Vivere e convivere sul pianeta Terra
L’uomo ha bisogno di cibo, di acqua, di energia e di materie prime per vivere. Abbiamo bisogno di spazio per creare città, coltivare i campi e costruire fabbriche. In definitiva, tutto viene dalla Terra, ma il successo della nostra specie ne sta compromettendo molte altre. Abbattiamo le foreste, depauperiamo gli oceani, avveleniamo e cementifichiamo il terreno. Spingiamo decine di migliaia di specie vegetali e animali sull’orlo dell’estinzione accaparrandoci le risorse di base, quali l’energia e lo spazio. Stiamo assistendo a un’estinzione di massa senza precedenti dopo quella dei dinosauri, ma stavolta ne siamo noi la causa.
La perdita della biodiversità è un problema per tutti. La diminuzione delle specie può mettere a rischio gli ecosistemi, portarli al degrado e alla distruzione. «Ciò costituisce un pericolo per la continuità dei servizi che forniscono, il che a sua volta compromette la biodiversità e lo stato di salute degli ecosistemi», afferma il WWF nel suo rapporto del 2010 sul Pianeta vivente, un’accurata valutazione dell’impronta globale che l’uomo lascia sulla Terra. L’uomo danneggia l’ambiente in più modi. Distrugge e rovina gli habitat naturali: abbatte le foreste per fare spazio a colture, nuove città o stabilimenti. Realizza dighe sui fiumi per costruire centrali idroelettriche o migliorare l’irrigazione dei campi. Sfrutta eccessivamente animali e piante selvatici per ricavarne cibo, materie prime, medicine o anche solo per hobby. Trasferisce le specie da un habitat all’altro causando gravi problemi alle varietà locali, che si ritrovano costrette a competere per le risorse o non sono in grado di combattere le malattie portate dagli invasori. Inquinamento e cambiamenti climatici stanno trasformando e avvelenando l’ambiente del mondo intero.
Il tasso di perdita della biodiversità è allarmante nei paesi a basso reddito, spesso situati in zone tropicali, mentre il mondo sviluppato vive in un finto paradiso, tra consumi eccessivi ed emissioni di carbonio, ha affermato Jim Leape, direttore generale del WWF International alla pubblicazione del rapporto sul Pianeta vivente. Le diminuzioni più significative della biodiversità sono state registrate nei paesi a reddito minore, con una riduzione quasi del 60% negli ultimi quarant’anni. Il WWF accusa il consumo insostenibile dei paesi più ricchi, che esaurisce le risorse di quelli più poveri.
L’impronta ecologica è un parametro che indica quanti ettari di bosco, terreni da pascolo, terreni coltivabili e mari siano necessari per rinnovare le risorse utilizzate e assorbire i rifiuti generati. Ebbene il rapporto del WWF ha evidenziato che i dieci paesi con l’impronta ecologica maggiore pro capite erano nel 2010 gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, la Danimarca, il Belgio, gli Stati Uniti, l’Estonia, il Canada, l’Australia, il Kuwait e l’Irlanda. Inoltre, i trentun paesi dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), comprendente le economie più ricche del mondo, sono responsabili quasi del 40% dell’impronta ecologica globale. Un numero pressoché doppio di persone vive nelle economie emergenti, quali il Brasile, la Russia, l’India e la Cina: se seguiranno lo stesso orientamento di sviluppo, la loro impronta ecologica pro capite potrebbe superare quella dei paesi dell’OCSE.
