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Storia di Giovanni Falcone, il giudice del maxi processo alla Mafia

«L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza»

Terzo figlio di Arturo direttore del Laboratorio chimico provinciale e Luisa Bentivegna, casalinga, Giovanni Falcone nasce a Palermo il 18 maggio 1939. Cresce nel quartiere arabo della Kalsa, in cui entra a contatto con diverse realtà. Ma i valori che ne plasmano il carattere li apprende dai racconti familiari della madre.

Costante nella sua vita sarà l’attività sportiva, cui con fatica dovette rinunciare nel periodo in cui fu messo sotto scorta. Falcone amava il calcetto, il nuoto e spesso si alzava la mattina di buonora per potersi allenare prima degli impegni quotidiani.

Dopo una breve parentesi all’Accademia navale si iscrive a Giurisprudenza con l’obiettivo di diventare magistrato.

Nel ’67 mentre si trovava come giudice di sorveglianza nel carcere di Favignana, fu preso in ostaggio da un esponente dei nuclei armati proletari che chiedeva in cambio della vita del giudice la scarcerazione e di poter parlare alla radio.

Trasferito al Palazzo di Giustizia di Palermo lavora all’Ufficio Istruzione col magistrato Rocco Chinnici e affina il suo metodo investigativo col caso Spatola. Capisce subito di trovarsi davanti a un mondo sommerso fatto di legami ambigui tra mafia, politica, finanza. E decide che per scoprire i movimenti di capitali dubbi, bisognava percorrere la strada delle indagini patrimoniali superando quindi il segreto bancario. L’inchiesta si concluderà con un durissimo attacco a Cosa nostra e delle condanne esemplari che porteranno alla morte di Chinnici.

La Sicilia degli anni ’80 era teatro della seconda guerra di mafia e nel tentativo di porvi un freno, il neo direttore dell’Ufficio Istruzione Antonio Caponnetto costituì il pool antimafia con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.

Fu grazie al rivoluzionario sistema investigativo di Falcone che si arriverà al famosissimo maxi processo che vedrà sfilare in manette circa 460 persone, tutte condannate al massimo della pena.

Un lavoro complesso e articolato che ha avuto origine successivamente all’arresto in Brasile di Tommaso Buscetta, che diventato un pentito consegnò nelle mani degli investigatori dettagli riguardanti l’organizzazione e i nomi dei mandanti e degli esecutori di numerose stragi. Arrivando a fornire particolari importanti sui legami tra Cosa nostra e la politica.

Falcone ricorderà come «Prima di lui non avevo, non avevamo, che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare a gesti».

Nel periodo in cui fu istituito il processo, per studiare gli incartamenti sia Falcone che Borsellino furono mandati per questioni di sicurezza nel carcere di massima sicurezza dell’Asinara. Qui vissero per diverso tempo nella “Casa rossa” che altro non era che la foresteria del carcere.

Ironia della sorte lo Stato presentò a entrambi il conto per l’affitto.

Chiuso il maxi processo, andato in pensione Caponnetto, sarebbe sembrato fisiologico che alla guida del pool antimafia e quindi dell’Ufficio Istruzione sarebbe andato Giovanni Falcone, ma il Consiglio Supremo della Magistratura nominò Antonio Meli, un vecchio magistrato che non credendo pienamente nei metodi innovativi di indagine, smantellerà il pool rovinando di fatto tutto il lavoro svolta fino ad allora.

É così che inizia il periodo più complesso della vita di Falcone, il quale si troverà isolato nel Palazzo di Giustizia rinominato “dei veleni“. Cominciano anche a girare delle lettere sospette in cui un certo “Corvo” lanciava contro il giudice delle pesanti accuse, come quella di aver orchestrato l’attentato dell’Addaura. Nella residenza estiva, vicino al luogo in cui era solito fare il bagno, venne ritrovato da un agente della scorta un borsone contenente dell’esplosivo.

Questo isolamento di cui fu vittima lo portò a trasferirsi nella Capitale, speranzoso di trovare un clima diverso. Un pomeriggio, mentre dall’aeroporto di Punta Raisi di recava a Palermo, un’esplosione che distrugge l’autostrada di Capaci, mette fine alla vita del giudice, della moglie il magistrato Francesca Morvillo e degli uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.

L’unico a salvarsi sarà l’autista Giuseppe Costanza che quel giorno sedeva sui sedili posteriori. Ogni tanto forse per avere una breve parentesi di normalità, era proprio il giudice Falcone a voler guidare la vettura blindata.

A trent’anni da quel dramma che ha messo fine all’uomo simbolo della lotta alla Mafia, si sono svolte numerose manifestazioni in suo ricordo.

Gianfranco Cannarozzo                                                                                                              Miriam Dei

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