A colloquio con Ivano De Matteo sui dubbi utili dei film d’autore
UN REGISTA LEGATO AL VEICOLO D’INTERROGATIVI CRUCIALI ED ECHI SEMPITERNI DEL CINEMA
Una conversazione con Massimiliano Serriello
Molti spettatori dai gusti semplici lo identificano nel ruolo di Puma nella serie tv cult Romanzo criminale. Quelli più avvertiti ne avevano applaudita in precedenza la psicotecnica sul grande schermo in Velocità massima di Daniele Vicari. Uno spaccato sulla passione per i motori, preferiti alla sete di cultura, che sta all’adrenalinico ma superficiale Fast & Furious come il capolavoro Mulholland Drive di David Lynch sta all’ammiccante Vanilla Sky.
Al posto degli infiniti testacoda, dei coefficienti spettacolari promossi ad antidoto contro i dispendi di fosforo, lui, Ivano De Matteo, conferisce al tronfio figlio di papà detto “Fischio” un’ampia gamma di sfumature.
Sul set, nelle dispute dialettiche, non certo in punta di forchetta, con il rivale indigente e insolente impersonato dal grintoso Valerio Mastandrea (nella foto insieme a De Matteo), le forme-bandiere del canzonatorio vernacolo romanesco si sono andate ad appaiare all’espressività neolitica del volto cupo. Negato al sorriso. Nelle pause, invece, Ivano declamava con sincero trasporto ed entusiasmo ridanciano i versi dei poeti classici in grado d’illuminarne i tratti somatici, addolcendoli decisamente, spingendo così il resto del cast a esclamare, tra il divertito e lo stupito, che di Fischio se ne erano perse le tracce.
Ed è la qualità basilare degli attori che sanno entrare nello stream of consciousness dei personaggi incarnati sulla scorta della fiamma interiore che infonde all’arte della recitazione stimoli inesausti. Restando, comunque, legato all’intensa leggerezza che lo esorta a stemperare nell’ironia e nell’autoironia lo scoglio del delirio d’onnipotenza. A metterlo a riparo dalla goffa e dilettevole improntitudine dei colleghi che trascinano la ricerca delle pose maggiormente lusinghiere nella realtà è la sana estrazione proletaria.
Trasteverino di nascita, Ivano proviene da una famiglia numerosa. Il padre operaio, scomparso eppure vivissimo nei suoi ricordi, resta un esempio di rettitudine e di franchezza da anteporre al vacuo frastuono dei falsi modelli. La madre, che lo assiste tra un ciak e l’altro preparando le melanzane per l’intera troupe, è una donna schiva. Che parla con gli occhi. Lo scorso mercoledì, al Cinema delle Province, al termine della proiezione dell’amaro ed emozionante scandaglio introspettivo La bella gente, il suo sguardo emanava quel connubio di affetto e saggezza che fa difetto agli intellettuali. Che, secondo Woody Allen, non l’ultimo degli sprovveduti quindi, non sanno cogliere la verità oggettiva. Perché troppo condizionati dai compiaciuti bla-bla, dalle infeconde discipline di fazione, dall’impasse di menzognere certezze fini solo a se stesse.
Ivano è, comunque, soprattutto un regista schietto ed estroso. La bella gente è il suo fiore all’occhiello. Gli è costato fatica, sudore, soldi. Gli stessi che ha guadagnato li hai reinvestiti a sostegno della propria meravigliosa creatura. Impreziosita dall’omaggio in filigrana nei confronti del nume tutelare per eccellenza Luis Buñuel, che con L’angelo sterminatore e Il fascino discreto della borghesia seppe aprire in chiave surreale l’atroce vaso di vermi celato dagli impostori benpensanti attraverso le menzognere buone maniere.
Non c’è, però, alcuna invidia sociale. Né l’impasse delle idee attinte all’ingegno d’incensati antesignani. Ivano alla forza immaginifica del cortocircuito poetico ed evocativo privilegia, per molti versi, la crudezza oggettiva per fare una franca radiografia dei cali di personalità e delle ipocrisie nascoste dei cosiddetti radical chic. Una categoria con cui condivide alcuni punti di vista. Senza rinunciare all’onestà intellettuale che lo spinge ad ammettere di essere divenuto anch’egli un borghese. Allergico nondimeno alla spocchia intellettuale. L’intralcio assoluto alla fragranza dell’onestà.