Se continueremo a vivere al di sopra delle possibilità della Terra, nel 2030 avremo bisogno delle risorse di due Terre per soddisfare la domanda annuale. Il rapporto indica che, continuando con le attuali tendenze di consumo, arriveremo al punto di non ritorno. Sarebbero necessarie 4,5 Terre per sostentare una popolazione globale che vivesse come un cittadino medio degli Stati Uniti, afferma Leape. Nel 2010 gli esemplari di langur dalla testa dorata, che vive solo sull’isola di Cat Ba nel Vietnam nordorientale, erano ridotti a sessanta-settanta. C’erano meno di cento lepilemuri settentrionali in Madagascar e circa centodieci gibboni dalla cresta nera nel Vietnam nordorientale. A causa della frammentazione dell’habitat e dall’abbattimento delle foreste per scopi agricoli, per esempio per piantare palme da olio, dell’orango di Sumatra restavano seimilaseicento esemplari. L’Unione mondiale per la conservazione della natura (IUCN) ritiene che quasi la metà delle specie di primati del mondo, tra cui le grandi scimmie e i lemuri, siano a rischio di estinzione in seguito alla distruzione delle foreste tropicali, alla caccia e al commercio illegali. La situazione dei primati del Madagascar, dell’Africa, dell’Asia, dell’America centrale e meridionale è disperata: il 48% delle 634 specie è minacciato, e molte sono a rischio imminente di estinzione. E quando una popolazione è piccola, i disastri sono sempre grandi: un ciclone tropicale potrebbe, per esempio, spazzar via le ultime centinaia di esemplari rimasti.
Nei mari gli squali stanno scomparendo rapidamente. In alcune parti del mondo lo squalo martello è diminuito del 99% negli ultimi trent’anni ed è stato dichiarato globalmente a rischio nella lista rossa dell’IUCN, che include più di 130 varietà di squali. Le popolazioni dell’Atlantico nordoccidentale sono diminuite in media del 50% dall’inizio degli anni settanta. Nel 2007 ventuno paesi che praticano la pesca dello squalo hanno dichiarato di averne pescate più di 10000 tonnellate, il 42% delle quali è stato totalizzato dai primi cinque consumatori, Indonesia, India, Taiwan, Spagna e Messico. Gli squali sono particolarmente vulnerabili perché possono impiegare decenni a diventare adulti e fanno pochi piccoli. Ci sono molti altri animali e piante minacciati dall’uomo: tigri, coralli, gorilla, rinoceronti bianchi settentrionali, axolotl, tartarughe liuto, alligatori cinesi, corvi delle Hawaii e leopardi delle nevi rappresentano solo una piccola percentuale delle specie in pericolo.
Negli ultimi decenni la pesca eccessiva ha causato una diminuzione del 90% della popolazione di squali nel mondo e una del 99% lungo la costa orientale degli Stati Uniti, fenomeno questo che ha già iniziato ad influenzare la vita dell’uomo. Dopo il crollo della loro popolazione nel 2000, la pastinaca comune, tradizionale preda degli squali, si è moltiplicata in modo esponenziale lungo le coste statunitensi. Nel 2004 le pastinache hanno a loro volta sterminato le popolazioni di pettini della Carolina del Nord, devastando le zone di pesca e portando alla rovina un’economia locale vecchia più di un secolo.
Il WWF ritiene che, agli attuali tassi di consumo e di degrado dell’ambiente naturale, l’ecosistema collasserà nell’arco di cinquant’anni. Dobbiamo commisurare i nostri consumi con la capacità del mondo naturale di rigenerarsi e di assorbire le nostre scorie. Se non lo facciamo, rischiamo danni irreversibili, afferma Leape. Sono stati messi a punto programmi internazionali per cercare di arginare
in parte le perdite. Il programma REDD delle Nazioni Unite (Riduzione delle emissioni provenienti dalla deforestazione e dal degrado delle foreste nei paesi in via di sviluppo), proposto nell’ambito di un accordo globale per affrontare i cambiamenti climatici, sarà determinante per conservare la popolazione in declino dei primati. L’idea è che i paesi ricchi paghino quelli in via di sviluppo perché tutelino le loro foreste, in modo da conservare il carbonio e impedire ulteriori emissioni di gas serra.
Nicola Sparvieri
Foto © Terra Nuova