“Sorvegliare e Punire” – un “Saggio” di Michel Foucault
redatto circa 50 anni or sono ….ed oggi “rivisitato”
SE “SORVEGLIARE“ E’ UNA NECESSITA’,
FORSE “PUNIRE“ E’ UNA CONSEGUENZA ?
una analisi di FRANCESCO RICCI
Il prossimo anno saranno trascorsi cinquant’anni dalla pubblicazione di uno dei libri più importanti di Michel Foucault, Sorvegliare e punire (1975). In questo saggio, come è noto, il filosofo e storico francese ricostruiva le trasformazioni subite dall’istituzione carceraria nel periodo compreso tra il XVII e il XIX secolo, al fine di mostrare come nell’età contemporanea essa sia uno dei dispositivi che più contribuisce, tra le altre cose, a rendere gli individui docili e indifesi di fronte al potere di controllo della società capitalistica, facendoli scadere a meri “ingranaggi accuratamente subordinati di una macchina”.
Nel corso di mezzo secolo tante cose sono cambiate, rendendo il libro di Foucault sotto certi aspetti datato. La società capitalistica, infatti, oggigiorno è ancor più capitalistica di quando Sorvegliare e punire venne dato alle stampe, ma i suoi membri fanno fatica a riconoscersi e a definirsi come “soggetti d’obbedienza”. Questi ultimi, infatti, rimandano a quella “società disciplinare” che non c’è più, che è finta insieme col XX secolo.
Quella attuale, piuttosto – e Byung-Chul Han le ha dedicato pagine illuminanti –, è “la società della prestazione”, dove a dominare non è la negatività del “non potere”, bensì la positività del “poter fare”.
Detto in altri termini, a orientare la condotta dell’individuo non sono i divieti e gli obblighi, ma l’assenza di regole e l’iniziativa personale. Perché non fare ciò che si è in grado di fare? In nome di chi e di che cosa? Dio è morto, gli dei sono fuggiti, il potere è sempre più globale e indipendente dalla politica, la quale, se conserva una capacità d’incidere, la conserva unicamente su tematiche locali o, come ha scritto Zygmunt Bauman, su “faccende a portata di mano”. Niente e nessuno ostacolano la mia progettualità e la mia volontà.
Forse è anche per questo che tra il titolo e il contenuto di “Sorvegliare e punire” pare essersi ormai aperto uno iato, per cui specie il verbo “sorvegliare” suggerisce al lettore odierno metodi di controllo e formule generali di dominazione che non trovano affatto corrispondenza nel testo di Foucault.
Ad esempio, quando io ho chiesto ai miei studenti a cosa gli venisse da associare il verbo “sorvegliare”, una parte di loro mi ha risposto “alle videocamere sparse per la città”, un’altra parte “alla rete, perché in essa ogni nostra operazione o azione è spiata, tracciata, conservata”.
In effetti, noi non solo siamo avvolti nella mediasfera – terminali radio e televisori sono ovunque, nei posti di lavoro, nei negozi, negli ospedali, sui mezzi di trasporto, nelle stazioni, nelle banche –, ma siamo anche costantemente sotto gli occhi di una videocamera o di una fotocamera. Ce ne accorgiamo tutte le volte che, in presenza di un episodio di cronaca nera, ci viene detto che gli inquirenti confidano nell’aiuto di qualcuna delle telecamere della zona per risalire al colpevole e risolvere il caso.
La prevenzione e il contrasto delle forme di illegalità presenti nel territorio urbano oggi passano (anche) attraverso lo sguardo attento e rassicurante di migliaia di occhi elettronici distribuiti su tutto il territorio nazionale. E se qualche voce ancora si leva dinanzi all’annuncio del Ministro degli Interni di accrescere la presenza delle forze dell’ordine o dell’esercito in zone ritenute ad alto tasso di criminalità – “così si militarizza il Paese!” –, nessuno, invece, lamenta o critica l’allargamento del capillare sistema di controllo visivo di strade, piazze, giardini, ponti.
Da parte loro, le amministrazioni cittadine, sia di centro-sinistra sia di centro-destra, impiegano gli stessi toni trionfalistici nell’annunciare di destinare parte del bilancio comunale all’installazione di nuove videocamere di sorveglianza. Insomma, nel cancellare la possibilità di nascondersi alla vista e nell’impedire che un’azione possa non avere testimoni consiste la ricetta della sicurezza nel terzo millennio, una ricetta che sembra gradita e a chi governa e a chi è governato, e che finisce col rendere sempre più sottile la barriera che separa il mondo virtuale dal mondo reale.
