto poco visivo. Magari è per via di quella brillante e golosa estetica di cui sopra, con cui è stato portato sullo schermo, o anche per la presenza guida di un personaggio carismatico e complesso come quello di Harmon, che The Queen’s Gambit è diventato in poche settimane, e grazie al passaparola, la serie tv più guardata su Netflix.

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In omaggio a Gigi Proietti …una “Voce della Romanità”

LA  “CAPACITA’ DI PRESA IMMEDIATA” 
  di  GIGI  PROIETTI  *

Se n’è andato in concomitanza del suo ottantesimo compleanno. Il 2 Novembre. Chiamato dagli antichi romani Commemoratio Omnium Fidelium Defunctorum. Su Whatsapp gira la battuta che nascere e morire lo stesso giorno è un’impresa che poteva fare soltanto Mandrake. L’indimenticabile soprannome dell’incallito scommettitore interpretato dal compianto Gigi Proietti nel cult movie autoctono Febbre da cavallo di Steno.

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A colloquio con Eleonora Fani sull’aura contemplativa del genere sci-fi

IL RAPPORTO TRA EFFETTI SPECIALI ED EMPATIA

Una conversazione con Massimiliano Serriello

Girare un kolossal di fantascienza in Italia capace di congiungere i coefficienti spettacolari alle inquietudini filosofiche insite nell’aura contemplativa costituisce una sfida foriera di stimoli. Ma anche colma d’insidie. Il rischio di cadere dalle stelle alle stalle, in relazione all’arduo confronto con i capostipiti d’oltreoceano, non ha impedito all’arguta ed energica Eleonora Fani (nella foto) di andare avanti per la propria strada. Affrontando le multiple incombenze di produttrice, sceneggiatrice e attrice protagonista sulla scorta del peculiare mix di dedizione, estro ed entusiasmo. Il lungo processo d’incubazione che ha portato Creators – The Past nelle sale cinematografiche, in un momento storico a dir poco incerto per il mercato primario di sbocco della Settima Arte, le ha insegnato a trarre linfa persino dagli imprevisti sorti durante un intenso work in progress.

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BUIO IN SALA: TORNA LA LUCE?

IL FUTURO DEL MERCATO PRIMARIO  DI SBOCCO DEL CINEMA

Il mercato primario di sbocco del cinema, rappresentato dal rito collettivo della sala che emana sul grande schermo la magia dell’irrinunciabile sospensione dell’incredulità nel buio illuminato dal getto d’incisive ed emozionanti immagini, patisce ormai da anni l’accanita concorrenza dell’home video. Il mercato secondario di sbocco col profluvio delle piattaforme on demand genera un fatturato tale da convertire il consumatore cinematografico in consumatore filmico preferendo i luoghi domestici al circuito collettivo.

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“Kids in love”

Il viaggio di formazione di “Kids in love”
 in 1^  Visione esclusiva su Amazon Prime Video,  con Cara Delevingne

Draka Distribution presenta, in prima visione esclusiva su Amazon Prime Video, Kids in love, un “film di ragazzi per ragazzi” diretto da Chris Foggin e interpretato da Will Poulter (la trilogia Maze runner), Cara Delevingne (Città di carta) e Alma Jodorowsky (La vita di Adele). 
Dai produttori di St Trinian’s e Fusi di testa, Kids in love è stato selezionato come Miglior film inglese al Festival Internazionale dei Film di Edimburgo, ed è ora tra i titoli in evidenza sulla piattaforma Amazon Prime Video.

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