Un libro per Paola Cortellesi e co.
Solitamente i premi cinematografici sono vincenti perché in un modo o nell’altro fanno presa anche su coloro che del cinema non sono appassionati. Tuttavia la premessa per l’edizione 2024 dei David di Donatello (come è stato per gli Oscar del resto) è che la familiarità degli spettatori più o meno consapevoli con determinati film sia aumentata e si riscontra una diffusa familiarità con molti film grazie alla pubblicità dei media.
Non è un caso che il film manifesto “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi abbia conquistato buona parte del pubblico e degli addetti ai lavori e trionfato ai David di Donatello: il film stesso è costruito sulla rabbia, e la protesta in nome delle donne vittime del sistema patriarcale sopravvissuto alla caduta del fascismo, questo lo scopo dichiarato dalla regista. In tempo di lotte al fantasma del patriarcato è grasso che cola.
Ed ecco che la protagonista del film si sveglia e il marito la schiaffeggia: il losco figuro è il padre/padrone dei suoi figli, di lei stessa e persino degli spiccioli che guadagna alternando lavori da sarta e iniezioni a domicilio. Nel loro seminterrato non può mancare il suocero allettato, tremendo maschilista che alla povera donna augura d’”imparà a stà zitta” e ricevere un “fracco de legnate” dal marito.
La pellicola, che vuole per fortuna omaggiare il neorealismo italiano, mischia momenti sopra le righe e scopiazzature di capolavori come “Paisà”, e si è proposta sin da subito come un’operazione premeditata e studiata a tavolino, per poter puntare dritta al David di Donatello e ad altri premi nazionali allineati. Detto, fatto. Basti pensare al finale con il referendum monarchia/repubblica aperto anche alle donne che appare forzato, didascalico e ideologico.
Insomma il film della Cortellesi è lontano anni luce dai capolavori nel neorealismo, per contenuti e linguaggio: una sorta di spot progresso femminista con valore pedagogico che purtroppo non tiene conto di geniali intuizioni che nel cinema fanno la differenza. A Paola Cortellesi, ai suoi sostenitori e a chi è ormai anestetizzato dalla propaganda neo-femminista contro un patriarcato che non c’è più, consigliamo il libro “Oscure Madri Splendenti” di Luciana Percovich, studiosa impegnata nella ricostruzione del potere femminile e della formazione dell’espressione cosmogenica “Regina dei cieli” che nacque successivamente il noto “Padre nostro che sei nei cieli”. La forza vitale nell’antichità era dunque femmina e a donare la vita e dispensare la morte era una Dea: la donna e il proprio corpo erano la porta di ingresso a questo mondo, l’utero nel grembo femminile rappresentava “una soglia tra ciò che è e ciò che ancora non è”.
L’universale dominazione maschile dunque è un mito come sostiene l’antropologa Susan C. Rogers che, grazie all’esempio della società di un villaggio francese del XX secolo, capovolge l’ideologico e grossolano tentativo di render conto della storia della relazione tra i sessi alla luce di una internazionale prevaricazione sul femminile. Naturalmente non si vuole negare affatto che vi sia stata per secoli una cultura patriarcale, ma perché quasi nessuno tra gli esperti, non si è mai chiesto il perché: la maggioranza continua a leggervi rancorosamente solo il gusto sadico del maschio di sottomettere la femmina.
Sarebbe troppo chiedere a chi si fa portabandiera della lotta al patriarcato e diviene un punto di riferimento per chi crede nella compattezza di un sistema e non nei dati reali, di riflettere sul perché abbiamo permesso ad un automatismo del pensiero, di insinuarsi nel nostro rapporto con l’identità sessuale, dando vita ad un femminismo generalizzato e vittimista che mira al potere?
Non ha torto la filosofa francese Bérénice Levet secondo la quale il femminismo è «ultima grande storia per gli orfani di sinistra», per una generazione «nostalgica delle filosofie della Storia, impaziente di trasformare il mondo e di rigenerare gli uomini».
Se Paola Cortellesi e company leggessero qualche libro di antropologia (consigliamo autrici donne onde evitare accuse di misogina), si renderebbero conto, si spera, che una relazione, la si dovrebbe analizzare non con uno schema fisso e infantile che non tiene conto della complessità e della natura.
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