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Venezuela: due pesi e due misure

 

In un paese che si definisce cattolico, per descrivere l’atteggiamento adottato da alcuni stati in politica estera, è necessario rifarsi ad un insegnamento di Cristo, riportato nel Vangelo secondo Matteo, dedicato agli scribi e ai farisei, il cui succo è il seguente: i fedeli debbono osservare tutto ciò che essi dicono, ma non debbono agire copiandone le opere perché essi sono ipocriti. Pongono sulle spalle del popolo pesi insopportabili e compiti difficili ma non muovono neppure un dito per alleviarne le fatiche. Tutto quello che fanno ha un solo fine cioè conseguire l’ammirazione del popolo, ottenere il posto di prima fila, il rispetto collegato all’autorità. Nell’intimo operano solo per il loro bene per l’autoaffermazione nella brama di autoglorificazione; nel rapporto con gli altri, verso chi si sottomette mostrano una comprensione paternalistica, ma verso chi resiste provano a schiacciarlo. Da cui il detto dei due pesi e due misure.

Guardiamo cosa succede in Venezuela. A scanso di equivoci e di malintesi premetto che Maduro, rieletto Presidente per la seconda volta a maggio 2018 con il 70% dei consensi (ma ha votato meno della metà del corpo elettorale) e che ha iniziato il nuovo mandato ai primi di gennaio 2019, non gode del mio apprezzamento. L’opposizione venezuelana, ripetendo il solito cliché del perdente che accusa il vincente di brogli (lo fece anche Berlusconi contro Prodi, al Gore contro Bush figlio e era pronto a farlo anche Trump se avesse perso la presidenza avendo ricevuto meno voti popolari della Clinton) ha contestato la legittimità della rielezione di Maduro denunciando brogli e che si era trattato di elezioni truccate perché in lizza non c’erano validi contendenti.

Il Venezuela è grande tre volte l’Italia con una popolazione che è la metà della nostra. In compenso ha un’enorme ricchezza petrolifera nel sottosuolo (le sue riserve sono stimate in 296 miliardi di barili cioè 43 miliardi di tonnellate di petrolio) che lo pone di gran lunga in testa ad ogni altro paese produttore e dunque avanti a Arabia Saudita, Canada, Iran, Iraq, Kuwait, eccetera. Ciò nonostante un migliaio di famiglie detiene il 70% della ricchezza nazionale, mentre il 90% della popolazione vive in povertà.

Maduro, erede del Chavismo socialista, ha tentato la redistribuzione del reddito, ma proprio negli anni del ridimensionamento del prezzo del greggio, si è rivelato incapace di rilanciare l’economia del paese, pesantemente colpita dal boicottaggio e dal sistema sanzionatorio degli Stati Uniti. A ciò si aggiunga la reazione degli oligarchi interni che non vogliono perdere i propri privilegi e ricchezze e che soffiano sul malcontento popolare sempre con l’appoggio degli Stati Uniti, desiderosi di disfarsi del vicino capo popolo socialista, che ha avuto l’ardire di sfidarli alleandosi con l’Iran.

In effetti a Washington si è affermata da qualche decennio la linea di politica estera basata sul metodo classico dello strangolamento economico del governo inviso, prima attraverso le sanzioni, poi puntando sul malcontento popolare opportunamente aizzato, fino ad arrivare alla guerra civile o al colpo di stato o all’intervento militare.

Così è stato con il Cile di Allende, con la Serbia di Milosevic, con l’Iraq di Saddam Hussein, con la Libia di Gheddafi, con l’Egitto di Morsi, con la Siria di Assad (dove non è stato compiuto l’ultimo miglio solo perché la forte presenza militare russa lo ha impedito) con Panama e con altri paesi, mentre è ancora in corso un’altra partita sullo stesso modello appunto contro l’Iran.

La motivazione americana per giustificare la pesante ingerenza negli affari interni di un altro Stato, in violazione del diritto internazionale, è che il popolo venezuelano si sarebbe chiaramente espresso negli scontri di piazza per le estese difficoltà economiche contro Maduro contestandone la legittimità della rielezione.