Antonio Catania (il rimo a sinistra nella foto col cast), in grado nei panni del sensibile ma scettico capo-famiglia di arricchire La bella gente d’infiniti semitoni, preposti agli accenti sia degli irosi che tirano pugni sui tavoli sia dei saccenti che montano in cattedra a ogni piè sospinto, ha dichiarato ai tempi in cui il film fu proiettato al Teatro Valle Occupato: «Se tutti i registi avessero la passione di De Matteo, il cinema italiano sarebbe salvo».
Ivano fa spallucce, per evitare gongolando di cadere vittima dell’infruttifero narcisismo. Chi si loda, si sbroda. Così si dice nella Città Eterna. Tuttavia è felice per l’attestazione di stima dell’attore siciliano. Un fior di galantuomo alieno agli elogi a buon mercato che, piuttosto, dice quello che pensa e fa quello che dice. Anche quello che gli dice il regista per evitare di costruire castelli di carta aderendo agli slanci e ai limiti dell’architetto protagonista. Restio a ospitare nella villa delle vacanze, su sprone della moglie impegnata nel sociale, una prostituta costretta a battere. Lì a due passi. Sulla strada che porta al paese limitrofo
Ivano, lungi dal sentirsi depositario della verità assoluta, non lancia strali acuminati contro nessuno, non abbaia alla luna, non si perde nei rivoli dell’accademia, non cerca di parlare inutilmente in chicchera. Va al sodo: vuole insinuare un dubbio utile. Mentre la coppia dei vicini esibisce a bella posta la propria insensibilità, il nucleo familiare dei buonisti cela dietro la nonchalance il compiacimento dell’azione filantropica compiuta mettendosi in casa una di quelle. Che si porta dietro un dolore profondissimo. Ed è come se facesse l’amore per la prima volta quando il primogenito della coppia la seduce. Il desiderio di cambiarle la vita va a carte quarantotto. Fai del male e scordati, fai del male e pensaci. Così recita un vecchio adagio popolare che conosce la gente davvero bella dentro. All’oscuro dei versi della Divina Commedia ma col dono, assai più importante, dell’assennatezza. Ivano ne è ben provvisto insieme alla virtù di servirsi della scrittura per immagini come mezzo investigativo. Lontano dalla spocchia propinata dalle presunte élites alla stregua di un valore speciale.
Ivano non pretende di piacere a tutti, né di emettere sentenze, bensì desidera far riflettere la gente nel buio della sala. Non per toglierle il sonno. Ma per metterla all’erta. Ai prodotti d’evasione, che non procurano grattacapi, replica andando avanti per la sua strada. Irta talora di ostacoli. In apparenza insormontabili.
Le traversie distributive patite da La bella gente, divenuto proprio un film fantasma dall’ingegno più vivo che mai, lo hanno messo a dura prova. Superata grazie alla tigna di chi si batte per le giuste cause. Di chi non è accecato dalle ragioni di partito. Di chi non fa sconti. Di chi sostiene l’importanza di un confronto tra progressisti e conservatori. Tra produttori e distributori. Tra distributori ed esercenti. Purtroppo qualcosa si è inceppato nel trapasso ai limiti dell’incredibile in quattro complicati ed eterogenei contratti di distribuzione che hanno finito per rendere il film fantasma un’opera schiava delle meste circostanze.
L’uscita il 27 agosto 2015 del terzo figlio, La bella gente, è stata quindi una vittoria per il film finanziato dal ministero dei Beni culturali. Con i soldi dei cittadini gettati alle ortiche sennò. La sala commerciale, anche se la parola è disdegnata dai nerd con la testa per aria, costituisce una meta d’approdo diversa, in prassi e in spirito, dai circuiti d’essai. Ivano, d’altronde, è un regista sia da bosco sia da riviera. E i suoi film, così come i suoi due figli, gli somigliano. Da Gli equilibristi a I nostri ragazzi con Rosabell Laurenti Sellers (nella foto) capace in entrambi di far vibrare corde profonde. Nella parte della buona, la prima volta; in quella dell’incosciente, la seconda. I nostri ragazzi, attinto al romanzo La cena del vispo romanziere nonché attore olandese Herman Koch, ha esercitato sulla scorta delle interpolazioni un forte ascendente sul poliedrico regista israeliano Oren Moverman. Autore già di Time Out of Mind. Imperniato sul mondo dei senzatetto. Il suo adattamento per il cinema, The Diner, con star del calibro di Richard Gere e Laura Linney, rappresenta una pietra di paragone piuttosto curiosa per saggiare l’audacia stilistica di due autori agli antipodi ma ugualmente decisi a metterci del proprio.