Infatti, se il primo mondo è fatto di immagini che noi osserviamo comodamente sullo schermo del nostro smartphone, nel secondo mondo siamo noi che, volenti o nolenti, consapevoli o ignari, siamo ridotti a immagini registrate e conservate per la durata di un giorno.
Ciò che risulta, dunque, incontestabile, è che mai come in questa fase della storia l’uomo, come ha osservato giustamente anche Raffaele Simone in “Presi nella rete”, è stato così accerchiato dalla mediasfera.
Personalmente non ho nulla contro l’incremento del numero delle videocamere di sorveglianza, reputandole ormai necessarie alla nostra sicurezza. Ciò non significa, però, che non mi amareggi sapere di essere filmato mentre cammino per le strade della mia città. Non solo perché, ovviamente, vivo lo sguardo della videocamera come un’intrusione nella mia vita, ma, e soprattutto, perché non ritengo che fosse inevitabile, quasi destinale, giungere a tal punto di occhiuto e ubiquo controllo.
Infatti, le metropoli, i medi e piccoli centri urbani, i paesi italiani non sono sempre stati così insicuri, pericolosi, violenti come lo sono ora. Né credo che si possa attribuire la colpa di tale peggioramento esclusivamente alla globalizzazione – per la quale non nutro simpatia alcuna – come pare fare anche Zygmunt Bauman, quando scrive in Città di paure, città di speranze, che “le città sono diventate discariche di problemi generati a livello globale”. Perché se è vero che le contraddizioni e i problemi di quest’ultima hanno un impatto fortissimo a livello nazionale e urbano, è altrettanto vero che la politica italiana negli ultimi venti anni ha mostrato tutta la sua incapace inerzia nel tentare di arginarli, di alleggerirli, di risolverli almeno in parte.
A sinistra, l’apertura indiscriminata a ogni tipo di immigrazione, accompagnata dall’apologia dell’accoglienza sempre e comunque, a destra, la demonizzazione dello straniero, congiunta alla fobia della mescolanza, hanno portato a ideologizzare fortemente il dibattito politico, precludendo la possibilità di trovare pragmaticamente, e per tempo, una soluzione di buon senso largamente condivisa. A conferma che tra governare male i problemi o non governarli affatto alla fine la differenza è minima: si producono, in ogni caso, danni enormi.
Che fare a questo punto per impedire, riprendendo il titolo del già citato saggio di Zygmunt Bauman, che le nostre città diventino sempre più città che conoscono soltanto la paura e sempre meno città che sanno aprirsi alla speranza? Occorre dimenticare una volta per tutte la distinzione – perché anacronistica, inutile, dannosa – tra italiani e stranieri, sostituendola con quella tra coloro che hanno una condotta rispettosa delle leggi e coloro che le infrangono.
Chi sceglie o accetta di vivere in mezzo agli altri, qualunque sia la sua etnia, deve sapere che si trova sottoposto a un sistema di obblighi, vincoli, doveri, i quali, se infranti, comportano la privazione della libertà. Non deve passare, specie tra i giovani e i giovanissimi, il messaggio che il rispetto di tali norme è opzionale. Qui scelta non è consentita, qui scelta non si dà.
Ritengo connaturata alla società multietnica, almeno in questa fase, la formazione, all’interno delle realtà urbane, di “comunità di similarità”, vale a dire vasti gruppi di persone che tendono a frequentarsi in maniera pressoché esclusiva perché partecipano della stessa provenienza, mentalità, costumi. Forse verrà il giorno, impossibile anticipare il corso della Storia, in cui si creeranno punti di tangenza, magari perfino zone di sovrapposizione, tra i gruppi diversi.
Ma ora, come allora, se non vogliamo che le migliaia di occhi elettronici che ci osservano diventino milioni, occorre la più grande fermezza da parte dello Stato nazionale – una delle poche prerogative che gli resta – nel punire chi si pone al di fuori della legge. Senza sconti né indulgenza né, soprattutto, distinguo.
Altrimenti, le città italiane finiranno col somigliare sempre più a quelle americane, dove le innovazioni architettoniche, passate in rassegna in un suo studio da Steven Flusty, mirano a ritagliare enclave e spazi di interdizione – vere e proprie fortezze in miniatura – di cui a fruire sono soltanto i membri dell’élite globale.