Per sostenere questa tesi gli Stati Uniti hanno manifestato pubblicamente il proprio orientamento, la cui tempistica è sospetta e dimostra come ogni mossa sia stata studiata con mesi in anticipo.

Il presidente dell’Assemblea nazionale venezuelana Juan Guaidò, con il pieno sostegno di Bolton, Consigliere speciale per la sicurezza di Trump e di Pompeo, Segretario di Stato, si è autoproclamato presidente. Nel farlo si è avvalso di un cavillo costituzionale secondo cui in caso di vacanza di potere e di emergenza nazionale i poteri di capo dello Stato spettano al presidente dell’Assemblea, ma l’alta Corte suprema ha dichiarato questa procedura illegittima e l’auto proclamazione alla presidenza come non avvenuta perché contraria alla legge ed ha stabilito come “nullo e privo di validità” il giuramento di Guaidò e dei vertici dell’Assemblea parlamentare.

Trump non solo ha riconosciuto immediatamente Guaidò come presidente, ma ha invitato l’esercito venezuelano a ribellarsi a Maduro, ha sollecitato gli altri capi di Stato dell’America Latina e nel mondo a riconoscere Guaidò ed infine ha già messo la pistola sul tavolo dicendo che tutte le opzioni sono possibili inclusa quella militare.

Non contento di ciò ha fatto ricorso al solito Quisling per esibire una personalità contraria al regime da abbattere, pratica già sperimentata con l’affarista Karzai per l’Afghanistan, e con il generale Haftar per la Libia, entrambi collaboratori della CIA. Questa volta ha pubblicizzato che l’addetto militare venezuelano a Washington, si è schierato per Guaidò (come dire garanzia del posto di ministro della difesa in caso di vittoria di Guaidò).

Ma pressioni sono state esercitate anche sull’Europa. Stante l’atteggiamento prudenziale della Commissione e della Mogherini, si è fatta avanti la Spagna, in veste di mosca cocchiera, seguita dalla Francia, Gran Bretagna e Germania, nell’inviare a Caracas un ultimatum, in puro stile ottocentesco,: o Maduro indice entro otto giorni nuove elezioni o verrà riconosciuto come Presidente Guaidò con tutte le conseguenze politiche del caso.

Dunque il mondo intero sta con il fiato sospeso non solo per le privazioni e gli scontri sofferti dal popolo venezuelano, ma perché si sta solidificando un aspro confronto tra Stati Uniti da una parte e Cina e Russia dall’altra sul tavolo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dove i leader di Pechino e Mosca hanno già manifestato l’intenzione di esercitare il potere di veto su qualsiasi testo di risoluzione anti Maduro.

Al segretario di Stato Pompeo che ha definito quello di Maduro un regime mafioso dal quale bisogna liberare al più presto il Venezuela, ha risposto l’ambasciatore russo che ha paragonato la politica di Trump, ancorata ai tempi della guerra fredda, all’organizzazione di un golpe, come ai tempi di Nixon e Kissinger. Gli ha fatto eco l’inviato di Maduro che ha accusato i paesi satelliti degli Stati Uniti di essersi mossi all’unisono al segnale di Trump nell’appoggiare una chiara violazione della carta dell’Onu e del principio dell’autodeterminazione dei popoli accettato ad Helsinki nel 1975. Una stoccata è stata riservata all’Europa il cui ultimatum è stato definito infantile e a Macron invitato ad occuparsi della rivolta dei gilet gialli piuttosto che stare dalla parte di un burattino dell’imperialismo e delle pressioni di Pompeo.

Quanto all’Italia, Conte ha dovuto frenare le intemperanze di Salvini che tenta sempre di straripare in terreni altrui ed ha emesso un comunicato abbastanza equilibrato “Auspichiamo la necessità di una riconciliazione nazionale e di un processo politico che si svolga in modo ordinato e che consenta al popolo venezuelano di arrivare quanto prima a esercitare libere scelte democratiche ma siamo contrari a interventi impositivi di altri Paesi. L’Italia sta con il popolo venezuelano e auspica per esso migliori condizioni di vita politica, sociale ed economica”.

Torquato CARDILLI