La padronanza della tecnica non è un motivo di sfoggio. Le sue molle, in quest’ottica, sono le correzioni di fuoco da un soggetto all’altro e i piano-sequenza. Ivano preferisce lo spirito di verità che dal Neorealismo in poi è diventato un fertile avvicendamento ai colpi di gomiti dei colossi. Alcuni dai piedi d’argilla. I film di Ivano hanno, al contrario, i piedi ben piantati per terra. Con le idee chiare e la cognizione che le storie per il grande schermo devono usufruire del linguaggio cinematografico.
Con la dolce metà Valentina Ferlan (nella foto) s’intende a meraviglia. Sulla medesima falsariga di Billy Cristal in Harry ti presento Sally …, ha un punto di vista femminile sulle cose. Una finestra aperta sul mondo che mostra al cinema. Scrivere a quattro mani con lei gli ha permesso di scandagliare composite tematiche. Dalla violenza ai danni delle donne alla precarietà dei legami familiari; dall’angoscia delle separazioni, esacerbate dai problemi finanziari, all’insidia del bullismo che s’impadronisce mostruosamente finanche dei figli in teoria perbene. La questione della difesa personale è invece al centro dell’ultima fatica, Villetta per ospiti.
A Ivano piace da sempre combinare la passione per la musica alla costruzione dell’inquadratura e ai movimenti di macchina che trasformano i corridoi degli uffici adibiti ad alcove dalle coppie clandestine in posti tutti da scoprire. Nel bene e nel male. La geografia emozionale, che dà ai luoghi eletti a location ed ergo ad attanti narrativi carichi di senso lo stesso risalto degli attori e delle attrici, se non di più, è un altro suo irrinunciabile pallino.
Il Nord Est dello Stivale, teatro a cielo aperto di una vicenda che nell’incipit richiama alla mente Il cacciatore di Michael Cimino e Jagten di Thomas Vintenberg, sembra averlo ispirato in maniera particolare. La labile morale venatoria, gli echi della commedia all’italiana, l’ordine naturale delle cose, con i foschi presagi degli animali che da dolci bestiole si mutano in predoni secondo i princìpi dell’ineluttabile selezione darwiniana, sfociano in un noir da camera. L’egemonia del lavoro di sottrazione sull’accumulo, in nuce già con I nostri ragazzi, prende definitivamente piede. L’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici cementa la virtù di amalgamare gli affondi amari nella realtà con una partitura ritmica volutamente imperfetta. Che deriva dal jazz. Adorato pure dall’amico Marco Castrichella, proprietario della storica videoteca capitolina Hollywood – Tutto sul cinema, covo per gli amanti dei film d’autore dove Ivano fa un salto di tanto in tanto.
La predilezione per il darwinismo antropologico, che ispirò Otto Preminger, per i rimandi western, per la contaminazione dei generi, per l’indipendenza autoriale di John Cassavetes, estraneo agli scaltri segni d’ammicco privi di passione, traspare da tutti i pori. Definirlo l’erede di questi mostri sacri della cinepresa equivarrebbe a dargli quella che a Roma è chiamata ‘na calla. Il compito dei critici cinematografici consiste, all’opposto, nell’instaurare con gli autori un interscambio fondato sulla sincerità a beneficio del destinatario optimum: lo spettatore/lettore.
A Ivano vanno a genio l’Università della strada, celebrata nel 1° Festival del Cinema di San Lorenzo, e la metonimia. Utilizzata dal Maestro Sergej Michajlovič Ėjzenštejn mostrando gli stivali dei cosacchi nel cult La corazzata Potëmkin. De Matteo la parte per il tutto ne La bella gente è la traduce in pratica con l’inquadratura delle mani della bravissima Viktorija Larčenko . La mancanza di diritto al merito, con la crisi occupazionale imperante nel mondo assai poco dorato del cinema che condanna a lunghi periodi di stasi le interpreti più sensibili, è un dispiacere autentico. Specie perché Ivano conosce le fulgide doti d’immedesimazione di Viktorija sin da quando la diresse, appena sedicenne, in Ultimo stadio. Il suo primo film di finzione, dopo il documentario sugli ultras Prigionieri di una fede.
«Per me i film hanno poca importanza. La gente è più importante».
L’aforisma del compianto John Cassavetes, deux ex machina dell’orgoglioso New American Cinema, parla chiaro e tondo. Ed è la gente, bella in apparenza, brutta alla resa dei conti, imperfetta, umana, che Ivano vuole rappresentare sigillando nell’ordine esistente, in mezzo alle debite varianti umoristiche, un tragico ma utile margine d’enigma.
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